Cile. La squadra di aguzzine del dittatore Pinochet

Durante la dittatura un gruppo di donne era stato addestrato per sequestrare, torturare e uccidere gli oppositori. Di recente una di loro, rifugiata in Australia, è stata estradata

Sono un gruppo di giovani ragazze, meno di una decina. Hanno fra i 20 e i 30 anni, vestiti e tagli di capelli ricercati. Sono tutte sorridenti nelle immagini di archivio in bianco e nero. In alcune fotografie sono a una festa, tengono in mano bicchieri di vino e ridono, in altre salutano con la mano mentre siedono fra gli spalti allo stadio.

Sembrerebbero ragazze qualunque in un album di ricordi degli anni ’70, ma guardando meglio le immagini si nota che sono sempre circondate da militari in alta uniforme. Quelle giovani donne sorridenti durante gli anni della sanguinaria dittatura cilena di Pinochet sono state agenti segreti con il compito di sequestrare, torturare e uccidere gli oppositori e oggi quelle foto sono materiale probatorio nelle aule giudiziarie.

ADRIANA RIVAS, detta «Chani», faceva parte di quel nucleo di agenti. Oggi ha 67 anni e vive dal 1978 in Australia, a Sidney. Il 29 ottobre scorso il tribunale del New South Wales ha dato il via libera per l’estradizione della donna. Arrestata a Sidney lo scorso febbraio, ha due settimane di tempo dalla sentenza per ricorrere in appello contro la decisione del giudice. Rivas, che in Australia ha lavorato come babysitter e collaboratrice domestica, negli anni della dittatura di Pinochet era stata assunta al Ministero della Difesa cileno come segretaria per poi essere arruolata, nel 1974, alla Dina (Dirección Nacional de Inteligencia) la sanguinaria polizia segreta di Pinochet.

Aveva poco più di 20 anni quando è stata nominata segretaria personale del secondo uomo più potente della dittatura cilena: Manuel Contreras, capo della Dina condannato a 289 anni di carcere.

Ma le mansioni di Rivas non si limitavano al solo lavoro d’ufficio: faceva parte della temutissima «Brigada Lautaro», un nucleo incaricato di sterminare gli oppositori politici, comandato dal capo dell’esercito Juan Morales Salgado e creato dallo stesso Contreras. Il nucleo, formato da più di 70 agenti speciali, si occupava del sequestro, della tortura e della sparizione dei detenuti e operava nella caserma clandestina Simón Bolívar.

IL CENTRO DI STERMINIO Simón Bolívar è stato definito «il segreto più custodito della dittatura di Pinochet» dato che non si è saputo della sua esistenza per oltre 30 anni.

Come è stato possibile? Non c’è stato nessun sopravvissuto: chiunque sia entrato in quel centro è stato torturato, ucciso e fatto sparire. A svelare il segreto è stato nel 2007 Jorgelino Vergara. Interrogato dagli inquirenti sul caso «Calle Conferencia», un’operazione con cui nel 1976 la Dina ha sequestrato e ucciso i membri del Partito comunista cileno (Pcc), Vergara – detto «El Mochito» – ha spiegato cosa accadeva in quell’anonimo distretto negli anni della dittatura.

VERGARA AVEVA SOLO 15 ANNI e lavorava come cameriere a casa di Manuel Contreras, quando è stato portato per la prima volta dentro al centro di sterminio Simón Bolívar, il suo compito era di fare il caffè ai torturatori, controllare i detenuti e ripulire le stanze dopo le torture.

Vergara è uno dei testimoni che ha identificato Adriana Rivas come una delle agenti della Brigada Lautaro che operava al Bolívar. Sostiene di averla vista torturare molti detenuti, fra cui Victor Díaz. Vergara durante gli interrogatori degli inquirenti ha parlato più volte delle donne della «Brigada Lautaro» descrivendole come «le più spietate torturatrici del Bolívar» fra cui spicca il caso – molto noto in Cile – di Gladys Calderón, compagna di lavoro di Rivas, che aveva il compito di fare l’iniezione letale ai detenuti dopo le torture. Calderón che prima di entrare nella Dina aveva studiato da infermiera, era conosciuta all’interno del campo come «l’Angelo del cianuro».

ARRIVATA AL GRADO di sottoufficiale dell’Esercito, ancora oggi Rivas riceve la pensione militare. L’ex agente della Dina ha sempre negato ogni accusa, ha ammesso di aver fatto parte della polizia segreta, ma ha dichiarato di non aver mai torturato o preso parte a un interrogatorio.

Rintracciata nel 2013 dalla radio australiana Sbs ha detto: «I migliori anni della mia vita sono stati quelli trascorsi alla Dina. Sono cresciuta in una famiglia numerosa: siamo 6 fratelli. Mio padre apparteneva alla classe media ed era l’unico nella mia famiglia a lavorare; mia madre faceva la casalinga. Eravamo tutti studenti e le mie sorelle si sono sposate giovani. Io ho potuto studiare a un corso per diventare segretaria bilingue, ho imparato molto bene l’inglese.

Quando ho iniziato a lavorare alla Dina ho scoperto un nuovo mondo. Quattro volte all’anno pagavano per il mio guardaroba: mi vestivano dalla testa ai piedi con abiti delle migliori boutique del Paese. Potevo frequentare i gala e le feste più esclusive. Una ragazza come me, di classe media con un’educazione media, quando mai avrebbe avuto la possibilità di cenare all’ambasciata in Cile? Di andare in giro in limousine o di soggiornare nei migliori hotel del Paese? Ho potuto conoscere i presidenti di altri Stati, ho visto perfino l’incoronazione di un re».

DURANTE IL CORSO dell’intervista, che ha fatto molto scalpore sia in Cile che in Australia, Rivas ha anche spiegato che: «La tortura è sempre esistita in Cile. È l’unico modo per spezzare le persone perché psicologicamente non c’è un metodo, non esiste l’iniezione che fanno nei film per far dire ai prigionieri la verità. Tutti sanno che è necessario farlo per rompere il silenzio delle persone, soprattutto dei comunisti che hanno una formazione militare migliore di quella dei soldati e che non parlano mai. Chiariamo una cosa: la tortura era necessaria. Lo hanno fatto i nazisti, lo fanno oggi negli Stati Uniti. Non si dice, si nasconde, ma si fa in tutto il mondo! È l’unico modo: nessuno si siede e confessa di aver ucciso qualcuno». Il caso di Rivas in Cile è molto noto anche perché nel 2017 è uscito nelle sale un documentario intitolato El pacto de Adriana che è stato girato dalla nipote, Lisette Orozco.

LA REGISTA DESCRIVE l’ex agente come «mia zia Chani, la donna che ammiravo di più al mondo, quella coraggiosa e forte. La zia che mi ha insegnato a far valere la mia opinione e ad essere sempre me stessa».

La giovane non sapeva quasi nulla del passato di Rivas, fino a quando non è stata arrestata davanti ai suoi occhi nel 2006 all’aeroporto di Santiago. Da quel momento Lisette, che all’epoca aveva 17 anni e studiava cinema, ha iniziato a intervistare sua zia e la sua famiglia. Poco a poco – rintracciando i testimoni – le certezze che aveva sulla zia, che credeva innocente, si sono sgretolate e si è resa conto dei tentativi di manipolazione della donna.

ARRESTATA NEL 2006 a Santiago (era tornata per salutare la propria famiglia come aveva già fatto in altre occasioni) per la sua partecipazione nel «Caso Conferencia», Rivas è stata processata a febbraio dello stesso anno per l’uccisione del segretario nazionale del partito Víctor Díaz.
Detenuta per 3 mesi, appena ha ottenuto la libertà condizionata è scappata clandestinamente in Australia. L’ex agente della Dina oggi è accusata della sparizione aggravata di 7 cittadini cileni negli anni della dittatura di Videla: Reinaldo Pereira, Héctor Veliz, Fernando Ortiz, Horacio Cepeda, Lincoyán Berríos, Fernando Navarro e Victor Díaz.

Il governo cileno ne ha sollecitato l’estradizione nel 2014 e il 29 ottobre, quando è stata pronunciata la sentenza sulla sua estradizione, il magistrato incaricato della causa Philip Stuart – dopo aver letto per oltre un’ora in aula il materiale presentato dal governo cileno sul caso, compresi i dettagli dei crimini imputati a Rivas – ha dichiarato che, in accordo alla legge australiana, la Dina e la Brigada Lautaro sarebbero considerati gruppi criminali.

Sono di altro avviso gli avvocati difensori di Rivas che in aula hanno contestato la sentenza sostenendo che fosse dovuta a pregiudizi per gli ideali politici dell’ex agente. Gli avvocati hanno inoltre dichiarato che i materiali presentati dal governo cileno sono insufficienti e che non provano che Rivas abbia compiuto alcun crimine. Ad attendere la sentenza fuori dal tribunale australiano c’era un numeroso gruppo di cittadini cileni che hanno accolto la sentenza con molta commozione leggendo i messaggi condivisi dalle famiglie delle vittime, fra cui quello dei figli di Lincoyán Berríos sindacalista e militante comunista ucciso nel 1976 a 48 anni: «Dedichiamo questa sentenza a tutte quelle famiglie che per tanti anni hanno lottato per trovare i loro cari scomparsi e ai figli di desaparecidos che sono cresciuti nell’abbraccio delle associazioni per i diritti umani e continuano a cercare i loro genitori».

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

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