La decennale pervicacia dell’ideologia repressiva, e del connesso grumo di interessi che condiziona i governi di diverso colore è dura da estirpare
C’è antimafia e antimafia, come ricorda spesso don Ciotti. Ce n’è una che fa della legalità un feticcio intangibile e un’altra che persegue il cambiamento, anche delle leggi ingiuste. C’è quella che si affida alla tortura del 41 bis e dell’ergastolo ostativo e quella che vorrebbe si investisse su cultura, educazione, politiche sociali, responsabilità della politica.
C’è l’antimafia delle passerelle e quella del buon senso. Quest’ultima, con la recente Relazione della Dna di Franco Roberti, ha battuto un colpo. Tanto più significativo data la fonte, certo non sospetta di «permissivismo» o di «cultura dello sballo», per usare gli epiteti con cui i tifosi della «war on drugs» usano stigmatizzare chi non fa della tolleranza zero verso i consumatori di sostanze una crociata.
La Relazione annuale (datata gennaio 2015 e relativa al periodo 1° luglio 2013–30 giugno 2014), nel capitolo relativo alla criminalità transnazionale e al contrasto del narcotraffico, giustamente prende le mosse dalla dimensione statistica. Va detto che i numeri di riferimento, di fonte Unodc, non sono freschissimi (2010–11, marginalmente 2012) e anche ciò è indicativo di come all’enfasi allarmistica di organismi Onu non corrisponda poi uno sforzo adeguato e tempestivo di monitoraggio, né una sufficiente esaustività: per quanto concerne le droghe sintetiche, definite «fenomeno in grande espansione che rappresenta la nuova frontiera del narcotraffico», la Relazione Dna afferma che «né l’Unodc né altri organismi internazionali dispongono di dati sicuri».
Ma, al là delle cifre e sia pure a partire da esse, la Relazione è netta nella valutazione: ritenere che il traffico di droghe «riguardi un popolo di tossicodipendenti, da un lato, e una serie di bande criminali, dall’altro, è forse il più grave errore commesso dal mondo politico che, non a caso, ha modellato tutti gli strumenti investigativi e repressivi sulla base di questo stolto presupposto». Si tratta, invece, di fenomeno che riguarda e attraversa l’intera società, la sua economia, la totalità delle categorie professionali. Dunque, ne consegue, irrisolvibile con lo strumento penale.
Per quanto riguarda l’Italia, e in specie le droghe leggere, i ricercatori della Dna scrivono di un «mercato di dimensioni gigantesche», stimato in 1,5–3 milioni di chili all’anno di cannabis venduta. Una quantità, viene sottolineato, che consentirebbe un consumo di circa 25–50 grammi pro capite, bambini compresi. Coerente la conclusione: «senza alcun pregiudizio ideologico, proibizionista o anti-proibizionista che sia, si ha il dovere di evidenziare a chi di dovere, che, oggettivamente si deve registrare il totale fallimento dell’azione repressiva».
Nel caso si volesse continuare a fare al riguardo come le tre proverbiali scimmiette, la Relazione non si sottrae dall’indicare esplicitamente, pur nel rispetto dei ruoli, la strada: «spetterà al legislatore valutare se, in un contesto di più ampio respiro (ipotizziamo, almeno, europeo ) sia opportuna una depenalizzazione della materia».
Inutile dire che la Relazione è rimasta sinora priva di risposte da «chi di dovere».
La decennale pervicacia dell’ideologia repressiva, e del connesso grumo di interessi, che condiziona i governi di diverso colore e che ha prodotto, o tollerato, l’obbrobrio della legge incostituzionale Fini-Giovanardi, è dura da estirpare. Ma il buon senso e i fatti hanno la testa dura: il muro criminogeno del proibizionismo si sta sgretolando in più di un paese, come ha riepilogato qui Grazia Zuffa («il manifesto» dell’11 marzo 2015).
Verrà il momento anche dell’Italia, dove ancora, come diceva il compianto Giancarlo Arnao, è proibito capire.
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