Il razzismo degli indifferenti

Un buon consiglio per l’anno nuovo, considerato anche il pericolo che corrono i pochi media indipendenti, è di sforzarsi di leggere i giornali non solo per quel che dicono ma anche per quel che non dicono. Prendiamo per esempio un fenomeno la cui metastasi è tanto estesa quanto sottovalutata: il razzismo. «Non si tratterebbe di vero e proprio razzismo né di vera e propria xenofobia, ma di ‘guerra tra poveri’, ‘atti di persone montate’, ‘parole inconsulte’, e via giustificando., è questo il «registro minimizzante tipico dell’informazione embedded o imbonita».

Un buon consiglio per l’anno nuovo, considerato anche il pericolo che corrono i pochi media indipendenti, è di sforzarsi di leggere i giornali non solo per quel che dicono ma anche per quel che non dicono. Prendiamo per esempio un fenomeno la cui metastasi è tanto estesa quanto sottovalutata: il razzismo. «Non si tratterebbe di vero e proprio razzismo né di vera e propria xenofobia, ma di ‘guerra tra poveri’, ‘atti di persone montate’, ‘parole inconsulte’, e via giustificando., è questo il «registro minimizzante tipico dell’informazione embedded o imbonita».
A scrivere queste parole è Renato Curcio, in «Razzismo e indifferenza», libro di Sensibili alle foglie, la sua casa editrice, che ha una prefazione di don Andrea Gallo. Il metodo di Curcio consiste nel cercare di non parlare di una qualunque questione sociale «dall’alto», in modo astratto, ma al contrario di cercare tracce di risposte nei laboratori o cantieri che lui stesso e i suoi collaboratori organizzano con la complicità di molti altri (don Gallo, appunto, ma in Lombardia Michele Di Bona, già operaio di linea e poi sindacalista occupato con migranti, senza casa, persone con disagi psichici…). Questo libro è il frutto di due di questi cantieri, tenuti alla Comunità di San Benedetto al porto, a Genova, e nel centro sociale di Rovato, vicino Brescia, prezioso focolaio di resistenza all’epidemia leghista.
Quel che Curcio fa notare, prima di tutto, è come la sottovalutazione o minimizzazione del razzismo, il raccontare come folklore i maiali portati dai leghisti sulle aree in cui si dovrebbero costruire moschee, o le cravatte verdi esibite come segnale di identità aggressiva, abbassi la soglia della reattività sociale alle «ordinarie vicende di vergognosa discriminazione». Il che produce indifferenza, non «quella un po’ bolsa, generata dalla noia, dall’assenza di fede e di entusiasmo che manifestano, per fare un esempio, personaggi dei romanzi di Alberto Moravia»; piuttosto, «quella indifferenza morale, sempre più diffusa nel mondo del lavoro sferzato dalle fruste della precarietà…; quel rimanere impietriti in una complice immobilità di fronte al compiersi sotto i nostri occhi di un sopruso». Per dirla semplice, è quel che ciascuno di noi prova – angoscia e impotenza – quando capisce che un altro argine è stato travolto, che discriminazione, segregazione, sfruttamento su basi etniche, sono ingredienti ormai correnti del modo di vivere sociale.
Come è potuto accadere?, ci chiediamo. Renato Curcio, e coloro che hanno partecipato ai suoi laboratori, forniscono qualche cartello indicatore, parziale e provvisorio per forza, perché «le classi ben distinte dei buoni e dei cattivi esistono soltanto nei discorsi degli ipocriti e dei loro portavoce», che è un modo di dire come l’indifferenza contagi – più o meno – ciascuno di noi.
E la prima di queste risposte parziali sta nella sistematica omissione, nella coscienza e storia nazionali, di quanto peso abbiano avuto ideologie, politiche di stato o coloniali, leggi razziali (non solo quelle contro gli ebrei del fascismo), stragi e massacri giustificati da queste visioni delle cose. O il razzismo domestico contro i meridionali, che pure abbiamo subito in giro per il mondo: chi erano i «white nigger», i negri pallidi, tra i migranti che sbarcavano negli Usa? Gli italiani del sud. Non citato nel libro, ma a conferma: se guardate su internet i registri di Ellis Island, a New York, dove tra Otto e Novecento approdavano i migranti europei, vedrete in molti casi scritto, nella casella sulla provenienza, «South Italy», come se il disprezzo verso i meridionali si fosse internazionalizzato.
Questa mancanza di memoria fa da materia prima alla «fabbrica del razzismo», a quella terrorizzante affermazione di Bauman citata da Curcio: «Auschwitz fu anche un’estensione del moderno sistema di fabbrica». Così, è questo genere di globalizzazione e di capitalismo a fondare la nuova indifferenza verso le nuove schiavitù.
Quando parliamo di comunità locali, di democrazia cittadina, non di solo ambiente si tratta, ma di guarire i grumi velenosi della discriminazione, della creazione del nemico e della paura. (Il libro si può richiedere attraverso il sito www.sensibiliallefoglie.com).

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