Gli imprenditori della paura e quel morto nel cassonetto

(La Repubblica, MARTEDÌ, 16 MAGGIO 2006 Pagina VI – Milano)

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C´è qualcosa di paradossale nella morte del giovane romeno, intrappolato la scorsa settimana, in provincia di Milano, in un cassonetto raccoglitore di abiti usati. C´è del paradossale e del simbolico in queste vite ai margini che si spengono in un deposito di cose dismesse e buttate; cose che ci piace chiamare opere di carità e fingere che testimonino di una solidarietà invece obiettivamente messa in crisi dalle robuste difese che si mettono in atto per evitare che i bisognosi, i destinatari di quella solidarietà, si servano da soli. Morire per un abito vecchio, che si sarebbe comunque potuto ricevere, è una beffa atroce. Del destino, ma anche del nostro modo di intendere la solidarietà. Perché proprio questi casi sono la dimostrazione tragicamente provata che il bisogno va soccorso nel momento in cui si manifesta: farlo domani o la prossima settimana, in orario d´ufficio, potrebbe essere troppo tardi.

Quei cassonetti rischiano di diventare simbolo di distanza: chi dà e chi riceve non si guardano neppure in faccia. Una carità pelosa, che nulla toglie e costa a chi la esercita e quasi nulla dà a chi la riceve. Una solidarietà esentata dal contatto fisico e visivo, e soprattutto emotivo, si può chiamare davvero così? Del resto, di questi morti, e di questi vivi, neppure conosciamo i nomi, le storie. Sono vite a perdere, che finiscono nei depositi delle scorie per morire e nei capannoni abbandonati per sopravvivere. Loro, a differenza dei vestiti vecchi, non hanno possibilità di essere riciclati: vengono buttati via dalla macchina impietosa di una città che non ha tempo e risorse per gli ultimi. Ultimi che possono fare, per un attimo, pena quando finiscono schiacciati nella bocca di un cassonetto, ma che fanno sempre paura sino a che sono in vita.

Come ha denunciato don Virginio Colmegna, gli “imprenditori della paura” spostano l´attenzione e le risposte in un modo che, producendo esclusione, crea e alimenta all´infinito la paura stessa ma non produce alcuna sicurezza. Di contro, il presidente della Casa della carità e altre realtà sociali e sindacali, attraverso una lettera aperta, hanno ora proposto la sperimentazione di “Villaggi solidali”. Una iniziativa buona e concreta. Ma è la città nel suo insieme che deve sperimentare l´allargamento dei suoi confini, in modo da ricomprendervi tutti e ciascuno: il bisogno della sicurezza e quello della vita dignitosa, quello della legalità e quello di non morire di fame, di freddo o di solitudine.

SERGIO SEGIO

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