Diaz e tortura, Cantone sottovaluta i rischi per il futuro

Le vio­lenze di Genova non sono state né epi­so­di­che né opera di schegge iso­late di una orga­niz­za­zione com­ples­si­va­mente sana

Il con­fronto tra Raf­faele Can­tone, Patri­zio Gon­nellaLorenzo Gua­da­gnucci sul “senso” di Genova 2001 non va lasciato cadere per­ché, oltre a riguar­dare una delle pagine più nere della nostra sto­ria recente, apre squarci impor­tanti sul futuro.

Scrive Can­tone che i fatti della Diaz sono gra­vis­simi ed ese­cra­bili ma non tali da legit­ti­mare inde­bite gene­ra­liz­za­zioni per­ché «non sono stati coperti» dalle isti­tu­zioni e «non sono il segno di un modus ope­randi tipico delle nostre forze di poli­zia». Non è così e la sot­to­va­lu­ta­zione di quei fatti apre la strada a gravi rischi per il futuro.

Lo dice senza mezzi ter­mini la sen­tenza 18 mag­gio 2010 della Corte di appello di Genova (con­fer­mata dalla Cas­sa­zione) che sulla “per­qui­si­zione” alla Diaz e rela­tive respon­sa­bi­lità scrive: «I tutori dell’ordine si sono tra­sfor­mati in vio­lenti pic­chia­tori, insen­si­bili a qua­lun­que evi­dente con­di­zione di infe­rio­rità fisica (per sesso o età delle vit­time) di chi stava fermo con le mani alzate, di chi stava dor­mendo e si era appena sve­gliato per il fra­stuono. Alla vio­lenza si è aggiunto l’insulto, il dileg­gio ses­suale, la minac­cia di morte. Il san­gue è sgor­gato a fiotti per ogni dove lasciando tracce che non pote­vano essere tra­scu­rate da nes­suno dei presenti.

Se pos­si­bile è ancora più grave la valu­ta­zione delle con­dotte suc­ces­sive che hanno pro­dotto i falsi, le calun­nie e gli arre­sti ille­gali (per ricor­dare le più rile­vanti). Qui è dav­vero dif­fi­cile nascon­dersi l’odiosità del com­por­ta­mento: una volta preso atto che l’esito della per­qui­si­zione si era risolto nell’ingiustificabile mas­sa­cro dei resi­denti nella scuola, i ver­tici della Poli­zia ave­vano a dispo­si­zione solo un retta via, per quanto dolo­rosa: iso­lare ed emar­gi­nare i vio­lenti denun­cian­doli, dis­so­ciarsi da tale con­dotta, rimet­tere in libertà gli arre­stati. Pur­troppo è stata scelta la strada oppo­sta: con incom­pren­si­bile per­vi­ca­cia si è deciso di per­corre fino in fondo la strada degli arre­sti, e l’unico modo pos­si­bile era creare una serie di false cir­co­stanze fun­zio­nali a soste­nere così gravi accuse da giu­sti­fi­care un arre­sto di massa. L’origine di tutta la vicenda è indi­vi­dua­bile nella espli­cita richie­sta da parte del Capo della Poli­zia di riscat­tare l’immagine del corpo e di pro­ce­dere a tal fine ad arre­sti, richie­sta con­cre­ta­mente raf­for­zata dall’invio da Roma a Genova di alte per­so­na­lità di sua fidu­cia ai ver­tici della Poli­zia che di fatto hanno scal­zato i fun­zio­nari geno­vesi dalla gestione dell’ordine pubblico».

Le vio­lenze di Genova non sono state né epi­so­di­che né opera di schegge iso­late di una orga­niz­za­zione com­ples­si­va­mente sana.

Lo esclu­dono i fatti: in essi sono stati coin­volti tutti gli appa­rati pre­senti (cara­bi­nieri, poli­zia di Stato, guar­dia di finanza, poli­zia peni­ten­zia­ria); la “per­qui­si­zione” alla Diaz ha visto la com­pre­senza di cara­bi­nieri (pre­po­sti al con­trollo esterno) e di reparti di poli­zia pro­ve­nienti da diverse città (coor­di­nate da fun­zio­nari di grado ele­va­tis­simo); intorno agli autori di pestaggi e tor­ture hanno fatto qua­drato i ver­tici del corpo (men­tre i foto­grafi di mezzo mondo ripren­de­vano le maschere di san­gue dei gio­vani tra­sci­nati fuori dalla Diaz, i por­ta­voce della que­stura e del capo della poli­zia con­ti­nua­vano a par­lare di «alcuni feriti per lesioni pre­gresse»); per coprire l’operazione e i reati com­messi sono state costruite prove false da parte dell’establishment della poli­zia (come accer­tato con sen­tenza defi­ni­tiva); nes­sun prov­ve­di­mento disci­pli­nare è stato preso nei con­fronti di alcuno degli ope­ra­tori e fun­zio­nari coin­volti (e le sospen­sioni inter­ve­nute oltre dieci anni dopo sono state l’effetto neces­si­tato delle con­danne defi­ni­tive); lo stesso accer­ta­mento giu­di­zia­rio è stato frutto del lavoro osti­nato di pochi pub­blici mini­steri iso­lati nel loro uffi­cio (il cui capo aveva chie­sto la con­va­lida dell’arresto per resi­stenza e asso­cia­zione a delin­quere di tutti i pre­senti nella Diaz all’atto della irru­zione di polizia).

Genova, lungi dall’essere un sem­plice “epi­so­dio” sgra­de­vole, è stata una svolta nelle poli­ti­che di ordine pub­blico, carat­te­riz­zata dalla mili­ta­riz­za­zione del con­flitto, dalla ricerca dello scon­tro musco­lare con i mani­fe­stanti, dall’obiettivo di “scon­fig­gere e umi­liare il nemico”. Una svolta che ha coin­volto anche altre isti­tu­zioni e che chiama diret­ta­mente in causa i ver­tici della poli­zia e la poli­tica (senza il cui avallo nulla del genere sarebbe accaduto).

Que­sto, oltre alla gra­vità e al sadi­smo delle vio­lenze rea­liz­zate, è il punto con cui biso­gna fare i conti se si vuole evi­tare che quella “prova gene­rale” diventi regola (cosa di cui vi sono ormai segnali signi­fi­ca­tivi). Anch’io – come Can­tone – ho lavo­rato per anni a fianco di ope­ra­tori di poli­zia: cono­sco la sen­si­bi­lità e il rigore di molti; ne ho visti alcuni, dopo Genova, pian­gere di rab­bia; e ne ho visti altri avviare serie rifles­sioni auto­cri­ti­che (come Luigi Notari, nel bel libro inter­vi­sta “Al di sotto della legge” curato da Mauro Rava­rino e pub­bli­cato il mese scorso dalle Edi­zioni Gruppo Abele). È anche per non far torto a loro, oltre che a tutti noi, che non biso­gna minimizzare.

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