Bisogna buttarsi (nell’impresa) a sini­stra

Non voto più. Gli elettori e le elettrici di sinistra preferiscono non votare, e se votano, allora scelgono M5S. Almeno sembra utile. È la fine non della storia, ma di una storia. Una storia d’amore

Chi vota a sini­stra pre­fe­ri­sce di no. È il mes­sag­gio più chiaro che viene dalle urne, dopo la defi­ni­tiva e amara chiu­sura di una tor­nata elet­to­rale che ancora una volta cam­bia le carte in tavola della scena poli­tica italiana.

Un mes­sag­gio che va oltre il tra­collo del Pd, tra­va­lica la bal­danza della destra con la fac­cia feroce di Sal­vini e della Lega, il con­so­li­da­mento nei ter­ri­tori dei M5S, pro­iet­tati su una dimen­sione di governo. Pre­fe­ri­scono di no, gli elet­tori e le elet­trici di sini­stra. Pre­fe­ri­scono non votare, e se votano, allora scel­gono M5S. Almeno sem­bra utile.

È la fine non della sto­ria, ma di una sto­ria, pro­prio come se fosse una sto­ria d’amore. E come nella fine degli amori quello che si perde sono le parole, i luo­ghi, i riti. Quello che aveva un senso unico e spe­ciale, e bril­lava di una chia­rezza lumi­nosa di imme­diata com­pren­sione, d’improvviso si spe­gne, ritorna parola e luogo ano­nimo, indi­stin­gui­bile tra gli altri. Si scio­glie il legame strin­gente, sem­bra che nulla rie­sca più ad accen­dere la pas­sione. Riman­gono ricordi, memo­rie, a volte brevi fiammate.

Il lin­guag­gio amo­roso resti­tui­sce e chia­ri­sce più di altri, a me sem­bra, quanto avviene. E ben di più dell’uso indi­scri­mi­nato della cate­go­ria dell’antipolitica rende ragione della fine dell’avventura. Non siamo negli anni Novanta, e nep­pure nel primo decen­nio del Due­mila. Non è solo né prin­ci­pal­mente il ran­core, che tanto si è ana­liz­zato in pas­sato, il motore della nuova asten­sione e dei nuovi flussi di voto. Gli elet­tori e le elet­trici che hanno pre­fe­rito di no, in que­sta tor­nata elet­to­rale, quelli con radi­cate scelte di sini­stra, come già si era visto in Emi­lia Roma­gna lo hanno fatto per scelta poli­tica. Quasi un atto estremo, dispe­rato, forse, ma l’unico pos­si­bile. Per dire che non ci cre­dono più. Non cre­dono più all’insieme di sigle che a ogni com­pe­ti­zione elet­to­rale si pre­sen­tano a garan­tire con i loro richiami al pas­sato comune la con­ti­nuità di una sto­ria. Per­ché in realtà non garan­ti­scono nulla. Da tempo. Per­ché quella sto­ria non c’è più.

È un punto di non ritorno, in cui è essen­ziale la com­pren­sione di quanto avviene, nel gioco delle forze come nel dispie­garsi dei sen­ti­menti. Per que­sto non è il momento di rin­vii o indugi. Biso­gna but­tarsi nell’impresa, dove si è, come si è.

Non ci sono truc­chi, for­mule magi­che, auto­rità esterne che pos­sano garan­tire alcun­ché. È l’atto di corag­gio che il pre­sente richiede. Quale impresa? Entrare con molta atten­zione nello spa­zio vuoto che gli elet­tori hanno creato. Con l’atto netto, auto­re­vole e umile di aprire ora, adesso un pro­cesso costi­tuente, in un’assemblea entro luglio. Indetta da parte di chi c’è, ora, adesso: forze poli­ti­che, gruppi, asso­cia­zioni, chi si muove nell’area aperta alla sini­stra del Pd. Con la con­sa­pe­vo­lezza che il gesto – neces­sa­rio – non è per nulla suf­fi­ciente. Per que­sto, tra le virtù richie­ste, l’umiltà è indi­spen­sa­bile. L’impresa più dif­fi­cile è essere cre­di­bili e con­vin­centi, mostrare nelle pra­ti­che che non ci si muove in una logica pat­ti­zia, che non si tratta di mano­vre in vista di nuovi car­telli elet­to­rali, per esem­pio per le ele­zioni della pros­sima pri­ma­vera in comuni impor­tanti come Milano e Napoli. Insomma, occorre un passo indie­tro. Biso­gna agire il para­dosso attuale, oggi assu­mersi respon­sa­bi­lità poli­tica signi­fica fare spa­zio, allar­gare, aprire. Non solo per­ché gli elet­tori non per­do­nano, quindi una scelta adot­tata per neces­sità tat­tica. Ma per con­vin­zione intima, auten­tica. È la parte più difficile.

Per­ché non solo vanno tro­vate parole che scal­dino il cuore e la mente, che dicano di mondi da cam­biare, di giu­sti­zia da riven­di­care, di lotte da soste­nere. Ser­vono volti che quelle parole, quei mondi, quelle lotte le ren­dano rico­no­sci­bili. Come in un romanzo, o in un film, o in una serie tv, sono i per­so­naggi che danno gambe alla sto­ria che si rac­conta. Che la ren­dono vera e potente, viva nella mente di chi par­te­cipa. E visto che non scri­viamo un romanzo, ma par­liamo di vite, di dolori, di rab­bia reale, sono le lotte in corso, i pro­ta­go­ni­sti e le pro­ta­go­ni­ste sociali a inter­pre­tare que­sta storia.

Tutto il movi­mento intorno alla scuola, com­preso il som­mo­vi­mento intorno alla pre­tesa «ideo­lo­gia di genere», le lotte per la casa, la nuova atten­zione ai beni comuni, il lavoro sem­pre più sva­lo­riz­zato. Che qui, in Ita­lia, si fac­cia fatica a fare spa­zio alle donne, che pure esi­stono, attive e auto­re­voli, fa parte del pro­blema. Che sia così arduo creare una mobi­li­ta­zione con­vinta intorno alla tra­ge­dia della migra­zione dice fino a che punto sono logori i legami, i vin­coli, per­fino le scelte ideali. È tempo di un nuovo amore.

Non ho usato volu­ta­mente ter­mini come coa­li­zione sociale e coa­li­zione poli­tica, non ho par­lato d’altro. Ciò che importa è lo spa­zio che si apre, in que­ste azioni che non pos­sono che intrec­ciarsi. Da cui pos­sono pas­sare sog­getti, movi­menti, per­sone che da troppo tempo vivono altrove e altri­menti. Fino a quando si potrà dire: pre­fe­ri­sco di sì.

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