“Trattati come animali, era meglio il carcere ci tengono rinchiusi per i soldi dello Stato”

I miei amici che hanno usato ago e filo sono deboli, hanno le labbra gonfie e non mangiano Ma vogliono continuare. Ahmed e i compagni con la bocca cucita: vi racconto l’inferno di Ponte Galeria. In cinquanta abbiamo deciso di fare lo sciopero della fame, solo i nigeriani non si sono voluti unire
I miei amici che hanno usato ago e filo sono deboli, hanno le labbra gonfie e non mangiano Ma vogliono continuare. Ahmed e i compagni con la bocca cucita: vi racconto l’inferno di Ponte Galeria. In cinquanta abbiamo deciso di fare lo sciopero della fame, solo i nigeriani non si sono voluti unire

ROMA — «Come gli animali: in gabbia ». Ahmed lo ripete due, tre volte per spiegare cosa significa vivere dentro un Cie. Lui a Ponte Galeria, periferia ovest di Roma, a due passi dall’aeroporto di Fiumicino, c’è arrivato tre mesi fa, spedito qui dal carcere di Lanciano dove ha scontato 4 anni per droga. In questi giorni di tensioni e proteste si è fatto portavoce della situazione all’interno del centro: sabato in otto hanno deciso di cucirsi la bocca con ago e filo improvvisati. Ieri se n’erano aggiunti altri due: in totale sono in 10 ad avere le labbra serrate da uno o due punti. Ci aveva pensato anche lui, Ahmed. Poi ha lasciato stare: «Ma non perché ho paura: lo farei pure io, sono pronto anche a bruciarmi i vestiti. Solo che adesso ho bisogno di avere la bocca libera. Devo parlare, voglio raccontare com’è qui». Intanto, lui e altri 50 hanno iniziato uno sciopero della fame.
Perché queste forme così estreme di protesta?
«Perché qui si sta peggio del carcere. Non è vita questa. C’è gente arrivata da Lampedusa che è già stata chiusa per 2 mesi nel Cie di Caltanissetta: non hanno fatto niente, non hanno compiuto nessun reato. La maggior parte di loro è scappata dalla miseria. Semplicemente non hanno i documenti. Non parlano nemmeno italiano e non capiscono perché devono restare ancora qui».
Ieri sono arrivati numerosi politici a Ponte Galeria: cosa avete chiesto?
«Di andare via: vogliamo essere liberi. Ma loro non possono prometterci nulla».
Quali sono le vostre condizioni di vita lì dentro?
«Viviamo quasi tutto il giorno nelle camerate: in alcune c’è la televisione, in altre no. I muri delle stanze sono scassati, il riscaldamento non funziona tanto bene. L’acqua una volta è calda e un’altra è fredda. Per non parlare di asciugamani e lenzuola».
Cos’hanno che non va?
«Sono di carta: lenzuola di carta, asciugamani di carta. Secondo quelli del centro dovrebbero durare anche tre giorni. Se qualcuno, quando entra, prova a portarsi qualcosa da fuori glielo fanno lasciare ».
Avete una mensa?
«Sì, c’è una mensa ma alla fine molti di noi preferiscono portarsi da mangiare in stanza. Il cibo va bene, non è quello il problema. Ringraziando dio, ci basta un po’ di pane e un po’ d’acqua».
Come venite trattati?
«Dipende: i lavoratori della cooperativa che gestisce il centro ci trattano normalmente, non si comportano male. Ma spesso abbiamo a che fare con la polizia. E basta che facciamo qualcosa che a loro non piace per essere minacciati: “Ti portiamo via, ti portiamo in carcere”, ci dicono. Ma qui è peggio del carcere e io lo posso dire perché ci sono passato».
Dove?
«A Lanciano. Mi hanno messo dentro per droga nel 2009. Ma ho scontato e ora sono qui».
Da quanto sei in Italia?
«Da 12 anni: ne compio 26 a marzo e la maggior parte della mia vita l’ho vissuta a Bologna».
Come stanno i ragazzi che si sono cuciti la bocca?
«Sono deboli, non mangiano da due giorni, hanno le labbra gonfie. Ma vogliono continuare. E noi con loro faremo lo sciopero della fame».
In quanti siete a farlo?
«Una cinquantina: ci sono tunisini, marocchini, georgiani, bosniaci. Solo i nigeriani non si sono uniti alla protesta».
Cosa vi dicono dal Cie sui tempi di permanenza?
«Niente, non ci dicono nulla. Io sono già stato tre volte davanti a un giudice di pace: vai lì, non ti chiedono spiegazioni, praticamente non ti fanno parlare, ti dicono che devi restare chiuso un altro mese, poi altri due mesi. Da quando sto qui nessuno è stato scarcerato».
Ma qualcuno è stato rimpatriato?
«Sì, ogni tanto arrivano, di solito la mattina verso le 4, e si prendono un paio di marocchini. Vengono una volta ogni dieci giorni ma io non capisco».
Cosa?
«Il consolato marocchino li ha già identificati tutti, ha dato il via libera al rimpatrio. E allora perché non li rimandano via tutti e 30 quanti sono quelli che stanno qui?».
Perché?
«Perché se vanno via tutti insieme qui non c’è più da lavorare. Rimane troppa poca gente: oggi siamo 90, 60 uomini e 30 donne. La verità è che ci tengono così a lungo qui perché così prendono i soldi dallo Stato».
Tu quando uscirai?
«Non lo so, non me l’hanno detto ».
Verrai rimpatriato?
«Così dicono ma io non voglio. Vivo qui dal 2001, a Bologna vive mio padre, ci sono tre miei fratelli. Cosa ci torno a fare in Tunisia? Sono stato già in carcere, ho pagato per quello che ho fatto: perché devo soffrire ancora?».

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