Lucia Uva: «Dov’è la giustizia? la tortura ci accomuna all’Egitto»

caso Uva

Varese. Morto dopo il trasferimento in caserma. La sorella: «I poliziotti assolti ci hanno riso in faccia». «Continueremo a lottare. E la verità alla fine verrà fuori: dovranno dirmi cosa è accaduto a Giuseppe»

VARESE Quando, dopo quattro ore di camera di consiglio, il giudice Vito Piglionica ha assolto i due carabinieri e i sei poliziotti accusati di aver ucciso Giuseppe Uva, lei è rimasta immobile. È stata sua figlia Angela a parlare per tutti: «Maledetti».

Per Lucia Uva il tempo si era come fermato, perché anche se era stato lo stesso Pm ha chiedere l’assoluzione di tutti gli imputati, quando la botta arriva è sempre dura. E all’inizio c’è poco da dire, soltanto dopo arrivano le lacrime e dopo ancora la volontà di non arrendersi.
Giuseppe è morto a 43 anni, la notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo essere stato arrestato in centro a Varese mentre, ubriaco, stava spostando delle transenne in mezzo alla strada. L’hanno caricato in macchina e portato nella caserma di via Saffi. Da lì è uscito soltanto diretto verso l’ospedale dove sarebbe morto nel giro di poche ore. In mezzo, un mistero che sette anni di indagini e due di processo non sono riusciti a risolvere.

Le cose, va detto, si sono messe male sin dall’inizio: il primo pm incaricato del caso, Agostino Abate, non ne ha mai voluto sapere di mettere sul serio sotto la lente i carabinieri e i poliziotti. Nel 2012 arrivò addirittura a mettere sotto processo un medico dell’ospedale di Varese, che venne assolto con formula piena e richiesta del giudice di indagare su quanto sarebbe accaduto in caserma.

Già, perché lo snodo fondamentale della storia è tutta in quelle ore passate in compagnia delle divise. Alberto Biggiogero, arrestato insieme a Giuseppe quella notte di giugno, ha sempre sostenuto di aver sentito il suo amico gridare, ma la sua testimonianza è stata giudicata non attendibile. Alla fine anche la nuova pm, Daniela Borgonovo, ha chiesto l’assoluzione: non c’erano le prove. O non le hanno trovate, che fondamentalmente è uguale. Il vizio è all’origine: quello di Giuseppe Uva ormai è un cold case, tornare a indagare su fatti di otto anni fa sperando di cavarne fuori qualcosa di utile da un punto di vista giudiziario è una pia illusione. Per questo l’assoluzione degli agenti era scontata: il mazzo è regolare perché è il tavolo ad essere truccato.

«Ci hanno detto che mio fratello è morto di freddo – dice adesso Lucia Uva – non hanno trovato colpevoli, non hanno fatto giustizia. Otto anni dopo io ho perso la mia famiglia e non mi hanno detto il perché. Io li ho visti i carabinieri e i poliziotti dopo la sentenza: si abbracciavano e ci ridevano in faccia. Per questo mia figlia Angela si è innervosita: è come se loro non avessero capito che eravamo tutti lì per un morto. In tutto questo tempo non sono riuscita nemmeno a guadagnare il loro rispetto».

Ci saranno nuovi ricorsi, questo è certo, ma la partita giudiziaria di fatto è finita venerdì sera: le indagini non hanno portato a niente. Ore e ore di testimonianze, chili di carta con perizie di ogni genere, l’esame attento di ogni aspetto della vita di Giuseppe, definito alla fine dall’avvocato delle divise Luigi Di Pardo come «un clochard sporco e puzzolente»: la sistematica distruzione della vittima per dimostrare che la sua vita non poteva che andare a finire com’è finita, perché la devianza e la marginalità sono i tratti infantili di un sistema che si ritiene perfetto. In tutti questi anni è uscito fuori di tutto sulla vita di Uva ma niente o quasi sulla sua morte.

«Di fatto hanno messo noi sotto processo – prosegue Lucia -, ma è giustizia questa? Io, di sicuro, so soltanto una cosa: non mi fermerò, andrò avanti finché non mi avranno detto la verità su mio fratello, su come è morto e su quello che gli hanno fatto. Giuseppe è entrato in caserma sulle sue gambe e ne è uscito in barella. Nessuno è riuscito a fare luce su quello che è successo tra questi due momenti. Ecco, la situazione è questa e io mi chiedo come facciamo a chiedere all’Egitto giustizia per Giulio Regeni quando le stesse cose succedono anche qui in Italia».

La geografia della malapolizia e della repressione non conosce confini, e ovunque la legge, qualsiasi essa sia, appare incapace di mettere sotto inchiesta se stessa. Il finale è sempre amaro, anche se mai definitivo: nel caso Uva come negli altri, c’è una fetta consistente dell’opinione pubblica che al di là di quello che accade nelle aule dei tribunali sa che la verità è altrove, ben visibile anche se nascosta tra gli ingranaggi di uno stato delle cose che ha bisogno di farsi vedere inscalfibile per poter avere speranze di sopravvivere.

«Tanta gente, tante associazioni in questi anni non mi hanno abbandonata – la conclusione di Lucia Uva – questo mi fa sentire un po’ rassicurata anche in mezzo a questa ingiustizia. Ho visto cose vergognose, sono caduta tante volte ma mi sono sempre rialzata. La verità alla fine verrà fuori, me lo dovranno dire in faccia quello che hanno fatto a mio fratello».

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