Genova 2001. Avevamo ragione noi

Storie. Del G8 del 2001 non abbiamo il romanzo finale perché quelle giornate non sono mai terminate. La vita di Fabrizio Ferrazzi diventa così una testimonianza di quelle ferite indelebili

Perché non abbiamo ancora il romanzo definitivo sui fatti di Genova 2001, mi domandavo. Perché Genova 2001 non è ancora terminata, ho dovuto rispondermi, perché viviamo dentro al racconto della prevaricazione che è norma nella postdemocrazia.

Ebbene, quando potremo inifine mettere nero su bianco quel romanzo definitivo, lo metteremo in prima persona, e terremo addosso quella prima persona, diventeremo quella prima persona.
È stato un articolo di Lorenzo Carletti sul manifesto del 20 luglio 2013 a indicarci quella prima persona in Fabrizio Ferrazzi.

FABRIZIO FERRAZZI, 51 anni, arriva a Genova venerdì 20 luglio 2001. Residente a La Spezia, laureato in filosofia all’università di Pisa, è un docente prestato alla campagna e abita nell’azienda agricola di famiglia, dove trova il tempo per la sua grande passione, la storia e la letteratura della Polonia.

Fin dall’iniziale viaggio a Cracovia, nei primi anni ottanta, quel paese sfortunato è diventato sua patria elettiva. Erano i giorni in cui Solidarnosc faceva breccia e trovava aiuto nel Comitato di difesa degli operai.

Grazie al richiamo identitario della cultura cattolica nel 1983 Fabrizio partecipa ai primi volantinaggi e alle imponenti manifestazione in occasione della visita di Papa Wojtyla. E, nel nostro romanzo, incontra i versi del poeta e drammaturgo romantico Adam Bernard Mickiewicz (1798-1855):

Le mie lacrime, autentiche, profonde, discesero sulla mia infanzia idillica ed eterea, sulla frivola e immodesta giovinezza, sulla mia età d’uomo, età di sconfitte. Le mie lacrime, autentiche, profonde, discesero.

I versi di Mickiewicz conquistano Fabrizio a tal punto da identificarsi col poeta nel racconto del proprio arresto avvenuto a Genova in quel venerdì 20 luglio 2001.

È andata così. Fabrizio aveva partecipato in piazza Paolo da Novi al presidio pacifico organizzato da Beati i costruttori di pace e investito dalle prime cariche delle forze dell’ordine, aveva incontrato una donna, in tutta evidenza una infervorata religiosa, la quale, tra lacrimogeni della polizia e pietre degli anarchici, ripeteva Dio non vuole tutto questo. Fabrizio le era andato incontro con in mano un grande libro con cui aveva tentato di difendersi dalle manganellate delle forze dell’ordine.

BRACCATO E CARICATO sul cellulare, aveva reagito cantando la Marsigliese, il canto dei rivoluzionari francesi inviso nella Polonia di Jaruzelski come nell’Italia di Mussolini.

Il furgone dei carabinieri aveva fatto tappa alla caserma Fiera del Levante dove Fabrizio era rimasto dalle due del pomeriggio alle nove di sera, in piedi, il sangue rappreso in volto, in compagnia di una ventina di fermati picchiati con calci e manganello e insultati dagli uomini del Gruppo operativo mobile (Gom) della polizia penitenziaria.

In seguito furono accusati di avere massacrato detenuti inermi, nudi e ammanettati, sferrando calci in bocca, menando pugni con guanti imbottiti e urinando addosso a persone distese a terra. Ma non basta.

L’ORRORE era continuato con le torture nella caserma di Bolzaneto dove i fermati erano stati trasferiti verso le nove di quella sera, con l’elenco delle lesioni riscontrate dal medico legale: costole fratturate, traumi al cranio, lacerazioni, ecchimosi, tumefazioni.

Ciascun detenuto condotto con la forza fino al corridoio e poi nell’ufficio matricola. Un percorso che prevedeva l’attraversamento della rotonda dove i malcapitati erano trascinati per i capelli e percossi da agenti vestiti in tuta mimetica con anfibi con cui infierivano anche su chi cadeva per terra.

Nel pomeriggio di sabato Fabrizio era stato trasferito nel carcere di Alessandria da cui era stato rilasciato lunedì.

SE NEGLI ANNI Fabrizio aveva imparato a tollerare la tachicardia o l’ansia improvvisa in forma di panico, eredità di quelle trenta ore di sequestro, ancora non tollerava la mancata giustizia. Familiari e amici avevamo appreso dei fatti dai giornali e dagli atti del tribunale, perché Fabrizio non entrava mai in argomento e, quando sollecitato, preferiva cambiare discorso.
Preferiva, con continue digressioni, parlare di Adam Mickiewicz, indugiare in citazioni in polacco, in russo, dire dell’importanza del poema Konrad Wallenrod, o di Dziady, opera teatrale nella quale sono descritte le sofferenze terrene, il martirio della Polonia, comparata alla passione del Cristo, e, nell’ultima parte, il fantasma di un suicida, consumato dalla passione che lo ha portato alla morte.

È NEI MOMENTI di maggiore dolore, nei lunghi mesi di ricovero ospedaliero necessari a curare le ferite riportate a Genova, che Ferrazzi affida il proprio racconto ai testi di Mickiewicz e in quel racconto la caserma di Bolzaneto diventa la prigione che fa da sfondo a quei poemi, il mattatoio dove gli invasori russi torturano i prigionieri polacchi.

E racconta il Ferrazzi del nostro romanzo, racconta di ragazzi condannati, in manette, il marchio della tortura sui volti, la disillusione per non essere riuscito a far comprendere la gravità di quanto accaduto, la mancata collettivizzazione del dramma, il timore che il sacrificio non sia servito a intaccare l’avanzata di un potere antidemocratico.

E racconta del risveglio che a cominciare da quei mesi del 2001 ne fa un attivista quasi a tempo pieno.

RACCONTA, nel romanzo, di Genova vissuta non come un fatto personale ma come un evento che rivela profonde verità a conferma che le brutalità e il differimento dei diritti costituzionali del 2001 non furono un caso ma parte della degenerazione antidemocratica.

Non crede al ruolo di vittima il Ferrazzi del nostro romanzo, crede al ruolo di testimone, ruolo che ha esercitato da cattolico militante. È difficile negare, arriva a dire il Ferrazzi del romanzo, che nei giorni di Genova fossimo noi manifestanti a essere dalla parte della ragione e che fummo picchiati, torturati, uccisi.

Fabrizio, malato prima di Genova, era stato operato all’intestino e le torture di Genova lasciano una traccia indelebile.

GLI INTERVENTI CHIRURGICI si succedono uno all’altro e lui continua con fatica a studiare, a scrivere, a tradurre. Denuncia i torturatori presentandosi alle prima udienze del processo, milita nel movimento contro la guerra in Afghanistan. Ma le sue condizioni degenerano.

È ormai un fantasma, mangiato nel corpo e nell’anima, quando, nel dicembre 2011, decide di farla finita, consumato dalla passione come il protagonista dell’opera di Mickiewicz.

Genova rappresenta un momento di passaggio. Esiste un tempo «prima Genova», punto di arrivo di quel movimento etichettato come «no-global» che si è rivelato il più convinto nel chiedere una globalizzazione dei diritti e nel denunciare i rischi che il modello neoliberista determinava.

Ed esiste un tempo «dopo Genova» nel quale quegli stessi rischi si sono puntualmente concretizzati nella crisi che viviamo.

IL CROLLO FINANZIARIO del 2008, la rabbia delle classi subalterne e il fallimento della sinistra riformista che non ha saputo raccogliere gli appelli del movimento, e ha lasciato che i temi su cui era nato – la critica al capitalismo e alle crescenti diseguaglianze– diventassero nutrimento dei populismi, danno ragione ai manifestanti di Genova.

Perché interpretate a quindici anni di distanza, le ragioni di preoccupazione per il futuro formulate dal movimento non sono diverse da quelle attuali: neoliberismo sfrenato, dominio della finanza sull’economia, impoverimento delle classi medie, insostenibilità delle politiche fondate sul debito, polarizzazione della distribuzione delle ricchezze, riscaldamento globale, aumento del potere del privato sul pubblico, delle multinazionali sugli stati, diffusione endemica di xenofobia e razzismo per non dire delle «guerre giuste» che tali non furono e che hanno creato lo spazio fisico per il terrorismo islamista.
Il nuovo bipolarismo nei paesi avanzati non è più tra destra e sinistra, ma tra aperto e chiuso.

È questo il risultato dell’incauto trattamento riservato ai manifestanti di Genova e a tutti gli antagonisti della dittatura finanziaria.

Ecco perché non abbiamo ancora il romanzo definitivo sui fatti di Genova 2001. Perché Genova 2001 non è ancora terminata.

FONTE: Stefano Valenti, IL MANIFESTO

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