Nel carteggio tra il filosofo e lo storico la genesi di una visione rivoluzionaria della Resistenza
I grandi libri non nascono mai da un solo autore. E anche Una guerra civile di Claudio Pavone, il saggio che cambiò lo sguardo sull’infuocato biennio 1943- ’45, è il frutto di una ricerca e di una sensibilità coltivata negli anni insieme a Norberto Bobbio. Strade che si incrociano, talvolta anche inconsapevolmente.
Domande che rimbalzano dall’uno all’altro, in una mescolanza di storia e filosofia, questioni morali e «questioni mortali, cioè questioni di vita e di morte». E sconfinamenti comuni oltre il mito, nel tentativo di restituire il senso più profondo a quella svolta che aveva mutato la vita di entrambi, e di un intero paese. Perché — come scrive Bobbio — «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe stata la storia di un popolo libero». Questa riflessione a due voci, cominciata nel 1965 e conclusa nel 2004 con la morte di Bobbio, viene ora ricostruita attraverso discorsi, articoli e sedici lettere inedite in un volume curato da David Bidussa per Bollati Boringhieri ( Sulla guerra civile. La Resistenza a due voci ). Era stato proprio Giulio Bollati, nel 1991, a insistere con Pavone perché accettasse lo scandaloso titolo di Una guerra civile. Per la prima volta uno storico di sinistra, peraltro un resistente, dava dignità storiografica e morale a una coppia di parole invalsa fino a quel momento nella pubblicistica neofascista. Una formula percepita da molti come offensiva, diminuente rispetto al carattere di «guerra di liberazione nazionale». Un’espressione espulsa dalla memoria comune perché — è Pavone a suggerirlo — «la coscienza collettiva seppellisce tutto ciò che la angustia». E la guerra fratricida combattuta tra il 1943 e il ‘45 era un grande peso da rimuovere. Soprattutto si faceva fatica ad accettare che anche la Repubblica Sociale fosse storia nostra, storia del nostro paese. E che gli odiati fascisti di Salò fossero italiani «e non fantasmi partoriti dall’inferno».
Secondo Pavone, la Resistenza non era stata solo «guerra civile», ma anche «guerra patriottica» contro il tedesco invasore e «guerra di classe» contro i padroni. E di «tre guerre» diverse aveva parlato per primo Bobbio nel 1965, anche se nel suo discorso non si spingeva fino alla nuova frontiera di «guerra civile». Il cantiere era comunque aperto. Ed è a un seminario organizzato dal filosofo, nel 1980, che Pavone pone le basi del suo nuovo lavoro, nella distinzione netta tra chi considera la violenza «una dura necessità» — sentimento prevalente tra i partigiani — e chi coltiva il «gusto estetico dell’uccidere», registrato nelle file avversarie.
I documenti raccolti nel volume Sulla guerra civile restituiscono gli incunaboli di una nuova visione della Resistenza. Di un “revisionismo” rigoroso che avrebbe poi posto un prezioso argine a un “neorevisionismo” disinvolto e funzionale ai nuovi equilibri politici degli anni Novanta.
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NORBERTO BOBBIO E CLAUDIO PAVONE
Torino, 14 aprile 1987
Caro Pavone, grazie dell’estratto del tuo articolo, molto interessante, che avevo già adocchiato (ndr si tratta dell’intervento di Pavone alla Fondazione Micheletti in cui per la prima volta formula in modo organico la sua tesi sulla Resistenza anche come “guerra civile”). Ma c’è differenza tra adocchiare e leggere: gli estratti servono proprio per questo. Il tema da te affrontato è di grande interesse: non avevo ancora chiaro quanto esteso fosse il riconoscimento della guerra di liberazione come guerra civile: da una parte e dall’altra. Avevo sempre avuto l’impressione che fosse più grande la rimozione da parte degli antifascisti.
E invece non è vero, almeno per quel che riguarda i tempi della lotta medesima (ndr Pavone spiega che la censura della nozione di “guerra civile” era più diffusa nel dopoguerra di quanto fosse stata tra gli stessi resistenti).
La rimozione da parte degli antifascisti è avvenuta sostituendo il concetto di «guerra partigiana » a quello di «guerra civile »: la guerra partigiana non è nel linguaggio tecnico o tecnicizzato una guerra civile, perché è una guerra contro lo straniero, se pure interno, o combattuta internamente. Guerra civile poteva essere soltanto quella contro i fascisti, ma una guerra di liberazione nazionale (di libertà dallo straniero) non può essere considerata nel senso rigoroso della parola una guerra civile. E la guerra dei partigiani fu, nella storia scritta dai vincitori, interpretata esclusivamente come una guerra di liberazione nazionale, un’interpretazione in cui si fece prevalere l’aspetto di lotta contro lo straniero su quello di lotta dell’alleato italiano (considerato come un servo e uno strumento del più potente alleato tedesco). È così?
Grazie ancora e cordiali saluti Norberto Bobbio Roma, 12 maggio 1987 Caro Bobbio, ti ringrazio molto per l’attenta lettura che hai fatto della mia relazione sulla «guerra civile». Quella relazione fu come l’estratto anticipato, e concentrato, di un capitolo del lavoro più ampio per concludere il quale avevo chiesto un anno di congedo (ma mi sono fratturato un ginocchio, e più che biblioteche e archivi ho dovuto frequentare ospedali). L’idea di questo lavoro mi venne dopo il seminario che tenni qualche anno fa al vostro Centro Gobetti. Poi si è sviluppato e anche aggrovigliato. Ho in mente un titolo provvisorio: «Saggio storico sulla moralità della Resistenza italiana». Oltre a intitolare alcuni capitoli a temi quali la scelta, il tradimento, la violenza, ne ho previsti tre che dovrebbero costituire proprio un trittico: la guerra patriottica, la guerra civile, la guerra di classe. Ti scrivo questo per comunicarti che i dubbi che tu esprimi nella tua lettera sulla piena liceità dell’uso del concetto di guerra civile per designare la resistenza sono anche i miei, nel senso che non considero quel concetto esaustivo. Penso invece che esso si combini in modo vario, talvolta nelle stesse persone, con il carattere patriottico (guerra di liberazione) e con il carattere «di classe» che ebbe la lotta. Per un «badogliano» il carattere patriottico poteva essere tutto; per un operaio comunista il nemico ideale e riassuntivo sarebbe stato un padrone fascista e servo dei tedeschi (ma non sem- pre i padroni davano questa soddisfazione agli operai…).
Ti ringrazio ancora e ti ricambio tanti cordiali saluti Claudio Pavone Torino, 10 aprile 1991 Caro Pavone, eccoti il discorso sulla Resistenza,inedito, di cui ti ho parlato ieri alla fine del seminario. Ricordavo di aver parlato delle tre guerre, ma non l’avevo mai più riletto, neppure quando scrissi l’articolo sulla «Stampa» che fu intitolato Le tre guerre, e scrivendo il quale probabilmente avevo in mente, pur senza averle rilette, le cose scritte da te, e lo scambio di lettere che vi fu tra noi due qualche anno fa, e di cui però ho un vago ricordo. Confrontando le tre guerre d’ora con le tre guerre del discorso del 1965 ci sono delle differenze, che mi paiono retrospettivamente di un certo interesse: la seconda guerra nel discorso del 1965 non viene mai chiamata «guerra civile»: segno evidente che allora questa espressione non si poteva ancora usare per una sorta di autocensura; la terza guerra non viene chiamata guerra di classe ma eufemisticamente di «emancipazione popolare» o d’«emancipazione sociale». (…) Cambia così anche il giudizio finale sulla terza guerra: completamente fallita nell’articolo di qualche mese fa, non fallita del tutto ma ancora in fase d’attuazione, nel discorso del 1965. Superfluo precisare che tra il 1965 e il 1990 c’è stato l’evento catastrofico della fine dei regimi comunisti. Il che spiega l’inconsapevole aggiustamento. (…) Norberto Bobbio Roma, 14 luglio 1991 Caro Bobbio, (…) mi sembra che nel discorso del 1965, a parte la diversa terminologia usata per designare le tre guerre, vi sia una meno rigida distinzione dei soggetti che combattono le tre guerre. (…). Ti unisco la premessa e il sommario del volume. Il titolo è frutto di lunghe discussioni con Bollati. La guerra civile ha finito col fare aggio sulle altre due. (…) Claudio Pavone
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