L’identità annientata

“Senza carte” si era spogliati della propria identità: licenze elementari, fogli matricola, atto di congedo, l’intera vita delle classi subalterne era inscritta nei documenti che ne certificavano diritti e doveri e garantivano la loro esistenza

PASSAPORTI, carte di identità, foto segnaletiche. La modernità della politica aveva inventato le carte.
E QUELLE carte erano gli uomini e le donne che lo Stato identificava come suoi cittadini, come destinatari delle sue leggi e della sua sovranità. Sans papiers , sono i clandestini nella Francia di oggi, come WhitOut Papers , Wop, erano gli italiani che gli Stati Uniti respingevano al loro arrivo a Ellis Island. “Senza carte” si era spogliati della propria identità: licenze elementari, fogli matricola, atto di congedo, l’intera vita delle classi subalterne era inscritta nei documenti che ne certificavano diritti e doveri e garantivano la loro esistenza. Senza carte, restava solo il loro corpo, le impronte digitali delle democrazie, i numeri tatuati sul braccio dei regimi totalitari.
Fu il nazismo a dare un senso compiuto a quella che si definì biopolitica: l’esistenza biologica degli uomini traducibile immediatamente in politica e, viceversa, la politica segnata da una caratterizzazione intrinsecamente biologica. Il regime di Hitler spinse la “biologizzazione” della politica ad estremi mai raggiunti in precedenza e il popolo tedesco diventò una sorta di corpo organico, da curare e proteggere, amputandone violentemente le parti infette: la soppressione del nemico era necessaria per garantire la vita del popolo, lo Stato con lo sterminio di massa garantiva il benessere e la felicità dei suoi sudditi.
Dal corpo collettivo del popolo ai corpi dei singoli individui. Anche in questo senso, la “nuda vita” — la pura esistenza biologica spogliata della cittadinanza, che per secoli era rimasta una terra di nessuno, in una zona fuori dei circuiti della politica e della statualità — con Hitler diventò l’oggetto dell’esercizio diretto della sovranità dello Stato, fino a far coincidere il corpo biologico degli individui con la loro dimensione politica.
Questa corporeità materiale della cittadinanza rese inutili le carte e furono i corpi, direttamente i corpi, ad essere chiamati a certificare le esistenze delle vittime dell’universo concentrazionario; il numero tatuato sul braccio che si sostituiva al nome, insieme agli abiti tutti uguali, vecchi e di taglie sbagliate, avviava un processo di annientamento dell’identità che si sarebbe concluso solo con la morte. Nel campo, la “nuda vita” del detenuto proseguiva solo per permettere al potere assoluto incarnato dal nazismo di affermarsi e consolidarsi, manifestando apertamente la sua tremenda efficacia nel degradare e trasformare la humana conditio, riducendo l’uomo a un essere anonimo e insignificante.
Oggi sono i flussi di merci, di capitali, di uomini che si rincorrono lungo le rotte della globalizzazione a trascinare masse anonime che stentano a trovare un luogo dove definirsi e dove radicarsi. Niente a che vedere con l’orrore concentrazionario e con le eredità del Novecento. Attraverso il mare o lungo i binari di una ferrovia si tratta di uomini e donne in continuo movimento, sospinti e respinti dai confini e dalle burocrazie, condannati a una insignificanza che invece di proteggerli li rende ancora più fragili ed esposti. I corpi che certificano la loro esistenza sono precari quanto i loro destini; a un Occidente che non sa nemmeno come chiamarli (profughi, immigrati, rifugiati, clandestini) offrono lo spettacolo di una comune miseria fisica e, in fondo, quel numero stampato sul braccio del bambino dalla poliziotta ceca, appare quasi il tentativo di sottrarlo al mucchio indistinto che lo avvolge nella sua disperazione.

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