Segio e Ronconi, chi ha paura di una firma?

I “semiliberi” Susanna Ronconi e Sergio Segio hanno rischiato di perdere il loro pezzo di libertà per rientrare in galera a tempo pieno

I “semiliberi” Susanna Ronconi e Sergio Segio hanno rischiato di perdere il loro pezzo di libertà  per rientrare in galera a tempo pieno. Lavorano ambedue presso il Gruppo Abele di Torino «dalle ore 9 alle ore 18 di tutti i giorni, escluse le festività , le domeniche e il sabato pomeriggio», come suona il «Programma» per i detenuti in semilibertà . Recentemente, però, sono stati accusati di non stare abbastanza zitti: invece di puro lavoro di «segreteria» (agenzia “Aspe” sull’emarginazione e mensile “Narcomafie” sul narcotraffico, ambedue editi dal Gruppo Abele, sotto la direzione di don Luigi Ciotti), i due “semiliberi” avrebbero assunto funzioni di prima pagina, troppo giornalistiche. Fin qui l’accusa.

Fortunatamente, il 15 giugno scorso, la Camera di consiglio competente ha riconosciuto l’infondatezza delle accuse. Ma la vicenda rappresenta un segnale preoccupante, sul quale vale la pena di riflettere. Come mai questo rigurgito di vecchia paura, questa riapertura di antiche ferite? Non credo che si possa rispondere invocando una sorta di vendetta dei narcotrafficanti nei confronti dell’opera di “Narcomafie” e del Gruppo Abele.

Lasciando ai giuristi competenti la discussione sulla vertenza giudiziaria, penso che sia bene individuarne i risvolti politici. La questione Ronconi-Segio dimostra quanto sia difficile chiudere la vertenza «politica» degli anni di piombo.

Dal punto di vista giuridico sembra che tutto o quasi sia stato risolto, grazie alla legge Gozzini. Sembra: in realtà  molti, più o meno colpevoli, sono ancora in galera, molti in una relativa «semilibertà » e soprattutto appare lontana una soluzione giuridica definitiva. È sul piano politico che non si fanno passi avanti. Non si vuole accettare che una pagina della nostra storia è proprio chiusa. Con le sue vittime, purtroppo, molte delle quali assolutamente innocenti. Inutile stare ancora a chiedere atti di contrizione, più o meno solenni e pubblici. Ciascuno ha tutto il diritto di ricordare e piangere i propri morti, ma insieme ha il dovere di non attardarsi in atteggiamenti che impediscono di guardare avanti. Si potrebbe anche riflettere sulla ingiunzione di «stare zitti». Come se la «semilibertà » (brutta parola) comportasse anche una «semicoscienza», una «semiresponsabilità » nei confronti di quello che avviene nel mondo. Un «semidiritto» di parola per i «semicittadini».

I «semiliberi» devono essere giudicati per quello che dicono e fanno oggi, non per quello che hanno detto e fatto nel passato. Come tutti i cittadini.

(“Il manifesto”, 29 giugno 1993)

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