Dall’omicidio Mattarella a via D’Amelio così l’inchiesta riscrive 30 anni di storia

Nel 1992 l’atto finale della guerra del doppio Stato: pezzi di istituzioni hanno usato e protetto la mafia·

Un quadro fosco: poliziotti infedeli, prove scomparse, verbali d’interrogatorio o di perquisizione distrutti o contraffatti, falsi obiettivi investigativi ostinatamente perseguiti, pentiti pilotati Già  nell’89, dopo il fallito attentato all’Addaura, Falcone avvertiva: ci troviamo di fronte a menti raffinatissime. Esistono forse punti di collegamento con centri occulti di potere ·

Nel 1992 l’atto finale della guerra del doppio Stato: pezzi di istituzioni hanno usato e protetto la mafia·

Un quadro fosco: poliziotti infedeli, prove scomparse, verbali d’interrogatorio o di perquisizione distrutti o contraffatti, falsi obiettivi investigativi ostinatamente perseguiti, pentiti pilotati Già  nell’89, dopo il fallito attentato all’Addaura, Falcone avvertiva: ci troviamo di fronte a menti raffinatissime. Esistono forse punti di collegamento con centri occulti di potere ·

I morti del 1992 sono solo gli ultimi. Quelle stragi, in Sicilia, erano cominciate molto tempo prima. Con Falcone e Borsellino c´è stato l´atto finale di una guerra fra Stato e Stato che si trascinava da anni, segnata da una spaventosa sequela di delitti eccellenti e da altrettante congiure.
Non c´è soltanto da scoprire che cosa è avvenuto nella tragica estate del 1992, non c´è soltanto da capire chi ha voluto la bomba dell´Addaura, chi ha progettato gli attentati di Capaci e di via Mariano D´Amelio. Prima di quella resa dei conti qualcuno aveva già fatto precipitare Palermo in uno strapiombo italiano nascondendosi dietro la mafia.
Per quasi un quarto di secolo Cosa Nostra è stata usata e protetta, s´è guadagnata la sua impunità – pensate alle latitanze di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, il primo ricercato e libero per 24 anni e 7 mesi e l´altro ricercato e libero per 42 anni e 8 mesi – scatenandosi alla bisogna. Tutelata da un pezzo dello Stato che la manovrava contro un altro pezzo dello Stato. Quelli che hanno deciso l´uccisione di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino sono gli stessi poteri – vengono di volta in volta definiti gruppi affaristici-massonici, apparati deviati, «entità» – che negli anni precedenti avevano incaricato o incoraggiato o suggerito di eliminare un impressionante numero di uomini delle Istituzioni, magistrati, poliziotti, giornalisti, segretari di partito (della maggioranza e dell´opposizione), ufficiali dei carabinieri, prefetti, parlamentari. Da Pio La Torre a Carlo Alberto dalla Chiesa, da Rocco Chinnici a Gaetano Costa, da Piersanti Mattarella a Cesare Terranova. Tutti omicidi mandati in archivio come delitti «politico-mafiosi», ma tutte esecuzioni «accollate» esclusivamente ai Corleonesi e al loro capo che nel frattempo era diventato il dittatore di Cosa Nostra.
Oggi, venti e anche trent´anni dopo, quella storia siciliana che è storia italiana deve essere tutta riscritta. È stato solo Totò Riina e i suoi macellai a spazzare via uno dopo l´altro quei personaggi che «disturbavano» un ordine antico, che rappresentavano uno Stato che non era lo Stato sceso a patti con la mafia? È stato soltanto lui, lo «zio» Totò, a destabilizzare la Sicilia e l´Italia dalla fine degli Anni Settanta sino al principio degli Anni Novanta? Partendo dalle indagini dei procuratori di Caltanissetta e di Palermo sull´estate del 1992, partendo dalle loro dichiarazioni ufficiali («Non è stata solo Cosa Nostra a volere il massacro di via D´Amelio»), partendo dalle scoperte di questi ultimi mesi («I depistaggi sono stati colossali»), si rintracciano indizi che portano a ribaltare molte delle certezze acquisite sulla matrice dei grandi delitti di Palermo. Le inchieste della magistratura, trasportate sapientemente su binari morti, stanno arrivando a queste conclusioni con notevole ritardo.
Prendiamo come esempio l´Addaura. Già il 21 giugno del 1989, soltanto qualche ora dopo il fallito attentato all´Addaura, il giudice Falcone aveva indicato chi potevano essere i suoi sicari («Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento fra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l´impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi»), eppure quella pista non è mai stata battuta. Tutto è stato scaricato solo e soltanto sui boss dell´Arenella e di Resuttana. Soltanto oggi stanno affiorando brandelli di verità, frammenti che potrebbero farci «risistemare» anche tutto il resto.
Funzionari dei servizi segreti ritrovati sui luoghi delle stragi, alti ufficiali che trattavano con i capi mafiosi mentre magistrati come Paolo Borsellino andavano soli incontro alla morte, spie avvistate in officine dove caricavano esplosivi alla vigilia degli attentati, poliziotti infedeli, prove scomparse, verbali d´interrogatorio o di perquisizione distrutti o contraffatti, falsi obiettivi investigativi ostinatamente perseguiti, pentiti pilotati: è il resoconto delle indagini sulle indagini, il bilancio delle inchieste che erano state fatte su Capaci e su via Mariano D´Amelio.
Ma è in ogni delitto eccellente avvenuto anche prima di quel 1992, è in ogni altro significativo momento di Palermo che si individuano – con implacabile regolarità – sempre le stesse impronte. Che non sono mai impronte di mafia ma impronte di Stato. La cassaforte svuotata del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il covo ripulito di Riina, l´enigmatico libanese dell´attentato al consigliere istruttore Chinnici, le piste nere dell´assassinio di Mattarella, i Corvi delle estati palermitani. È un inventario di vuoti, di pezzi mancanti.
Persino la cosiddetta guerra di mafia dei primi anni 80 – millecinquecento cadaveri nelle quattro province della Sicilia occidentale fra la primavera del 1981 e l´autunno del 1983 – quasi trent´anni dopo appare non più, e comunque non solo, come una guerra di mafia ma come uno sterminio (dalla parte dei Corleonesi perdite zero, feriti zero) voluto da qualcuno per annientare una mafia che non era più adeguata a quella stagione. Troppo «istituzionale». Ne serviva un´altra di mafia: quella stragista, quella di Totò Riina.
Ogni epoca ha avuto la sua mafia. E la nostra epoca ha avuto la necessità di avere la mafia di Corleone. Fino a quando anche quella non è servita più. Dopo le bombe l´hanno sacrificata, braccata e seppellita per sempre nei bracci del 41 bis.

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