La città degli ebrei

ghetto

Fu Venezia a inventare nel 1516 la parola “ghetto”. Ecco che cosa rimane oggi del luogo simbolo dell’esclusione

DETTO E FATTO. LE CASE DELL’ISOLA FURONO svuotate alla svelta degli abitanti e date in affitto ai giudei a un prezzo maggiorato. I nuovi inquilini avevano pochi diritti. Non potevano avere proprietà, far politica, accedere alle professioni, alla scuola e all’università, ma nello stesso tempo — stante le relazioni commerciali degli ebrei con mezzo mondo — avevano dalla magistratura la garanzia di poter lavorare nel “riserbo” necessario ad “animare li mercanti di esse Nazioni a continuar quietamente il loro negozio conoscendo l’utile ben rilevante che ne ridonda a nostri dazi”. Dentro i confini del Ghetto funzionava un relativo autogoverno e la libertà di culto era assoluta, al punto che i greci, invidiosi, chiesero il permesso di avere un loro spazio autonomo di commercio e di culto, al pari degli “eretici armeni” e degli ebrei.

Prestar denaro era diabolico, secondo i dettami della Chiesa, dunque a Venezia, come altrove, l’usura — pur regolamentata — fu lasciata agli ebrei. Ma siccome la Serenissima aveva bisogno di denaro per le sue guerre e i suoi commerci, gli ebrei — pur fiscalmente spremuti come limoni — erano la sua vera sponda sul piano finanziario. Scelta pragmatica, perché ritenuta più conveniente del cattolico Monte di Pietà che riempiva le casse del Vaticano. Il Ghetto era dunque un modello di costrizione, ma condiviso in misure diverse anche da tedeschi, armeni e in particolare dai turchi. Accusati di fare “cose turche” (qualcosa di simile alla recente aggressione delle donne di Colonia), il loro fondaco era sigillato da guardiani di provata discendenza cristiana, e addirittura diviso fra albanesi e costantinopolitani. «I medici ebrei erano apprezzati più degli altri», ricorda Riccardo Calimani, discendente di abitanti del Ghetto e storico dell’ebraismo italiano. Se gli chiedi perché, ti risponde con un lampo azzurro ironico dietro palpebre a fessura. «Non attingevano alla teologia come gli altri — ghigna — guarivano il corpo e non l’anima», e spiega che per questo essi avevano una deroga sulle ore di “coprifuoco”, e potevano uscire dal Ghetto a qualsiasi ora per le chiamate d’emergenza. E che dire dell’ebreo Daniel Rodriguez che, pochi anni dopo il 1516, venne incaricato dalla Repubblica di costruire la dogana di Spalato, base commerciale sulla costa dalmata sotto controllo veneziano. O di Jakob Sarava, che nel Settecento può andarsene in missione ad Amsterdam per conto della comunità. Il Ghetto di Venezia non era quello di Varsavia del Novecento. Praticamente, una repubblica nella repubblica.

C’erano una volta gli askenaziti, racconta Calimani. Erano i più poveri ed erano venuti tra i primi dalla Germania. Nel Ghetto fecero gli straccivendoli, unico lavoro consentito dal “catenaccio” delle corporazioni, e furono sistemati nell’isolotto centrale. Poi toccò ai levantini dall’impero ottomano, ebbero le strade contigue verso il canale di Cannaregio e furono tutelati più degli altri perché ritenuti indispensabili dalla Repubblica nel commercio con l’Oriente. Per ultimi giunsero i “marrani”, i più ricchi, ebrei convertiti a forza dalla cattolicissima Spagna, che a Venezia ebbero agio di tornare alla fede d’origine ma conservarono, si dice, l’alterigia degli “ Hidalgos” nei confronti degli altri inquilini del Ghetto.

« Šnaim yeudin shalosh batei a kneset », due ebrei fanno tre sinagoghe, sorride Francesco Trevisan Gheller con la kippah d’ordinanza sul capo, per far capire che i cinque templi dell’enclave sono mondi totalmente diversi; poi ci conduce in un dedalo di ballatoi, scale di legno, pulpiti, matronei, passaggi segreti, portoni, pavimenti sbilenchi, cunicoli e porte sbarrate da lucchetti, attraverso la “Scola” grande dei Todeschi (ebrei askenaziti), poi quella dei Provenzali, dei Levantini, degli Italiani e infine dei Ponentini (Spagnoli), fra tendaggi e colonne tortili, in uno scintillare di lampadari e paramenti nel semibuio di finestre quasi sempre chiuse. Tutto questo in una stupefacente contiguità con le abitazioni private, in uno sfruttamento dello spazio che ha del miracoloso e maniacale assieme. Un gioco di incastro, un labirinto che fa del Ghetto — utero e al tempo stesso ombelico di un mondo — la quintessenza di Venezia e non la sua antitesi.

A prova di ciò le parole dal Ghetto entrate a far parte del dialetto veneziano. Calimani ci ride sopra e centellina termini simili a formule magiche. « Orsài », commemorazione dei defunti, dal tedesco Jahrzeit importato dagli askenaziti. « Zuca baruca », zucca benedetta che tutti sfama con poco, dall’ebraico baruch che vuol dire benedetto. Ma è soprattutto lo spassoso libro di Umberto Fortis su La parlata degli ebrei di Venezia (Giuntina) a condurti per mano nell’universo lessicale assorbito dalla Serenissima. Una lingua franca, quasi un yiddish in formato mediterraneo, che svela — un po’ come a Trieste — l’intimità di contatto della città con gli ebrei nonostante la reclusione. “ Fare un Tananàì”, fare un Quarantotto. “ No darme Giaìn”, non darmi vino scadente. “ No xe Salòm in sta casa”, non c’è pace in questa casa. E poi la “ Tevinà”, il sesso femminile, la quale “ ghe xe chi che la tien, e ghe xe chi che la dà”. Oppure il micidiale “ El traganta de soà”, detto di chi puzza di m. (vulgo “escrementi”). Il Ghetto non esportava solo tessuti o denaro, ma anche parole.

La vita di Calimani è segnata dall’Olocausto. «Il 16 settembre del ‘43 il presidente della Comunità ebraica si suicida per non dare ai nazifascisti l’elenco degli iscritti. In quello stesso giorno i miei genitori si sposano per poter scappare assieme e nascondersi sui monti dell’Alpago dopo un tentativo di passare in Svizzera. Mi metteranno al mondo il 20 gennaio del ‘46. Le dice qualcosa? Nove mesi esatti dal 25 aprile, perfetta scelta di tempo». È il primo della sua famiglia nato fuori dal Ghetto, ma spiega che già nell’Ottocento — dopo l’arrivo di Napoleone che brucia le porte dell’enclave e parifica gli ebrei agli altri — scatta l’emigrazione verso altri quartieri, con conseguente assimilazione di molti ebrei ansiosi di spazio e modernità. Col risultato che oggi quelli rimasti “dentro” sono poche decine, sostituiti da veneziani di altra origine.

«Questi cinquecento anni non devono essere una celebrazione, ma uno spazio di riflessione su un’esperienza in senso lato, qualcosa che va oltre la stessa Shoah. Non sono troppo d’accordo con tutto questo apparato di concerti e discorsi previsti per fine marzo. Il messaggio che deve partire è di libertà per tutti i popoli, contro tutte le reclusioni, i campi profughi, le banlieue…». Perché ci sono i corsi e i ricorsi, come l’assedio di Sarajevo, che inizia esattamente a cinquecento anni dall’insediamento sulla collina di Bjelave degli ebrei fuggiti dalla Spagna. La città, allora ottomana, vide arrivare ebrei da ovunque, esattamente come Venezia. E poi, nell’aprile del 1992, l’anno dell’Esilio fu festeggiato con le lacrime agli occhi, ricorda Dževad Karahasan, mentre intorno tuonavano le granate. «Ghetto non è un problema ebraico ma della cristianità», taglia corto Calimani. E vien da pensare che a Venezia gli ebrei lo chiamavano altrimenti, “ Chatzer”, che vuol dire recinto. Poi ha vinto la parola coniata dai cristiani. Vorrà pur dire qualcosa.

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