? Holocaust Memorial, George Segal, San Francisco

C'è oggi un pro­blema di ricorsi alla memo­ria col­let­tiva (del pari alle memo­rie indi­vi­duali) che si pone, come nel già dibat­tuto «uso pub­blico della sto­ria», per i suoi effetti cul­tu­rali di lungo periodo. Si tratta di un ele­mento da fare oggetto di molte rifles­sioni, per evi­tare di per­dersi nel labi­rinto delle facile reto­ri­che e delle bana­liz­za­zioni inop­por­tune, che svuo­tano altri­menti da den­tro il signi­fi­cato di certe ricorrenze.

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Auschwitz senza anestesia

? Holocaust Memorial, George Segal, San Francisco

C’è oggi un pro­blema di ricorsi alla memo­ria col­let­tiva (del pari alle memo­rie indi­vi­duali) che si pone, come nel già dibat­tuto «uso pub­blico della sto­ria», per i suoi effetti cul­tu­rali di lungo periodo. Si tratta di un ele­mento da fare oggetto di molte rifles­sioni, per evi­tare di per­dersi nel labi­rinto delle facile reto­ri­che e delle bana­liz­za­zioni inop­por­tune, che svuo­tano altri­menti da den­tro il signi­fi­cato di certe ricorrenze.

? Holocaust Memorial, George Segal, San Francisco

C’è oggi un pro­blema di ricorsi alla memo­ria col­let­tiva (del pari alle memo­rie indi­vi­duali) che si pone, come nel già dibat­tuto «uso pub­blico della sto­ria», per i suoi effetti cul­tu­rali di lungo periodo. Si tratta di un ele­mento da fare oggetto di molte rifles­sioni, per evi­tare di per­dersi nel labi­rinto delle facile reto­ri­che e delle bana­liz­za­zioni inop­por­tune, che svuo­tano altri­menti da den­tro il signi­fi­cato di certe ricorrenze.

Ci tro­viamo dinanzi al quat­tor­di­ce­simo Giorno della memo­ria, isti­tuito con la legge 211 nel 2000. Il tran­sito di que­sti anni è stato peral­tro denso e pieno di inco­gnite. Siamo entrati a pieno titolo nell’età che ci separa defi­ni­ti­va­mente dai testi­moni diretti delle più grandi tra­ge­die del Nove­cento, a par­tire dallo ster­mi­nio delle comu­nità ebrai­che per mano nazi­sta e fascista.

Un valido reper­to­rio di rifles­sioni, al riguardo, è quello offerto dal volume col­let­ta­neo, a cura di Marta Baiardi e Alberto Cava­glion, Dopo i testi­moni. Memo­rie, sto­rio­gra­fie e nar­ra­zioni della depor­ta­zione raz­ziale (Viella, pp. 390, euro 28). Non a caso Marianne Hir­sch, docente di let­te­ra­tura com­pa­rata alla Colum­bia Uni­ver­sity, ha usato l’espressione «post­me­mo­ria», indi­cando con essa l’insieme dei fat­tori, per­lo­più di ordine este­tico, visivo e per­cet­tivo che per­met­tono, a chi non ha vis­suto un trauma, di iden­ti­fi­carsi in esso pur in assenza dei pro­ta­go­ni­sti. La que­stione, va da sé, non è pura­mente acca­de­mica, richia­mando sem­mai la natura del rap­porto diretto che intrat­te­niamo con il nostro pas­sato, i mezzi e i codici che uti­liz­ziamo per darci una ragione di esso e, in pro­spet­tiva, la capa­cità di ren­derlo stru­mento utile per la costru­zione di un comune futuro. Si tratta quindi della que­stione della defi­ni­zione di una scala valo­riale e di giu­di­zio, sulla quale misu­rare non solo la valu­ta­zione riguardo a ciò che è stato ma, soprat­tutto, l’identificazione delle prio­rità per il tempo a venire.

Iper­tro­fia del ricordo

Un primo punto da cui par­tire, per dipa­nare la matassa, è che oggi si dà una reto­rica della memo­ria, ovvero una sorta di iper­tro­fia del ricordo. In più di una cir­co­stanza esso si fa infatti impe­ra­tivo civile inde­ro­ga­bile al quale, però, cor­ri­sponde fre­quen­te­mente non una presa di coscienza sto­rica, e quindi una sua rica­duta civile dif­fusa, bensì un difetto della mede­sima. Un’eterogenesi dei fini, in sé para­dos­sale, che deriva dal com­bi­nato dispo­sto tra la dimen­sione astratta e, nel mede­simo tempo, pre­scrit­tiva della memo­ria, quanto meno per come è intesa da molti, insieme al rischio di una sua vuota ridon­danza emo­tiva. A ciò spesso si è accom­pa­gnato il biso­gno di eser­ci­tare un veloce e indo­lore risar­ci­mento nei con­fronti delle vit­time, inteso come attri­bu­zione di un loro sta­tuto pub­blico basato sul «se ne parla», rag­giunto il quale la ripa­ra­zione dei torti può dirsi soddisfatta.

La sto­ria, tut­ta­via, non è pro­pria­mente que­sto. La sto­ria è spesso inquie­tante e sgra­de­vole per­ché a fronte del rico­no­sci­mento dell’offesa subita da cer­tuni coglie anche e soprat­tutto la trama e l’ordito della sopraf­fa­zione. Ne indaga la natura, ne rac­conta l’intelaiatura, soprat­tutto fa appello alle com­pro­mis­sioni e alle cor­re­spon­sa­bi­lità in un’ottica di lungo respiro. Non è un tri­bu­nale ma si eser­cita senz’altro sui nessi che inter­cor­rono tra moder­nità e bar­ba­rie. Non è quindi mai sto­ria di «altri», trat­tan­dosi spesso del rac­conto di un noi col­let­tivo, dove i molti coni d’ombra si accom­pa­gnano alle rare isole di luce.

Elena Loewen­thal, scrit­trice e tra­dut­trice, ha allora ragione a dire, nel suo agile e denso volu­metto inti­to­lato Con­tro il giorno della memo­ria (Add edi­tore, pp. 93, euro 10), che gli inter­lo­cu­tori delle rifles­sioni legate al 27 gen­naio non sono gli ebrei ma i non ebrei. A que­sti ultimi parla, infatti, all’interno di un discorso che deve con­ti­nuare a rile­vare e denun­ciare i rap­porti tra il pro­getto nazi­sta, non­ché fasci­sta, di una Europa raz­ziale, da cui si dipanò l’assassinio in massa degli ebrei, e una guerra non solo di con­qui­sta bensì di ster­mi­nio, soprat­tutto con­tro le popo­la­zioni slave. Altri­menti il rischio è di rica­dere su di sé, come un pal­lon­cino che, prima o poi, si sgon­fierà impie­to­sa­mente. Non di meno, se altri­menti inteso, può ali­men­tare l’idea di un ecce­zio­na­li­smo delle vit­time, di una con­di­zione irri­du­ci­bile alla nor­ma­lità, che è peral­tro il pre­sup­po­sto stesso del pen­sare raz­zi­stico e dell’agire criminale.

Poi­ché nel pri­sma delle per­se­cu­zioni ebrai­che leg­giamo oggi, in con­tro­luce, non le spe­ci­fi­cità dell’ebraismo mede­simo ma sem­mai moventi ideo­lo­gici e i dispo­si­tivi assas­sini che tra­du­cono l’alterità in alte­ra­zione, la dif­fe­renza in ele­mento di dif­fi­denza, la varietà in minac­cia al biso­gno di uni­for­ma­zione, quest’ultimo la vera sil­loge dal fasci­smo ma anche dei dif­fusi raz­zi­smi. Un calco nega­tivo, che rimanda non tanto alla sin­go­la­rità di uno ster­mi­nio bensì alla sua ripro­du­ci­bi­lità tec­nica. Se tutto que­sto non è rece­pito, quel che resta del discorso della memo­ria può rischiare di tra­sfor­marsi in ste­rile eser­ci­zio di vit­ti­mi­smo («valgo nella misura in cui neces­sito di un qual­che risar­ci­mento e non in quanto sog­getto di cit­ta­di­nanza») o, ancor peg­gio, di vit­ti­mo­fi­lia, atti­vando quel mici­diale con­ge­gno a tempo che rende desi­de­ra­bile l’idea di una per­sona, così come l’immagine di una col­let­ti­vità, non per quello che sono con­cre­ta­mente bensì per quello che si vor­rebbe che fos­sero. Salvo poi dero­gare dalla com­pia­cenza pre­ce­den­te­mente pre­stata quando, alla prova dei fatti, l’altrui con­dotta non risponde alle pro­prie aspettative.

Tra tra­ge­dia e banalizzazione

Il falso nesso isti­tuito tra Shoah e Stato d’Israele, lad­dove la prima sarebbe il fon­da­mento morale e sto­rico del secondo, fun­ziona in que­sti ter­mini. Da qua­lun­que punto di vista la si intenda osser­vare, a meno che non si sia acce­cati da furore ideo­lo­gico. Non solo per­ché è un falso sto­rico, trat­tan­dosi il sio­ni­smo di ben altra sto­ria da quella dello ster­mi­nio, ma anche per gli usi e, soprat­tutto gli abusi, che se ne vanno facendo nel discorso pub­blico. Così come la con­cor­renza tra le vit­time, messa già effi­ca­ce­mente in rilievo da un autore imme­ri­ta­ta­mente non tra­dotto in Ita­lia, Jean-Michel Chau­mont, rischia di inne­scare una rin­corsa a spi­rale, una dia­let­tica lace­rante, e non meno falsa, tra una visione ottu­sa­mente par­ti­co­la­ri­stica delle tra­ge­die sto­ri­che e, sull’altro ver­sante, la bana­liz­za­zione della sof­fe­renza, alla ricerca di un suo pri­mato da autoattribuirsi.

Il richiamo al rap­porto con il pas­sato come vin­colo e impe­ra­tivo non libera quindi ener­gie. Sem­mai rischia di com­pri­mere forze e risorse. Ben­ché da molti possa essere inteso, o per meglio dire frain­teso, come neces­sa­rio obbligo etico. Non di meno, il rin­vio alla memo­ria come ad un agente attivo della cono­scenza, dalla quale deri­ve­rebbe una con­sa­pe­vo­lezza che si tra­dur­rebbe in anti­corpo demo­cra­tico, sem­bra offrire assai poco di dura­turo. Poi­ché se la cono­scenza del pas­sato è impre­scin­di­bile, essa è sì con­di­zione neces­sa­ria ma non certo suf­fi­ciente per met­tere in cir­cuito le rispo­ste alle derive, ovun­que esse si manifestino.

Piut­to­sto il punto cri­tico è la sua tra­smis­sione (modi, cir­co­stanze, sog­getti, codici e saperi), in una società dove invece evento e spet­ta­co­la­riz­za­zione, ricerca dell’iperbole e sen­sa­zio­na­li­smo, sono i veri luo­ghi del comune sen­tire. All’interno di essi, tutto si trat­tiene ma anche molto si vani­fica, tra­du­cen­dosi nell’orrido ane­ste­tiz­zato, una sorta di postumo effetto splat­ter, dove la com­ples­sità di quel pas­sato e del nostro pre­sente si pialla, sosti­tuita da una spe­cie di inter­cam­bia­bi­lità amo­rale degli orrori. Se Ausch­witz è ovun­que, non è nean­che in nes­sun luogo, essendo sem­pre e comun­que ripe­tuto e, quindi, annul­lato nella sua coa­zione ossessiva.

Sul «Giorno della memo­ria» dob­biamo allora con­fron­tarci con diversi piani di let­tura cri­tica. Il primo di essi rin­via ad una dimen­sione stret­ta­mente isti­tu­zio­nale. In sé ha costi­tuito, in non pochi casi, una con­qui­sta ed una oppor­tu­nità. Ha aperto alcune signi­fi­ca­tive fine­stre su un pas­sato che non può, né deve, facil­mente pas­sare. Sulle infi­nite peri­pe­zie, sui mol­te­plici tran­siti, sulla pre­i­sto­ria del ricordo si sof­ferma il bel libro di Costan­tino Di Sante, Ausch­witz prima di Ausch­witz (Ombre Corte, pp. 189, euro 18), rin­viando ad un’epoca, quella dell’immediato dopo­guerra, quando di que­gli eventi si sapeva quasi nulla e si voleva cono­scere ancora di meno. Mas­simo Adolfo Vitale fu tra i primi, in que­gli anni, a cer­care di capire e docu­men­tare i pos­si­bili con­fini di una tra­ge­dia scon­tor­nata, dis­so­nante, afa­sica. Dopo di che lo sce­na­rio dell’oggi è com­ple­ta­mente diverso, rischiando sem­mai la satu­ra­zione da inflazione.

Il campo delle isti­tu­zioni pub­bli­che è quello che mag­gior­mente si pre­sta al rischio di una sorta di musea­liz­za­zione di quel pas­sato, una let­tura imbal­sa­mata, che non scorre, tra­sfor­man­dosi, passo dopo passo, in un’immagine sacra­liz­zata che, come può essere oggetto di forme di vene­ra­zione, ali­menta anche un cre­scente desi­de­rio ico­no­cla­stico. Il secondo fronte di let­tura rimanda ai pro­cessi edu­ca­tivi e all’istituzione sco­la­stica, depu­tata per eccel­lenza ad essi.

Le ansie del presente

La nar­ra­zione sto­rica, al di là delle stesse incon­gruenze dei pro­grammi mini­ste­riali, ha subito le ripe­tute tor­sioni alle quali la scuola, in que­sti ultimi vent’anni, è stata sot­to­po­sta, sia come cir­cuito edu­ca­tivo che come sistema cul­tu­rale. Riflette al suo interno le con­trad­di­zioni di una società che non solo ha fati­cato a fare i conti con il pro­prio pas­sato ma che ha ancora mag­giori dif­fi­coltà a rac­cor­darsi ad un pre­sente che vive come fonte di ansia e inter­preta come incom­pren­si­bile e ine­spli­ca­bile. La memo­ria, qui, rischia più che mai di diven­tare un suc­ce­da­neo della sto­ria come nar­ra­zione comune, tra­du­cen­dosi in facile iden­ti­fi­ca­zione emo­tiva. Come tale, tanto intensa nel momento della sua con­di­vi­sione quanto revo­ca­bile nel momento in cui l’empatia può essere spesa per un altro oggetto di interesse.

La deli­ca­tezza di que­sto pas­sag­gio non può sfug­gire, ancor più se si con­viene con Loewen­thal che Ausch­witz «non dise­gna l’identità ebraica» ma, nel suo essere sto­ria di vuoti, di assenze, dice che cosa l’Europa avrebbe potuto essere e, in parte, cosa è stata capace di dive­nire con­sa­pe­vol­mente, sotto la guida di lea­der­ship moder­niz­zanti e, nel mede­simo tempo, criminali.

Il pro­blema si ripro­pone, ed è il terzo ele­mento, dal momento che avremo sem­pre più spesso a che fare con cit­ta­di­nanze mul­ti­cul­tu­rali, basate su società poco inclu­sive e sul ritorno dei comu­ni­ta­ri­smi. La mol­te­pli­cità delle iden­tità e dei lin­guaggi rap­pre­senta già da adesso una sfida, che non può essere affron­tata con il ricorso ai moniti. Poi­ché il vero noc­ciolo non è solo come si rac­conta la Sto­ria ma come si fanno coe­si­stere insieme molte sto­rie. Che non sono meno vere per il fatto di essere plu­rali, pro­dotto di iden­tità ete­ro­ge­nee e di tra­iet­to­rie esi­sten­ziali imprevedibili.

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