Scomparso a 87 anni a Parigi l’intellettuale bohemien che analizzò tra i primi lo sviluppo ineguale del capitalismo. Dalla stagione dei non allineati all’incontro con il movimento no global
Ha attraversato la seconda metà del Novecento assistendo alla conferma e alla smentita delle sue tesi sullo sviluppo ineguale che lo hanno reso noto a livello mondiale. La tendenza e la voracità capitalistica planetaria, scriveva già agli inizi degli anni Sessanta Samir Amin, dovevano tuttavia aver bisogno della permanenza di economie non capitaliste per consentire alle merci del centro dell’impero di avere sbocchi di vendita, permettendo l’accesso predatorio alle risorse naturali del Sud del pianeta attraverso politiche neocoloniali e imperialiste.
QUESTO SCRIVEVA Samir Amin, morto ieri nella capitale francese a 87 anni, dopo la laurea parigina, l’esperienza nel Consiglio per lo sviluppo egiziano durante il breve e intenso periodo nasseriano, il ruolo di Ministro dello Sviluppo economico nel Mali. A quel punto di vista rimase sempre fedele, con la capacità tuttavia, di modificarlo, aggiornarlo e articolarlo alla luce delle trasformazioni del capitalismo dopo la risacca del movimento dei paesi non allineati, il crollo del socialismo reale, la sconfitta dell’ipotesi maoista di un socialismo diverso da quello sovietico, la globalizzazione.
Samir Amin nasce al Cairo nel 1931 da padre egiziano e madre francese. Si trasferisce a Parigi per frequentare l’università. Nella sua autobiografia ha descritto gli anni universitari come un intenso periodo bohemienne durante il quale ha stabilito rapporti con intellettuali provenienti da tutto il mondo. Quelli di Parigi sono anche gli anni della militanza politica, prima nel Partito comunista francese e poi nei primi gruppi «cinesi». Feroce, dopo la scelta maoista, la sua critica all’espansionismo sovietico e alla convinzione terzointernazionalista che lo sviluppo economico doveva necessariamente passare attraverso una intensiva industrializzazione.
IL RITORNO AL CAIRO è qualificato come una tappa fondamentale nella sua educazione sentimentale alla politica. Aderisce al panarabismo per poi prenderne le distanze. Tutto lascia prevedere una sua carriera istituzionale nel sottobosco ministeriale egiziano. La scelta di trasferirsi in Mali e di accettare il posto di Ministro dell’Economia è però una smentita di chi lo vede già parte della nomenklatura egiziana.
Sono gli anni in cui Samir Amin entra in contatto con quel gruppo di economisti, sociologici, filosofi che affronta il rapporto fortemente conflittuale tra sviluppo e sottosviluppo. André Gunter Frank, Emmanuel Arghiri, Immanule Wallerstein, Giovanni Arrighi, lo stesso Amin costituiscono, presi nel loro insieme, un laboratorio teorico e politico che accumula materiali e proposte da mettere a disposizione delle esperienze politiche nazionaliste e antimperialiste che ha come rispecchiamento politico la Cina maoista, ovviamente, ma anche tutte quelle forme politiche che in Europa, Asia e Africa puntano a intraprendere vie inedite allo sviluppo economico, tra le sirene capitaliste di Scilla e quelle sovietiche di Cariddi.
Lo sviluppo capitalista esercita una vocazione egemonica che punta a disegnare il mondo a sua immagine e somiglianza, ma la persistenza di forme economiche non capitalistiche può costituire il porto di imbarco per modi di produzione sperimentali. Samir Amin è uno dei teorici più impegnati su questa scommessa politica. È l’unico che sceglie di lavorare e vivere nel Sud del mondo. Partecipa attivamente ai lavori del Forum del terzo mondo, tessendo una rete di rapporti e relazioni intellettuali e politiche sopravvissute anche dopo la sconfitta del movimento dei paesi non allineati.
NEGLI ANNI OTTANTA, arriva a teorizzare la necessità di un de-linking, uno sganciamento cioè delle economie nazionali dalle interdipendenze di una capitalismo sempre più globale. La sua è una posizione rispettata, ma minoritaria anche in campo marxista. Solo negli anni d’oro della globalizzazione neoliberista il suo punto di vista incontrerà l’interesse degli attivisti del movimento noglobal nel Sud del mondo.
IL VOLTO SORRIDENTE, cordiale, glamour di Samir Amin diventerà una presenza costante nei forum sociali di Porto Alegre. È una delle voci più ascoltate tanto in Asia che in America latina, anche per le sue analisi sulla crisi del capitalismo. A differenza di molti altri critici dello sviluppo, Amin è infatti convinto che la crisi del capitalismo non è un fatto accidentale, ma strutturale e che il doppio legame tra sviluppo e sottosviluppo era necessario proprio per gestire le crisi da sovrapproduzione, finanziarie e di «composizione organica del capitale» che caratterizzano l’economia mondiale.
Negli ultimi anni, il non più bohemienne Samir Amin era diventato consapevole che la distinzione tra primo, secondo e terzo mondo non funzionava più. Talvolta introduceva un tema che nel suo schema analitico non era mai stato previsto: cioè che lo sviluppo capitalistico non prevedeva più un «dentro» e un «fuori» e che lo «sganciamento» dal capitalismo era la mission impossible che richiedeva un surplus di intelligenza politica della quale non c’era traccia nel mondo dominato dal pensiero unico. Accenni di un possibile nuovo percorso di ricerca mai decollato.
IN UNO DEGLI ULTIMI SCRITTI ha difeso il modello cinese, sostenendo che la trasformazione della Cina in «fabbrica del mondo» non era espressione di un capitalismo governato dallo Stato, ma una contraddittoria esperienza di un socialismo di mercato che poteva costituire una alternativa al moloch della globalizzazione neoliberista. Una speranza, la sua, non proprio espressione di un principio di realtà di un intellettuale militante del lungo Novecento.
Una bibliografia
Il primo libro di Samir Amin pubblicato in Italia è stato «Lo sviluppo ineguale». (Einaudi, 1977). Bisogna attendere molti anni prima che la casa editrice Asterios pubblichi «Il capitalismo nell’era della globalizzazione» (1997), seguito da «Il virus liberale. La guerra permanente e l’americanizzazione del mondo» (Punto rosso, 2004), «La crisi. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?» (Punto rosso, 2009). Suoi sono anche «Per un mondo multipolare» (Punto rosso, 2006), «Il mondo arabo. Sfide sociali, prospettive mediterranee» (Punto Rosso, 2004), «Il mondo arabo nella Storia e oggi» (Punto Rosso, 2012). «Ottobre ’17: ieri e domani» (MarxVentuno) è il titolo del suo dialogo con Andrea Catone sul centenario della Rivoluzione russa.
* Fonte: IL MANIFESTO
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