Usa, il suicidio di Paula Cooper simbolo contro la pena di morte

Condannata da 16enne alla pena capitale, per lei si mobilitò il mondo

WASHINGTON Una storia maledetta, dall’inizio alla fine. Paula Cooper, che fu la più giovane condannata a morte americana, è stata trovata senza vita in un appartamento di Indianapolis. Il rapporto della polizia suggerisce come prima ipotesi il suicidio. Un colpo di pistola alla testa. L’indagine, come sempre in questi casi, resta aperta per altri accertamenti. Sarebbe così per tutti, ancora di più per questa vittima. E per ciò che ha rappresentato.
È il 1986. Paula, allora quindicenne, uccide in modo brutale un’insegnante di religione, la povera Ruth Pelke. La killer le sale a cavalcioni, la insulta, le chiede dove sono i soldi, poi infierisce con un coltello. Ruth non può difendersi, risponde pregando il Signore. La polizia risolve il caso in modo rapido. Finiscono in manette la ragazza e tre complici, tutti ragazzini. Il loro processo si conclude con una sentenza esemplare: condanna capitale per Cooper, lunghe pene detentive per gli altri. L’orrore per il delitto, atroce, senza attenuanti, è seguito dalle polemiche per il verdetto.
Ci si chiede come sia possibile mandare sul patibolo una quindicenne, una giovane che non ha conosciuto la giovinezza ma solo abusi e violenza. Non si invoca clemenza ma pietà. Nasce così una campagna internazionale, dagli Usa all’Europa, per fermare il boia. Tra i più attivi in Italia i radicali. Si raccolgono firme, si lanciano appelli, si muove anche Giovanni Paolo II. Tra quanti chiedono una soluzione diversa c’è anche Bill Pelke, il nipote di Ruth. Visita spesso Paula in prigione, intreccia un rapporto di amicizia solido, cerca di sensibilizzare autorità e opinione pubblica.
Alla fine la battaglia per Paula ottiene l’impossibile. La Corte Suprema Usa, chiamata a pronunciarsi su un altro caso, sancisce che è incostituzionale giustiziare chiunque abbia meno di 16 anni al momento del crimine. La Corte dell’Indiana si adegua e commuta la pena per la Cooper in 60 anni di prigione. Paula ne sconterà 27 e uscirà, per buona condotta, nel 2013.
Durante il periodo nel penitenziario studia, segue corsi di filosofia, si guadagna un diploma da infermiera. I professori di allora ricordano le sue difficoltà, l’incapacità di stabilire un rapporto tra il gesto criminale che ha compiuto e gli effetti. «Era una bambina e non doveva essere trattata da adulta», sottolinea Warren Lewis, uno degli insegnanti. E all’inizio delle detenzione Paula si mette ancora nei guai aggredendo una guardia. Assalto che le costerà tre anni di isolamento. Poi il riscatto, il tentativo di trovare un’altra strada. Missione difficile, sentiero pieno di ostacoli.
Una volta fuori Paula Cooper è diventata quasi invisibile, faticava forse ad adattarsi. Bill Pelke rivela che in uno scambio di email l’ex condannata le aveva detto: «Sono spaventata. Ho passato gran parte della mia vita dietro le sbarre. Non so fare un assegno o pagare una bolletta». E il professor Lewis aggiunge: «Probabilmente aveva dei problemi a interagire con il nuovo mondo». Eppure voleva aiutare quanti avevano sbagliato a redimersi, era pronta a dare una mano in un’associazione di sostegno ad ex detenuti. Non c’è riuscita. La storia maledetta si è chiusa alle 7.15 di un mattino, all’isolato 9500 di Angola Court, Indianapolis.
Guido Olimpio

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