Per Beccaria vittoria a metà su tortura e pena di morte

Violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse
Violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse

Tra breve cadranno i 250 anni del 1764, allorché Cesare Beccaria diede alle stampe Dei delitti e delle pene . Beccaria aveva 26 anni (era nato nel 1738) quando pubblicò — senza firmarlo — quel libro e, ai tempi, era un giovane funzionario dell’amministrazione austriaca in Lombardia. Il saggio è uno straordinario atto d’accusa contro la pena di morte e contro la tortura (quest’ultima già abolita in Svezia nel 1734, a Ginevra nel 1738, in Prussia nel 1740, in Austria nel 1752: però in Francia lo sarà solo nel 1780). Ma, a metà Settecento, l’abolizione della pena capitale è ancora un tabù. Beccaria, per privilegiare il carcere al patibolo, scrive: «Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, bensì il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti». Il condannato che espìa sul patibolo suscita una «compassione mescolata al disprezzo», piuttosto che «il salutare terrore che la legge pretende ispirare».
Dopodiché si pone un problema che molti (ad esempio qui da noi i Radicali) affrontano ancora oggi: non è da considerarsi la schiavitù perpetua, vale a dire l’ergastolo, contraria quanto la morte a ogni principio di civiltà e ugualmente crudele? Beccaria risponde che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà, crudele, anche di più, ma questi «sono stesi sopra tutta la vita e quella esercita tutta la sua forza in un momento… ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre». Laddove più che l’argomento usato per ribattere ai fautori del patibolo, va considerata la sensibilità che lo porta ad individuare, già a metà Settecento, il labile confine tra capestro e prigione a vita.
Beccaria si batte con decisione per la secolarizzazione della giustizia. I crimini, secondo lui, non devono più essere concepiti come peccati, ma soltanto come infrazioni sociali: «Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, non dei peccati, de’ quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia». Spingendosi a chiedere una riformulazione di tutte le pene, ivi compresa quella per i suicidi, che all’epoca si traduceva nella pratica dei «processi ai cadaveri» (una sentenza del Parlamento di Parigi del 1749 disponeva che — a offesa dei parenti — i corpi di coloro che si erano dati la morte fossero messi pubblicamente su una graticola, «testa in giù, faccia rivolta contro la terra»). La repressione del suicidio, scriveva Beccaria, è socialmente inutile: punisce una famiglia innocente, agisce senza effetto «sul corpo freddo e insensibile» del morto. Inoltre la pena «non farà alcuna impressione sui viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua». Il «processo ai cadaveri» è per lui un’usanza «ingiusta e tirannica perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali».
Parole di fuoco spendeva poi contro la lentezza dei processi: «La prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile». Va ricordato che quando Beccaria scrive non sono ancora stati del tutto aboliti i roghi delle streghe ed è ancora vivo il ricordo dell’atroce morte inflitta nel 1757 (dopo il «supplizio delle tenaglie») a Robert Damiens, «squartato da quattro cavalli» per aver ferito con un colpo di temperino il «corpo reale» di Luigi XV.
In Francia, l’abate André Morellet lesse Dei delitti e delle pene e lo tradusse nella sua lingua, impegnandosi a diffonderlo. A operazione compiuta, il 3 gennaio del 1766 scrisse a Beccaria i sensi della propria ammirazione. Beccaria gli rispose raccontandogli quanto fosse stato importante per lui la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu, del rilievo che avevano avuto per la sua formazione autori come Helvétius, Diderot e d’Alembert, di quanto avesse contato, più in generale, la cultura francese per aprirgli gli occhi dopo «otto anni di istruzione fanatica e servile» ricevuta dai gesuiti. Sembravano le premesse per un asse illuminista che avrebbe presto congiunto Milano a Parigi. E invece…
Anno fatidico il 1766. In febbraio, Dei delitti e delle pene viene messo all’Indice dalla Chiesa di Roma e alcuni mesi dopo (in settembre) Voltaire proclama Beccaria «fratello in filosofia». Nel 1767 il libro sarà tradotto in inglese da John Almon. Quello stesso anno ne comparirà una vibrante confutazione ad opera di Pierre-François Muyart de Vouglans (definito da Voltaire «l’avvocato della barbarie»). Il monaco Ferdinando Facchinei accuserà Beccaria di essere il «Rousseau degli italiani». Definizione che lui accoglierà come un encomio. Nel 1770, Gustavo III di Svezia esprime il suo apprezzamento per l’opera. Lo stesso faranno in Spagna Carlo III e negli Stati Uniti Thomas Jefferson. Nel 1786, il granduca di Toscana Leopoldo II, in omaggio alle sue tesi, abolirà la pena di morte.
Ma torniamo al 1766. Quell’anno, scrive Michel Porret, nel libro Beccaria. Il diritto di punire (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), il nostro autore sarà amareggiato da alcune circostanze. In particolare da un viaggio a Parigi che compirà in autunno. I suoi due più cari amici Alessandro e Pietro Verri, fondatori dell’Accademia dei Pugni e della rivista «Il Caffè», lo convincono ad andare in ottobre, a Parigi, dove per merito, come si è detto, dell’abate Morellet il suo libro è già molto famoso. Lì in Francia, però, «l’intellettualismo gelido e il clima libertario dei salotti letterari parigini», racconta Porret, «infastidiscono il milanese; la sua timidezza invece delude i francesi… Malinconico, geloso della moglie corteggiata da Pietro Verri, Beccaria, in dicembre, lascia prematuramente Parigi e ritorna a Milano… Progettato per sei mesi il suo “tour filosofico” è un fallimento».
Da quel momento si fa sempre più schivo e sospettoso. È invitato in Russia per entrare in una commissione legislativa voluta da Caterina II, così come Diderot che viene chiamato a fare da istruttore al futuro zar Paolo I. D’Alembert sconsiglia a Beccaria quel passo: «Perderete molto al cambio, un bel clima per un Paese molto sgradevole, la libertà per la schiavitù, e i vostri amici per una principessa di gran merito, ma che tuttavia è meglio avere come amante che come moglie». Risultato: Diderot accetta, mentre Beccaria rifiuta. Poi una nuova delusione. Nell’Enciclopedia , che viene pubblicata dal 1751 al 1772 (quindi per ben otto anni ancora dopo l’uscita di Dei delitti e delle pene ) di lui non si fa menzione. Nel 1769 Beccaria accetta di essere nominato professore in «Scienze camerali» presso le Scuole palatine di Milano. Nel 1791 accoglierà l’invito a far parte della commissione per la revisione del sistema giudiziario civile e criminale della Lombardia austriaca. Nel 1794, all’età di 56 anni, morirà per un colpo apoplettico. Nove anni dopo che sua figlia Giulia aveva dato alla luce Alessandro Manzoni. Quella Giulia che, per uno strano intreccio della storia, a dispetto del matrimonio con l’anziano conte Pietro Manzoni, aveva perso la testa per il vivace Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro.
Oggi, ad oltre due secoli dalla morte di Beccaria, Michel Porret ricorda che nel mondo solo 109 Stati su 192 (poco più della metà) hanno gradualmente eliminato la pena capitale, oppure rinunciano al suo impiego. Ma, come con ostinazione ci riportano alla memoria i seguaci di Marco Pannella e di Emma Bonino, accanto a regimi autoritari (Cina, Iran, Iraq, Pakistan) e teocratici, nei quali la sfera religiosa contamina sempre quella penale (Afghanistan, Arabia Saudita, Nigeria), gli Stati Uniti restano l’unica potenza democratica che si sottrae all’abolizione totale della pena di morte. Anche se la Corte suprema ne limita ora l’applicazione (esclusa per i malati di mente), essa rimane in vigore in 38 Stati. E tutte, ma proprio tutte, le rivoluzioni del secolo scorso si sono distinte per il ricorso al capestro.
A 250 anni dalla pubblicazione del suo libro, siamo dunque ben lontani dall’aver assistito al trionfo di Beccaria. Anzi in alcuni campi, come quello delle sevizie sui prigionieri, si sono fatti addirittura dei passi indietro. Per fortuna, però, il solco da lui tracciato è ancora assai fecondo. E un bel libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino), ne è la riprova. Il libro è interamente dedicato al mondo del dopo 11 settembre 2001, dove «tutto pare rimesso di colpo in discussione». Vengono ricordate la dure parole di Beccaria contro le crudeltà nei confronti dei sospettati: «Un altro ridicolo motivo contro la tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe essere tollerato nel decimottavo secolo». «Noi scriviamo nel XXI», si limitano ad aggiungere i due autori. I quali ricordano come Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica, nel 1775 scrisse, nel saggio Sull’abolizione della tortura (pubblicato a Zurigo), che quello poggiato sulle afflizioni non era potere legittimo, bensì tirannia.
Tirannia che si regge su un intreccio di violenza e paura, intreccio che dà l’illusione a colui che vi fa ricorso di aumentare la propria stabilità, proprio nel momento in cui sta imboccando il cammino del suo declino. Quel che avrebbe ripetuto con forza anche Gaetano Filangieri. E che avrebbe ribadito nel Novecento Hannah Arendt: « Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere». In Sulla violenza (Guanda) la Arendt scrive: «Sostituendo la violenza al potere si può ottenere la vittoria, il prezzo però è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto ma anche dal vincitore… In nessun caso il fattore di autodistruzione nella vittoria della violenza sul potere è più evidente che nell’uso del terrore per mantenere la dominazione… Il terrore non è la stessa cosa della violenza; è piuttosto la forma di governo che viene in essere quando la violenza, avendo distrutto tutto il potere, non abdica, ma al contrario rimane in una posizione di controllo assoluto».
Va ricordato però che il citato Sonnenfels, a differenza di Beccaria, concesse una deroga all’abolizionismo: definì la tortura «lecita» laddove si tratta di scoprire i complici del reo. È possibile che l’«eccezione di Sonnenfels» sia stata pensata, concedono La Torre e Lalatta Costerbosa, «al fine di rendere la sua proposta abolizionista meno radicale e dunque capace di ottenere l’approvazione della corona». Resta il fatto che il suo abolizionismo non è «assoluto» e «lascia aperto un varco all’uso della tortura nelle situazioni di emergenza che sono oggi — come sappiamo — quelle che si invocano per giustificare la revisione del consolidato e assoluto divieto di torturare». Proprio quelle che Friedrich von Spee già all’inizio del Seicento aveva riconosciuto come «insidiose e infondate». A rendere più evidenti i tratti della sua grandezza, La Torre e Lalatta Costerbosa fanno notare quante resistenze incontrò Beccaria. Per ironia della sorte nel Ducato di Milano fu Gabriele Verri, padre di Pietro, Alessandro e Giovanni a formulare un parere del Senato contrario all’abolizione della tortura. Gabriele Verri suggerisce un «uso temperato della tortura» (cioè non esteso a tutti i reati, escludendo «i casi senza prova alcuna e coloro che già sono stati condannati a morte»); tortura che, però, Verri padre conferma valida tanto nell’interrogatorio come mezzo per l’accertamento della verità, quanto come pena prevista per taluni reati.
Per mettere meglio in risalto la novità rappresentata da Beccaria, molte pagine di questi libri sono dedicate a importanti pensatori che in un modo o nell’altro hanno giustificato la tortura. È il caso di Jeremy Bentham, che «sorprendentemente» accetta, nel 1843, questo genere di vessazioni. Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio, circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo scopo della detenzione del reo per Bentham «è poco chiaro»; il rapporto tra fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato. Nella tortura al contrario la «catena causale» tra fatto ed effetto o risultato è assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che «la detenzione è predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze inflitte». Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono indirizzate.
Restando alla tortura, importantissimo è poi, secondo La Torre e Lalatta Costerbosa, il discorso di Beccaria sulla presunzione di innocenza. «Un uomo», scrive Beccaria, «non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dà la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?». Discorso qui fatto per la tortura, ma che può tranquillamente essere esteso a forme particolarmente afflittive della carcerazione preventiva. Come è quella di far calare una cappa di infamia sul «detenuto in attesa di giudizio».
«Parlò invano e ancora per molti anni Cesare Beccaria», ha scritto Francesco Calasso nella voce «Tortura» della Enciclopedia italiana (1937), «ma la Rivoluzione francese spazzò via per sempre» la tortura, «chiudendo così una delle pagine più dolorose e lugubri della storia dell’umanità». «E colpisce, anzi scoraggia», affermano nel 2013 La Torre e Lalatta Costerbosa, che quell’analisi che doveva «apparire ovvia» alla fine degli anni Trenta, oggi risulti invece «ottimistica e ingenua».
Pur tuttavia Beccaria ebbe molti riconoscimenti dopo la morte. Ma all’epoca in cui visse fu un incompreso. Anche negli ambienti che avrebbero dovuto essergli non ostili. A favore della pena capitale, sia pure in casi limite, era stato Montesquieu per il quale «un cittadino merita la morte, quando ha violato la sicurezza al punto da togliere la vita, o da cercare di toglierla… Tale pena di morte è come il rimedio della società malata». Lo sarà Rousseau, secondo cui la forca è legittima contro il «nemico pubblico» che si manifesti in contrasto allo Stato: in questo caso è «un atto contro un nemico piuttosto che un’azione contro un cittadino» (quel «nemico pubblico», gli risponderà Beccaria, non è altro che un «uomo vinto»). E contro l’abolizione della pena di morte saranno sia Kant che Hegel. Kant — ricorda Michel Porret — intorno al 1796 rimprovera a Beccaria «il sentimento di falsa umanità» che lo ha ispirato e stabilisce che «il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa in ragione del crimine commesso». Senza questo diritto, afferma il filosofo, «il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla». E Hegel la pensa più o meno nello stesso modo.
Del resto, Voltaire — che pure di Beccaria era stato un grande estimatore — nel 1768 gli aveva scritto una lettera di encomio sì («Voi avete spianato il cammino dell’equità, nel quale tanti uomini procedono ancora come barbari»), ma con uno spiraglio aperto nei confronti della pena di morte. Voltaire aveva paragonato la propria difesa di Jean Calas — nel Trattato sulla tolleranza (1763) — a quella che Beccaria aveva fatto del cavaliere de la Barre mandato a morte, non ancora ventenne, il 1 luglio 1766 per non essersi tolto il cappello al cospetto di una processione e per aver pronunciato frasi blasfeme. Una vicenda quest’ultima «più orribile» di quella di Calas il quale, scrive il filosofo, «avrebbe meritato il suo supplizio se l’accusa fosse stata provata». E invece no: secondo Beccaria nessuno e per nessun motivo può mai meritare quel supplizio.
Ancora più dirompente è — sempre nel solco aperto da Beccaria — quel che afferma Luigi Ferrajoli in un libro-conversazione con Mauro Barberis: Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino). Ferrajoli, uno dei magistrati che alcuni decenni fa fondarono Magistratura democratica, se la prende con l’attuale «andamento circolare della logica inquisitoria, che rende le tesi accusatorie di fatto infalsificabili». Una «tentazione pericolosa soprattutto nei grandi processi, nei quali, anche a causa della loro risonanza mediatica, il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria reputazione professionale». D’accordo, ma che c’entra Beccaria? «È questa forza del pregiudizio», risponde Ferrajoli, «che trasforma il procedimento in quello che Cesare Beccaria chiamò il “processo offensivo”, nel quale il giudice anziché essere “un indifferente ricercatore del vero… diviene nemico del reo”». E non vuole trovare la verità del fatto, «ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo si arroga in tutte le cose».
A Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot e Condorcet, vale a dire ai filosofi dei Lumi è ispirata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino decretata dall’Assemblea nazionale il 26 agosto 1789, che pure manteneva in vigore «l’ultimo supplizio». E in Francia, a dispetto delle molteplici battaglie abolizioniste (la più celebre delle quali fu quella di Victor Hugo con il libro L’ultimo giorno di un condannato e altri scritti sulla pena di morte pubblicato in Italia da Rizzoli), l’abrogazione della pena di morte si avrà solo nel 1981, ad opera del ministro della giustizia Robert Badinter.
Dopodiché, prosegue Ferrajoli (qui in sintonia piena con i Radicali italiani), «si dovrebbe avere il coraggio di togliere al carcere la centralità che occupa negli odierni sistemi punitivi, e non solo nel nostro, approvando misure di drastica decarcerizzazione». Il carcere, «lo sappiamo, è un’invenzione moderna: una conquista dell’illuminismo penale, in alternativa alla pena capitale, ai supplizi, alle pene corporali, alla gogna e agli altri orrori del diritto premoderno; tuttavia, poiché consiste nella privazione di un diritto fondamentale come è la libertà personale, oltre che di vessazioni lesive della dignità della persona, esso si giustifica solo nella misura “minima possibile” secondo l’insegnamento di Beccaria: come extrema ratio , cioè soltanto per reati lesivi di altri diritti o beni fondamentali costituzionalmente stabiliti».
Ciò che, a detta di Ferrajoli, richiede almeno tre riforme. La prima è «l’abolizione della vergogna, in Europa ormai quasi soltanto italiana, della pena dell’ergastolo, palesemente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato». La Corte costituzionale ha dichiarato con due sentenze (nel 1974 e nel 1983) che questo genere di pena non è incostituzionale perché di fatto virtualmente non è perpetua, essendo riducibile a 28 anni di reclusione grazie alla sospensione condizionale e a circa vent’anni grazie ai benefici di pena introdotti dalla riforma penitenziaria del 1975 ed estesi dalla legge Gozzini del 1986. Ma, osserva Ferrajoli, «a parte che questo non è vero, essendoci ancora nelle nostre carceri molti ergastolani che hanno espiato ben più di 28 anni di reclusione, la Corte costituzionale non deve decidere sui fatti bensì sulle norme, censurandone l’invalidità, quale che sia il numero di violazioni costituzionali da esse reso di fatto possibile».
La seconda delle tre riforme, sempre secondo Ferrajoli, dovrebbe consistere in un drastico abbassamento della durata della reclusione, fino ai livelli degli altri Paesi europei: non più quindi gli attuali trent’anni, ma venti o quindici, come in Francia, in Germania, in Danimarca e nei Paesi scandinavi e come potenzialmente avviene anche in Italia qualora siano concessi, nella forma delle attuali misure alternative alla detenzione, i benefici di pena previsti, in base ai progressi nella rieducazione, dalla legge Gozzini. Ne conseguirebbe «oltre alla restaurazione della certezza delle pene, l’eliminazione di tutti quegli strani esami diagnostici oggi richiesti per la concessione dei benefici e consistenti, quando non si risolvono in giudizi puramente burocratici, in lesioni della libertà interiore della persona, cioè del suo diritto di essere e rimanere quella che è».
Terza riforma che ci imporrebbe la coerenza con Beccaria e «forse la più importante» dovrebbe essere «la previsione della reclusione per i soli reati più gravi e, per tutti gli altri reati, di pene più lievi quali sono le attuali misure alternative, che occorrerebbe perciò trasformare in pene principali, irrogate direttamente dal giudice al momento della condanna: come gli arresti domiciliari, la detenzione di fine settimana, la sorveglianza speciale, la libertà vigilata e l’affidamento in prova ai servizi sociali». Ripetiamo: c’è una grande sintonia con alcune importanti battaglie dei Radicali italiani nonché di settori consistenti (e trasversali) della politica, ma anche della cultura del nostro Paese. È probabile che il prossimo anno, quando si ricorderanno i due secoli e mezzo dalla pubblicazione dell’importante libro di Cesare Beccaria, dai convegni a lui dedicati vengano fuori idee (e iniziative) destinate ad avere un’eco maggiore di quella prodotta dalle celebrazioni. È molto probabile.

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