Il plusvalore di un evento sto­rico

Quel feno­meno sto­rico, cul­tu­rale, sociale, mili­tare e poli­tico che chia­miamo Resi­stenza è non solo una com­plessa somma di sog­getti ed eventi ma un campo di dure­voli contrapposizioni

Saggi. L’importante volume di Philip Cooke «L’eredità della Resistenza» passa criticamente in rassegna le prospettive interpretative su un fenomeno che ha visto manifestarsi una molteplicità di intenzioni, culture politiche e soggetti sociali

Per cele­brare la sua «resi­stenza» per­so­nale con­tro l’allora «editto bul­garo» – cor­reva l’anno 2002 e Sil­vio Ber­lu­sconi da Sofia aveva appena messo all’indice tre note firme della Rai – un gigio­ne­sco ed ego­cen­trico Michele San­toro cantò, in esor­dio della sua tra­smis­sione, alcune strofe di «Bella ciao». Fu uno stra­zio di note, di tona­lità e di ragioni ma l’escamotage dell’identificarsi con i motivi, non solo canori, della lotta di Libe­ra­zione parve fun­zio­nare. L’autobeatificazione, infatti, pagò. Ber­lu­sconi oggi sta die­tro le quinte della poli­tica, pur con­ti­nuando a mano­vrarne alcuni set­tori, men­tre San­toro con­ti­nua a reci­tare sul pal­co­sce­nico media­tico la sua par­ti­tura. Pari e patta. Quasi due facce della mede­sima meda­glia, ancor­ché di conio dif­fe­rente. Detto que­sto, qual è il vero nesso tra le abili com­par­sate pub­bli­che di un popu­li­sta tele­vi­sivo e una tra­iet­to­ria, quella com­piuta dalla memo­ria col­let­tiva della Resi­stenza, nelle sue mol­te­plici decli­na­zioni? Più pro­pria­mente, insieme ad un’identità esi­ste anche un’eredità della Resistenza?

Le domande sem­brano essere pleo­na­sti­che e reto­ri­che, al mede­simo momento. Poi­ché se per qual­cuno esi­ste una sovrae­spo­si­zione del discorso resi­sten­ziale, pie­gato alle esi­genze delle cir­co­stanze, peren­ne­mente sospeso tra elo­gio di sé, cele­bra­zione acri­tica e ritua­li­smo com­me­mo­ra­tivo, dall’altro, se di ere­dità si deve par­lare, allora è bene ricorre al plu­rale. Più sog­getti, infatti, ne hanno riven­di­cato il lascito. Lad­dove, tut­ta­via, alla plu­ra­lità non si accom­pa­gna il plu­ra­li­smo, trat­tan­dosi sem­mai della dif­fi­cile, a volte quasi impos­si­bile, coe­si­stenza di ver­sioni tra di loro con­flit­tuali, o comun­que com­pe­ti­tive, in sé irri­du­ci­bili a un deno­mi­na­tore uni­ta­rio così come ad un’unica sta­gione. Poi­ché quel feno­meno sto­rico, cul­tu­rale, sociale, mili­tare e poli­tico che chia­miamo per l’appunto «Resi­stenza» è non solo una com­plessa somma di sog­getti ed eventi, cir­co­stanze e pen­sieri, con­dotte e memo­rie, ma — pro­pria­mente — un campo di dure­voli contrapposizioni.

Diver­genti canoni comunicativi

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Il fatto stesso che sia entrata a fare parte, cosa a molti sgra­dita, del rimando all’irrisolta que­stione dell’identità nazio­nale, ne indica la sua natura di ter­reno di con­tesa. Anche il suo inte­grale rifiuto, non solo per parte neo­fa­sci­sta, sta den­tro que­sta logica, quanto meno per para­dosso. Phi­lip Cooke, docente di sto­ria e cul­tura ita­liane all’Università di Strathclyde-Glasgow, già coau­tore di un inte­res­sante stu­dio, ingiu­sta­mente tra­scu­rato in Ita­lia, Euro­pean Resi­stance in the Second World War, si cimenta in uno sguardo dall’esterno, ancor­ché deci­sa­mente imme­de­si­mato, nelle nostre vicende. Il libro che recen­te­mente ha man­dato alle stampe non a caso titola su L’eredità della Resi­stenza (Viella, pp. 382, euro 27), lad­dove è soprat­tutto il sot­to­ti­tolo ad avere un valore espli­ca­tivo, riman­dando a «sto­ria, cul­tura, poli­ti­che dal dopo­guerra a oggi». Non è una sto­ria della Resi­stenza quella che ci offre bensì delle sue rie­la­bo­ra­zioni cul­tu­rali, poli­ti­che e civili dal dopo­guerra ad oggi. Obiet­tivo rag­giunto adot­tando cin­que ambiti pro­spet­tici, nei quali la sto­rio­gra­fia fa comun­que la parte da leone, pur con­fron­tan­dosi con altri canoni espres­sivi e comu­ni­ca­tivi: l’influenza della Resi­stenza ita­liana nell’evoluzione socio-culturale e poli­tica del nostro Paese; la natura e la qua­lità dei sog­getti che, nel corso del tempo, si sono inca­ri­cati di costruire una memo­ria resi­sten­ziale, tra­sfor­man­dola e tra­sfon­den­dola — per l’appunto — in iden­tità e, quindi, in ere­dità; il rap­porto, con­trad­dit­to­rio e comun­que irri­solto, tra la neces­sità di man­te­nere una nar­ra­zione pub­blica della Resi­stenza, incor­po­ran­dola all’interno del discorso poli­tico uffi­ciale, e la sua sog­get­ti­vità, intesa come insieme di espe­rienze con­crete, spesso non ricon­du­ci­bili ad una reto­rica del potere, ancor­ché da quest’ultima costan­te­mente lusin­gata; il tema, dive­nuto quasi da subito, con il 1945, un’ossessione per cer­tuni, della «ege­mo­nia» che i comu­ni­sti ita­liani avreb­bero eser­ci­tato sulla nar­ra­zione della lotta di Libe­ra­zione; i sot­tili, tenaci ma anche irri­solti rap­porti tra poli­ti­che della memo­ria e uso pub­blico della sto­ria, con iden­ti­fi­ca­zioni e mani­po­la­zioni, all’interno di un tes­suto cul­tu­rale ita­liano che in settant’anni è pro­fon­da­mente cam­biato, accom­pa­gnando sta­gioni diverse, in com­pe­ti­zione tra di loro.

Più in gene­rale l’intero volume di Cooke è attra­ver­sato dal pro­blema di fondo della memo­ria della Resi­stenza come eser­ci­zio di sup­plenza rispetto ad eti­che pub­bli­che e a logi­che di appar­te­nenza comune altri­menti difet­tanti. Qual­cosa che, a ben vedere, va ben oltre la que­stione stessa dell’antifascismo, quest’ultimo spesso ricon­dotto pre­va­len­te­mente, a torto o a ragione, all’esperienza della lotta di Libe­ra­zione. Da un lato l’arco di tempo che va dall’inizio del set­tem­bre del 1943 ai primi giorni di mag­gio del 1945 è non solo perio­diz­zante ma fon­da­tivo di dia­let­ti­che poli­ti­che e sociali che rom­pono com­ple­ta­mente sia con l’eredità fasci­sta che con lo stesso lascito liberale.

Non solo sol­le­va­zione morale

Nulla sarà più come prima, nean­che con i suc­ces­sivi ten­ta­tivi di nor­ma­liz­za­zione. All’interno di que­sto qua­dro va allora inqua­drato il com­plesso discorso che Clau­dio Pavone fa sulle «tre guerre», che sono alla radice dell’esperienza par­ti­giana, delle sue spe­ranze così come di molte delu­sioni e non poche vel­leità: la lotta patriot­tica, il con­fronto civile e il con­flitto sociale.

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Non a caso la dirom­penza dell’agire resi­sten­ziale, inteso come frat­tura feconda, e che come tale non può essere ricon­dotto alle vec­chie cate­go­rie cul­tu­rali, men­tali e quindi poli­ti­che dello Stato uni­ta­rio, ne genera l’impossibilità del rias­sor­bi­mento den­tro una qual­che logica di con­ti­nuità con il pas­sato. I ten­ta­tivi di riman­dare il feno­meno resi­sten­ziale alla sua mera valenza bel­lica, o di «secondo Risor­gi­mento», si ritor­cono peral­tro con­tro coloro che li eser­ci­tano incau­ta­mente. La Resi­stenza deve molto alla lotta armata, ma ancora di più è tri­bu­ta­ria della rot­tura del mono­po­lio della forza, quando dalla vio­lenza degli Stati si tran­sita all’autodifesa dif­fusa da parte di civili e di mili­tari ricon­dot­tisi auto­no­ma­mente al ruolo di cit­ta­dini. Qui pre­do­mina in asso­luto il para­digma del ribelle, che nel rifiu­tare l’obbligo alla sud­di­tanza si costrui­sce una pro­pria legit­ti­mità. Con la variante che non si tratta più di colui che si fa giu­sti­zia da sé bensì di una figura che ha capa­cità di com­porre alleanze, pre­fi­gu­rando un ordine nuovo, a venire.

La straor­di­na­ria viva­cità resi­sten­ziale riposa in que­sto con­nu­bio tra ricorso indi­pen­dente, ma rego­lato, alla vio­lenza, lad­dove essa è comun­que dive­nuta da tempo moneta dif­fusa nelle rela­zioni sociali, e capa­cità auto­po­ie­tica, ovvero di rige­ne­ra­zione civile e morale par­tendo da sé. La qual cosa implica il dive­nire pro­ta­go­ni­sti del pro­prio pre­sente non all’interno di un ciclo vir­tuoso ma nel momento in cui molto, se non tutto, sem­bra essere crollato.

Il carat­tere di sol­le­va­zione morale è, d’altro canto, testi­mo­niato un po’ da tutti i pro­ta­go­ni­sti del tempo. Si trat­tava di rea­gire a quella miscela di dipen­denza, cini­smo, apa­tia e subal­ter­nità che era il vero tim­bro dei tempi cor­renti. Dall’altro lato, però, a fronte di que­sta acqui­si­zione di signi­fi­cato sus­si­ste a tutt’oggi un’aspettativa irri­solta, quella per cui la Resi­stenza avrebbe dovuto pro­durre un plu­sva­lore poli­tico capace di fon­dare dac­capo la nazione. L’infruttuosità di tale attesa sta nel fatto che, come atte­sta ripe­tu­ta­mente l’autore, la lotta di Libe­ra­zione si arti­cola invece come feno­meno stra­ti­fi­cato, com­po­sto di molti ele­menti, all’interno di quello che può essere defi­nito come un tri­plice qua­dro sto­rico e poli­tico: la pro­ble­ma­ti­cità del coin­vol­gi­mento dell’Italia, non solo di quella fasci­sta, in una guerra di con­qui­sta e di ster­mi­nio, tra­sfor­ma­tasi poi in un lace­rante, este­nuante e rovi­noso con­flitto interno, com­bat­tuto per due anni sul ter­ri­to­rio nazio­nale; la fasci­stiz­za­zione siste­ma­tica, ancor­ché incom­piuta, delle ammi­ni­stra­zioni pub­bli­che, di una parte delle isti­tu­zioni e della stessa col­let­ti­vità, quest’ultima sot­to­po­sta ad un pro­cesso di nazio­na­liz­za­zione e di mas­si­fi­ca­zione che avrebbe lasciato segni tan­gi­bili nel lungo periodo, anche a distanza di molto tempo dal defi­ni­tivo tra­monto del regime; la rige­ne­ra­zione di uno spa­zio pub­blico, quello della poli­tica, dove i par­titi di massa avreb­bero sup­plito all’intrinseca fra­gi­lità della demo­cra­zia italiana.

Cli­ché da combattere

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Il reper­to­rio sto­rico, ovvero l’insieme degli eventi che dalla fine della guerra giun­gono ai giorni nostri, così come l’azione sto­rio­gra­fica, intesa nel suo essere rifles­sione cri­tica sul modo in cui il Paese si rac­conta in rap­porto alla rot­tura resi­sten­ziale, testi­mo­niano del valore sim­bo­lico che essa ha per tutti, scon­fitti com­presi. Ma pro­prio per que­sto, al mede­simo tempo, sto­ria e sto­rio­gra­fia indi­cano come per sua intrin­seca natura la Resi­stenza non possa costi­tuire l’elemento di coa­gulo tra iden­tità e sog­getti la cui ragione d’esistere si pone nella diver­sità com­pe­ti­tiva, non nella con­ver­genza pro­spet­tica. Da ciò deriva anche l’inconsistenza, a tratti quasi truf­fal­dina, comun­que mani­po­la­to­ria, dei rimandi ad una pre­sunta «vul­gata» domi­nante, al «mito della Resi­stenza» come fal­si­fi­ca­zione deli­be­rata, al «para­digma anti­fa­sci­sta» come ad un obbligo impo­sto, per arri­vare alle rilet­ture capo­volte di un Giam­paolo Pansa. Sono cli­ché molto dif­fusi, che Cooke con­tro­batte ripe­tu­ta­mente. Non per resti­tuirci una linea­rità che egli stesso iden­ti­fica come priva di fon­da­mento ma per dare sem­mai corpo alla discon­ti­nuità di cui la lotta per la Libe­ra­zione rimane deposito.

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I sei­cento e più giorni della Resi­stenza hanno infatti messo in luce pro­prio que­sto: di con­tro alle let­ture acquie­scenti, paci­fi­ca­to­rie, quie­ti­sti­che, com­pro­mis­so­rie, che si sono impo­ste nelle diverse sta­gioni poli­ti­che della Repub­blica, si con­trap­pone ad esse un noc­ciolo, quello del con­flitto, mate­riale e sim­bo­lico, tra inte­ressi con­trap­po­sti, il quale ricom­pone lo spa­zio poli­tico, dan­do­gli una sostanza che lo sot­trae alle ege­mo­nie delle vec­chie élite. Poi­ché la lotta di Libe­ra­zione ha por­tato alla luce, una volta per sem­pre, anche al di là delle mede­sime reto­ri­che apo­lo­ge­ti­che, il fatto che demo­cra­zia si dà lad­dove c’è poli­tica e poli­tica è, per defi­ni­zione, lo spa­zio delle rela­zioni con­flit­tuali. Nel modo in cui si per­viene a media­zione di esse si gioca la natura e il senso di ciò che chia­miamo libertà.

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