Sinistra?

Ho una profonda stima per la persona e il lavoro di Luigi Manconi. Nel suo bellissimo Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica egli scrive: «Tra le molte contraddizioni della mia azione politica, una appare forse come più stridente. Ovvero che faccio quello che faccio e penso quello che penso, pur rimanendo nel Pd … Per ora penso che vi sia ancora spazio per condurre conflitti interni e per utilizzare proficuamente la forza, le risorse e la platea di un “partito largo”». «Per ora», scriveva Manconi in un libro uscito nel marzo 2016.

Un anno e mezzo dopo, dopo la repressione securitaria attuata da Marco Minniti, perfino Gad Lerner, per Manconi una sorta di «fratello minore» ha infine restituito la tessera del Pd, scrivendo che «l’involuzione della politica del Pd sui diritti umani e di cittadinanza costituisce per me un ostacolo non più sormontabile».

Una decisione soffertissima, a giudicare dal fatto che solo poche settimane prima lo stesso Lerner aveva proposto ad Andrea Orlando un doppio tesseramento Pd-Campo Progressista.

Per Manconi questo ostacolo è, evidentemente, ancora sormontabile.

Non gli sono certo meno grato per le sue solitarie, cruciali battaglie, ma non riesco a capire come una scelta personalissima, provvisoria e sofferta come questa (una scelta che divide anche chi ha percorso insieme una vita intera) possa trasformarsi in un programma politico su cui chiedere il consenso di milioni di cittadini. Già, perché Campo Progressista è nato proprio con questo fine: andare al governo con il Pd, nella speranza di condizionarlo un po’. È questo l’unico significato possibile della formula taumaturgica del «centrosinistra»: perché senza Pd non esiste centro cui connettersi. E, d’altra parte, Giuliano Pisapia continua onestamente a dirlo, nonostante le aspirazioni e le dichiarazioni contrarie dei suoi compagni di viaggio.

Ebbene: come molti altri, credo che questo progetto appartenga al passato. Non dico che non mi impegnerei per qualcosa del genere: ma nemmeno lo voterei.

Perché il Pd ha avuto un ruolo decisivo nella costruzione dello stato delle cose: l’Italia così com’è è in larga parte opera sua. Oggi il Pd fa, platealmente, politiche di destra: sui migranti, i poveri, i marginali fa perfino politiche di destra non democratica. Come ha detto Lerner, ora è questione di diritti umani.

Il Pd ha rieletto Renzi trionfalmente, e l’opposizione interna è politicamente irrilevante. I flussi elettorali del 4 dicembre scorso dimostrano che l’85 % di chi vota Pd ha scelto il Sì. Non una colpa, ovviamente, ma il segno chiarissimo di una mutazione politica e culturale: la resa allo stato delle cose. L’abbandono dell’idea stessa di conflitto sociale.

Ora, è possibile che se continuerà a votare solo il 50% degli italiani – o se, come tutto lascia intendere, l’affluenza diminuirà ancora – una sinistra radicale alternativa al Pd (prima, durante e dopo il voto) abbia poco spazio.

Ma se questa sinistra fosse capace di essere unita, e soprattutto si impegnasse a costruire un progetto credibile di Paese giusto, inclusivo ed eguale: allora un’altra parte degli italiani tornerebbe a votare e a votarla, riaprendo un conflitto, e dunque spalancando un finestra sul futuro. E il cinico tavolo dei commentatori salterebbe in un minuto. Non è un’utopia: è successo il 4 dicembre.

Il percorso partito dal Brancaccio si sta snodando per le cento città di Italia, e presto potrà proporre un progetto di Paese: per capire cosa intendiamo dire quando diciamo «invertire la rotta». Alle assemblee partecipano compagni di SI, Possibile, Rifondazione ma anche di Mdp, oltre a quelli che si erano impegnati in molti dei progetti falliti e a tanti cittadini politicamente apolidi (tra cui cattolici che pensano che il Vangelo indichi una strada radicale e non «centrista» nel senso di «moderata»).

Ciò che accomuna tutte le persone che partecipano a questo percorso è la volontà di costruire tutti insieme una lista unica, attraverso un vero processo di partecipazione popolare: senza primogeniture; senza leader designati in anticipo; con il chiaro impegno di essere alternativi al Pd prima, durante e dopo il voto.

Non è un obiettivo impossibile, ma ogni giorno consumato in incomprensibili riunioni politiciste è un giorno sottratto alla costruzione di una sinistra di popolo capace di parlare all’altra metà degli italiani. Una sinistra che (come in altri paesi d’Europa) può diventare capace di vincere: se vincere significa saper cambiare la realtà, e non farsene cambiare.

* presidente di Libertà e Giustizia

FONTE: Tomaso Montanari, IL MANIFESTO

Vanno di moda i riferimenti entusiastici a Jeremy Corbyn, Bernie Sanders e Pedro Sánchez. Del primo si apprezzano il risultato elettorale e le correzioni sostanziose al blairismo del Labour Party. Il secondo avrebbe potuto fermare Donald Trump grazie al voto dei giovani e all’estraneità alle potenti lobbies che erano l’ombra di Hillary Clinton. Il terzo ha resuscitato socialisti spagnoli, vincendo il congresso del Psoe dopo il drammatico voto in Parlamento che aveva dato via libera al governo di destra di Mariano Rajoy. Sono tre casi esemplari di tre leader che hanno riaperto una dialettica a sinistra. Ma non bisogna fermarsi alla superficie. Quali sono i rapporti possibili tra le nuove sinistre europee – Podemos, Linke, Tsipras, ecc. – e le sinistre dei partiti storici?

L’indubbio stato comatoso del socialismo europeo merita attenzione, non fosse altro perché fa problema per tutte le componenti della sinistra. Sarebbe però un errore puntare solo sulle virtù delle nuove sinistre dando per spacciate e inutilizzabili le vecchie. Nel Labour, ad esempio, c’è sempre stata la sinistra di Tony Benn che oggi è quella di Corbyn.

Negli altri partiti il confronto è aperto, con spostamenti a sinistra. Il socialismo europeo inoltre resiste al governo a Stoccolma e Lisbona, è in ripresa a Londra, è sotto la tenda a ossigeno in Germania ingabbiato nel governo di unità nazionale che si può riprodurre anche dopo le elezioni di novembre, si è dissolto in Francia con l’avvento del ciclone Macron, in Spagna si dibatte tra le convulsioni del Psoe. Se non si vuole rispolverare la teoria del «socialfascismo» di staliniana memoria, occorre indagare sulle ragioni di queste difficoltà. La prolungata crisi economica ha reso impotenti le tradizionali bandiere socialdemocratiche di piena occupazione e redistribuzione dei redditi. Il crollo del «socialismo reale» non è valso come antidoto, i riferimenti ai lavoratori salariati sono andati in frantumi lasciando posto a precarietà e mutabilità della condizione di lavoro, si è paralizzato il progetto di unità europea. Non c’è stato infine un ripensamento sulle identità e i valori possibili di un moderno socialismo nell’era del digitale. Il blairismo neoliberista come risposta si è rivelato un bluff. Il liberismo dominante dagli anni Ottanta (Reagan, Thatcher) ha piegato il proprio antagonista, facendogli introiettare molte delle sue ragioni (Blair, Schroeder). In Italia ad aggravare il quadro ci pensa poi l’anomalo Pd a gestione di Matteo Renzi. Mancano leader della statura di Willy Brandt, Olof Palme, Bruno Kreisky, François Mitterrand. Eppure – come per i casi di Corbyn, Sanders, Sánchez e potremmo aggiungere Martin Schulz – non ci sono solo macerie (ed è forse un errore semplificatorio perfino pensare, come ha fatto Tomaso Montanari introducendo l’assemblea del Brancaccio, che tutto «il Pd è ormai un pezzo di destra, una destra non sempre moderata»). Resta inoltre convincente la distinzione della tradizione socialdemocratica tra mercato e capitalismo: il primo esiste da tempo immemore, il secondo ha assunto forme specifiche – modi di produzione e distribuzione – nel corso di vari periodi storici. Dalle esperienze più avanzate della socialdemocrazia (Svezia, Danimarca, Germania) ci viene consegnato il tema della mediazione tra Stato e mercato, oltre quello – sempre da aggiornare – di come si possano perseguire politiche keynesiane di ridistribuzione del reddito e di tendenziale nuova occupazione.

Il welfare è dunque la conquista sociale più avanzata del secolo scorso, mentre del «socialismo reale» sono rimaste ceneri. Fa discutere ancora l’ammonimento di Olof Palme in polemica con Mosca: «La pecora del capitalismo va continuamente tosata. Bisogna fare però attenzione a non ammazzarla». Nuove e vecchie sinistre sono destinate a gareggiare e a convivere in un rapporto di distinzione organizzativa e di competizione politica. Senza le une e senza le altre (o peggio, con le une contro le altre) il tema del «governo» resterà una chimera. In Germania – Spd, Linke, Verdi – e in Spagna – Podemos, Psoe – ci sono già maggioranze potenziali. Non nell’immediato, ma le uniche di sinistra di un domani possibile.

FONTE: Aldo Garzia, IL MANIFESTO

Ora che cade tutte le linee di crisi che aveva ricondotte a sé si dispiegano, come e peggio di allora. Sognare un Pd rigenerato dalla sconfitta di Renzi è follia almeno pari alla sua

Entropia: «Variabile termodinamica di stato, interpretabile come misura del disordine di un sistema» (Diz. Sabbatini Coletti). Viviamo una fase di entropia. Lo dimostra lo spettacolo offerto dal Pd in via Alibert a Roma, con la dinamica centrifuga del suo quadro dirigente, l’aggrovigliarsi dei linguaggi e il destino del governo appeso a un Segretario (accerchiato) che lo regge come la corda regge l’impiccato. Né sembra meno destrutturato il quadro sugli altri due versanti del nostro tripolarismo: M5S e Centro-destra.

Entropia, dunque. E quando si è all’interno di un processo entropico, la cosa peggiore che si possa fare è ragionare come se il sistema fosse in equilibrio. O, rotto l’equilibrio, i pezzi muovessero lungo traiettorie prevedibili.

Non è così. Ogni giorno il quadro cambia. Ogni pezzo sta altrove rispetto a dove era ieri, ma anche rispetto a dove avremmo pensato ieri che dovesse essere oggi. Ogni mossa apparentemente strategica si rivela, l’indomani, miserabilmente tattica.

Ogni grande annuncio un provvisorio ballon d’éssai. Renzi, D’Alema, Bersani, ma anche Grillo, Salvini, Meloni, e i loro equivalenti in sedicesimo, giocano alla giornata. Le loro mosse scadono come il giornale quotidiano al successivo lancio d’agenzia. La data delle elezioni, il sistema elettorale, la durata del governo, il destino del referendum sul jobs act, si riconfigurano ogni giorno come i colori del caleidoscopio a ogni giro del cilindro.

Faremmo un errore clamoroso se fissassimo la nostra discussione sulla configurazione del giorno: che farà d’Alema? Ci sarà la scissione? E in questo caso ignorarla o seguirla con interesse? O magari tifare per la rottura? Appenderci ai dubbi di Bersani? Alle ambiguità di Pisapia? Ne usciremmo, pure noi, pazzi. Oppure tanto confusi da finire subalterni all’ultimo lancio di dadi.

Penso all’articolo dell’amico Asor Rosa sul manifesto, popolato di ipotetiche e di fantasmi, fino all’evocazione a funerali avvenuti di un «centro-sinistra di governo» – categoria sinistrata quant’altre mai – e alla speranza in un’unità tra anime morte senz’accorgersi che tali sono…

Tanto ossessionato dall’orrore grillino da scambiare la vittoria del 4 dicembre – vittoria in primo luogo della Costituzione e di chi ha creduto nella sua difesa, vittoria del buon gusto e buon senso giuridico -, con una sconfitta. (’Ragionare oltre la sconfitta’, è il titolo). E da esser pronto a morire per un ritorno di tutti all’ovile, liquidata la guida pastorale di Renzi.

Eppure Asor Rosa era uno tosto, quando vestiva i panni del giovane leone dell’operaismo (erano gli anni Sessanta) e scriveva che «nulla è più odioso dei sacrifici inutili» prendendo a ceffoni, per questo, i Calvino e i Fortini rei di andare «all’assalto impugnando gli eterni valori».

Per dire dei brutti scherzi che gioca, anche nei più nobili, l’entropia contemporanea. La quale non disorganizza solo le categorie ma anche la successione storica, che sarebbe invece utile considerare, soprattutto ragionando del Pd e del suo dominus.

Renzi è pazzo. In questo ha perfettamente ragione D’Alema. È pazzo come lo era Riccardo III, quello convinto, al pari di lui, che «convien esser veloci quando siamo accerchiati da traditori». E che di fronte al messo che gli annunciava l’arrivo dell’esercito del «grande Buckingham» – quello che l’avrebbe strippato – dava in escandescenze al grido «Via, gufi! Nient’altro che annunci di morte?».

È pazzo quando delira del 40% alla portata del suo Pd. Quando vuole il voto subito – politiche o primarie, per lui pari sono – solo perché sa che ogni mese che passa perde pezzi e appeal. Celebra la sentenza della Corte sull’Italicum come una propria vittoria, dimenticando nella fretta e nello smodato amore di sé che era la «sua» legge elettorale, celebrata come la più invidiata d’Europa e imposta con voto di fiducia.

Alla fine dovrà anche lui implorare «un cavallo, il mio regno per un cavallo». Ma non dobbiamo dimenticarci che l’ascesa di Matteo Renzi non fu lo scivolone su un percorso sano. Fu l’estremo tentativo di tamponare una crisi che appariva terminale per il Pd. Il successo che ebbe tre anni fa fu dovuto alla sindrome entropica – ancora l’entropia – che travolgeva il partito di Bersani, erede di quello di Veltroni, e prima di D’Alema, arrivato allora al capolinea.

Renzi assorbì dentro di sé la crisi del Pd, e come una matrioska tutte le crisi «di sistema»: quella del Parlamento delegittimato, del sistema politico destrutturato, del sistema economico agonizzante. Li avvolse in una bolla di folle ottimismo verbale e di ossessiva pratica del potere.

Ora che cade tutte le linee di crisi che aveva ricondotte a sé si dispiegano, come e peggio di allora. Sognare un Pd rigenerato dalla sconfitta di Renzi è follia almeno pari alla sua.

Se se ne prendesse atto, si risparmierebbero tante illusioni. Si capirebbe che le convulsioni saranno lunghe, e che la bella sinistra non è alle porte. Né ricuperando gran parte del Pd, né riaggregando i frammenti che ha lasciato fuori.

Certo. Quando si è nel pieno di un processo entropico, non si può far finta di esserne fuori. Ma c’è modo e modo di vivere l’entropia. E quello meno dannoso è la presa di distanza. Non dalle questioni, ma dai singoli pezzi. Lo sguardo lungo anziché quello corto o cortissimo.

L’allontanamento del «punto di stazione» (secondo la prospettica) cioè della posizione da cui si guarda. Intendo l’allargamento dell’orizzonte: quello europeo, in furioso movimento. Quello Atlantico dopo la Brexit. La variabile americana con Trump. Per non farci travolgere dal vortice (le miserie di Virginia, le bizze di Matteo…), è bene tener ferme le gerarchie tra gli eventi, concentrandoci almeno noi, con una seria riflessione, su quelli che contano e non sui cascami contingenti.

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MILANO  Ma tu voti? La pressione è forte, molti stanno cedendo. Le coscienze di sinistra che al primo turno hanno fatto le preziose continuano a tenere il broncio ma domenica probabilmente non faranno mancare il loro voto. Non è certo l’adesione ad un progetto politico che non c’è e che è pieno di incognite, è solo il terrore di avere a che fare con Gelmini, Salvini e De Corato. La paura, forse, fa 51%. Questo rimane l’unico argomento valido per convincere a votare il centrosinistra milanese in salsa renziana. In questi giorni non lo si può nemmeno nominare, ma è così. Prova ne è che il presidente del Consiglio non solo non si è fatto più vedere ma nemmeno dice un parola sulla sfida decisiva di Milano. Doveva arrivare la ministra Maria Elena Boschi, ma la visita è stata rimandata a chissà quando. Non è un buon segno per il governo, comunque vada a finire tra Beppe Sala e Stefano Parisi, e non risulta convincente Giuliano Pisapia quando dice “qui si vota sulla città e non sul premier”.

Questo parziale recupero dei delusi non è un sondaggio ma un umore non difficile da cogliere tra i piccoli opinion leader che in un eccesso di narcisismo si agitano per far sapere sui social come si orienteranno al ballottaggio. Alla fine di ogni lacerante considerazione l’endorsement non richiesto per Mr.Expo si conclude così: “Io voto Sala”. Segue dibattito, ma prevalgono i “like”. Non sono le indicazioni dei vip a colpire – Beppe Sala ha appena incassato quelli di Celentano e Umberto Veronesi – ma quelle di chi oggi si auto esalta per il “meno peggio” dopo aver trascorso gli ultimi mesi a sentenziare contro l’operazione politica che ha archiviato la stagione “arancione” per consegnare Palazzo Marino a un manager che, va detto a sua discolpa, almeno ce la mette tutta per sembrare di sinistra.

Ci sono anche i fans scomposti di Beppe Sala, ma sono pochi e sono quelli che stanno per perdere (o rivincere) il posto di lavoro. Ma sono un buon segnale le dichiarazioni di voto di ex iconoclasti stimati, di blogger influenti, di fini umoristi, di militanti che sognano la nuit debout ma si accontentano di Mr.Expo e di qualche ragazzaccio dei centri sociali e dintorni. Insomma, quel “popolo” arancione poco avvezzo a frequentare le urne che cinque anni fa decretò il successo di Giuliano Pisapia oggi potrebbe tornare a dare una mano decisiva per vincere una partita che sembra disperata. Quasi sicuramente senza ottenere nulla in cambio, in termini di ascolto e condivisione delle scelte.

Il punto è che oggi ballano 90 mila voti in meno e forse non basta spulciare il luogo dove ci si parla addosso fra simili per capire cosa succederà domenica. Anche perché gli astensionisti duri e puri – in chiave anti renziana o solo per una questione di coerenza con se stessi – continuano a tenere il broncio ma rimangono in silenzio. Pochissimi fanno apertamente campagna per il non voto. Sono due i bacini da cui attingere i voti espressi (astensionisti a parte). Uno, piuttosto striminzito con 17.635 voti (Milano in Comune), sembra destinato a ritornare all’ovile leccandosi le ferite. Almeno in parte. Non c’è alcuna indicazione precisa se non l’atteso annuncio di Basilio Rizzo secondo cui al ballottaggio “si vota per non far eleggere chi non si vuole”. Più chiaro e imbarazzato di così…

Difficile, anzi impossibile, è invece capire come si collocheranno quei 52.376 elettori (10,4%) che al primo turno hanno votato Movimento Cinque Stelle. Basta nominarli e tra gli “amici” di Beppe Sala si scatena il panico (leggenda metropolitana dice che avrebbero già chiuso un accordo con Parisi). Il problema però esiste, perché il peso elettorale del M5S potrebbe essere decisivo per far perdere non solo Sala ma – ci perdoni Pisapia – soprattutto Renzi. Neanche l’istituto Cattaneo se la sente di azzardare ipotesi dopo aver analizzato i flussi elettorali e soprattutto il recente ballottaggio di Bolzano (2016) dove gli elettori penta stellati hanno scelto prevalentemente il centrodestra. Rimane infatti impossibile quantificare l’ipotetico slittamento del voto verso il centrodestra sul piano nazionale (“questa nostra ipotesi è basata su un numero ridotto di osservazioni”). Si vedrà il 19 giugno quanto pesa elettoralmente l’ostilità verso Matteo Renzi. Ma questo è un argomento che non interessa solo gli elettori del Movimento Cinque Stelle.

Zedda

Il golden boy Massimo Zedda, già sontuosamente rieletto sindaco di Cagliari nonostante i pronostici – è l’unico che il 5 giugno ha vinto al primo turno in un capoluogo, con 40mila voti e una coalizione di centrosinistra – stasera volerà a Milano per partecipare a un’assemblea pubblica insieme a Giuliano Pisapia e a Beppe Sala. Per «dare una mano» al manager targato Pd. Non è affatto strano che il vincitore di Cagliari vada ad aiutare il candidato milanese: Pisapia, che ovviamente sostiene Sala, è stato il principale frontman della stagione delle amministrazioni ’arancioni’. Ed ora giura che il manager pd sarà l’erede della sua giunta. Sempreché vinca, naturalmente. Il che non è affatto scontato.

La scelta di Zedda – che si è anche schierato a favore della candidatura italiana alle Olimpiadi 2024 – ha scatenato parecchi malumori nella famiglia di Sinistra italiana ormai apertamente sballottata dai ballottaggi di domenica. Dopo Sala non andrà a sostenere Giachetti a Roma, né Fassino a Torino, né Merola a Bologna. «Per evitare di provocare altre discussioni», c’è chi spiega. Sarà comunque a Carbonia e Olbia, nella sua Sardegna, al fianco di due candidati Pd contro quelli di M5S e di centrodestra.

Guadagnandosi gli applausi di quelli che in Sel-Si non digeriscono la posizione, di antica memoria bertinottiana, «questa o quella pari sono» che si è ormai affermata fra gli ex candidati sindaci della sinistra sinistra. Non sono pochi quelli che a Roma per esempio, non apprezzano – è un eufemismo – la «scheda bianca» annunciata da Stefano Fassina. In quel che resta di Sel, partito morituro – il congresso di scioglimento probabilmente si svolgerà a settembre – il tormento sui ballottaggi è forte. E non finirà certo domenica sera.

Alla spicciolata ogni giorno arrivano dichiarazioni di voto per i candidati del Pd o comunque indicazioni di preferenza per una prospettiva di dialogo con i democratici anziché con i 5 stelle. Negli scorsi giorni hanno battuto un colpo i senatori Stefàno e Uras; l’ex segretario Prc Franco Giordano sull’Unità ha parlato di scheda bianca come «tragico errore»; l’ex coordinatore Ciccio Ferrara di «centrosinistra come prospettiva da imbastire nel paese proprio a partire dai chiaroscuri del voto amministrativo»; il presidente uscente ma stravotato del Municipio VIII di Roma Andrea Catarci ha indicato la candidata Pd per il ballottaggio fra minisindaci ( da altri municipi potrebbe arrivare la stessa indicazione). L’ultima voce in ordine di tempo è quella del capogruppo alla camera Arturo Scotto che ieri ha scritto su Huffington Post: «C’è una tendenza, anche in mezzo a noi, che giudico pericolosa: considerare l’eventuale sconfitta di Renzi ai ballottaggi il prodomo della sua sconfitta al referendum. Non è così, non vedo questo facile automatismo».

Scotto rivela un’argomentazione che in queste ore circola nelle sinistre romane e torinesi, entrambe alla prova del match Pd-M5S. Nessuno lo dice apertamente, per ora, ma molti voteranno le candidate grilline per «dare una lezione a Renzi». Se ne capisce il motivo: per il premier-segretario perdere Milano, oppure Torino, sarebbe una caduta sulla via del referendum di ottobre. Forse una caduta fatale.
Comunque vada, si può già dire con certezza che la sinistra sinistra ne uscirà lacerata. Tanto che in molti ora aspettano il ritorno di Nichi Vendola, che dovrebbe arrivare in Italia il 21, due giorni dopo i ballottaggi. Vendola a febbraio ha fatto un passo indietro dalla politica, ha avuto un bambino ed è rimasto dall’altra parte dell’oceano, anche fisicamente lontano dai tormenti dei suoi. Ma il presidente di Sel potrà rappattumare le divisioni in famiglia? E ammesso che possa farlo, ne avrà intenzione? In Sinistra italiana sono in molti a contarci. Quelli che vorrebbero la sua benedizione sulla linea della rottura con il Pd; ma anche quelli che vorrebbero cambiare rotta alla barca, dopo i rovesci nelle città.

Intanto nella capitale la caccia all’ultimo voto è senza esclusione di colpi. Domani sera, in piazza del Campidoglio, l’ultimo confronto fra Giachetti e Raggi organizzato da SkyTg24. A chi la accusa di attirare i voti di Casapound (poi la smentita), di Salvini e Alemanno, la favoritissima cinquestelle risponde male: «Ironia sciocca che arriva da un partito che sta governando con l’appoggio di Verdini. Giachetti ha già ottenuto l’appoggio di Verdini, Bertolaso, Marchini».

M5S

ROMA Metallica lei, piacione lui. Entrambi hanno sfoderato tutto il vocabolario caro alla sinistra-sinistra, facendo mostra di padroneggiarlo con disinvoltura. Virginia Raggi e Roberto Giachetti rispondono alle domande rivolte da Stefano Fassina, a mezzo Huffington Post, ai due candidati del ballottaggio per il Campidoglio. Lei con tono formale – del resto perfettamente adatto al richiedente che si nomina come «il sottoscritto» – lui invece con lo stile friendly, pardon amicone, che è tutto suo ma che ricorda così tanto quello del primo Rutelli. Parte il «sinistrometro».

Al candidato di Sinistra per Roma, per lo più snobbato dai due in campagna elettorale (ma no, giura Giachetti, «ho chiesto più volte di confrontarmi con te in passato») stavolta i due rispondono solleciti: non è andato bene, e però oggi quel tesoretto di quasi sessantamila voti (il 4,45 per cento) può essere determinante per l’una e per l’altro. Fassina lo sa, e adesso consuma con calma la sua scelte. In realtà quasi da subito ha parlato di scheda bianca o scheda nulla, facendo saltare i nervi a parecchi compagni della sua Sinistra italiana.Nel nuovo abbozzo di partito la scelta «scheda bianca», peraltro quasi un debutto nella sinistra politica, viene considerata da alcuni «un tragico errore». Lo ha scritto Franco Giordano, ex segretario di Rifondazione, ieri sull’Unità giornale ovviamente a caccia di voti per i candidati Pd, da Roma a Torino a Milano. Il giorno prima sulle stesse colonne Ciccio Ferrara, deputato di Si, metteva in guardia dall’abbandonare la sfida di un centrosinistra «modello Zedda», il sindaco di Sel vittorioso a Cagliari, in coalizione con il Pd. Giordano spiega che «quando c’è la destra bisogna votare contro la destra»: e però parla dei 5 stelle. Non è un mistero che molti, vicini a Fassina, tirano per i 5 stelle. E lo stesso Fassina ha sempre usato toni durissimi su Giachetti, avversario interno anche ai tempi del Pd. La rottura in Si è solo rinviata.

Intanto Fassina, dopo aver issato la scheda bianca, ha capito che invece poteva far fruttare meglio il suo piccolo ma utile capitale di voti, e quindi ha rivolto cinque domande ai due: rinegoziazione del debito, referendum per le Olimpiadi 2024, zero consumo di suolo, no alle privatizzazioni di Ama, Atac, Acea, Farmacap e Assicurazioni di Roma (e piena attuazione al referendum sull’acqua) e infine riscrittura della delibera 140 per «dedicare il patrimonio immobiliare del Comune di Roma a fini sociali».

I due ce l’hanno messa tutta per corteggiare il lettore ’de sinistra’. Chi ha vinto? Fassina per ora si è limitato a un laconico ringraziamento su twitter. Sul debito Raggi segna il primo punto promettendo la rinegoziazione del mutuo che serve a pagarlo (Fassina la pensa uguale) ma anche attaccando la «Troika all’interno del governo del Pd che ha messo le mani sulla Capitale e che tutt’oggi, con Giachetti-Renzi-Verdini ha intenzione di svenderla al miglior offerente». Naturalmente i risparmi andranno agli asili pubblici e alle scuole comunali e alle insegnanti «fin qui completamente abbandonate». Ma anche Bobo Giachetti risponde sì: rinegoziazione del mutuo e risorse liberate «in via prioritaria alla spesa sociale».

Sulle Olimpiadi, si sa, Giachetti parte con handicap. Lui è per far svolgere a Roma il grande evento, ed ha incassato l’endorsement (indiretto ma efficace) del capitano Totti. Qui il candidato Pd spiega all’ex competitor che i soldi che sarebbero destinati alla città per le Olimpiadi diversamente non arriverebbero nelle casse comunali. E sulla consultazione non è d’accordo «andava fatto prima», dice spargendo sale sulle ferite aperte e ricordando che Sel votò sì ai tempi di Ignazio Marino «ad ogni modo, se saranno raccolte firme sufficienti il referendum si terrà». Ma qui non fa punto neanche Raggi, che vuole i voti di sinistra ma di più quelli dei romanisti. Quindi pattina sull’argomento: «La posizione di M5S sulle Olimpiadi non è pregiudizialmente sfavorevole, ma la Capitale ha la necessità di occuparsi prima dell’ordinario e poi dello straordinario».

Segna un punto invece sul consumo di suolo: non solo per la risposta durissima che scrive, lei o chi per lei, ma anche per una cosa che nel post non c’è ma si sa: ha chiesto all’urbanista Paolo Berdini di fare l’assessore, un uomo impegnatissimo a sinistra e intransigente detrattore del «Modello Roma» di Rutelli e Veltroni. Musica per le orecchie di Fassina. Sulle privatizzazioni promette la difesa «strenua» del 51 per cento di Acea e l’attuazione del referendum del 2011, ma quanto al management «si faranno le opportune valutazioni». E cioè usa una grande cautela dopo le affermazioni che le avevano fatto piovere critiche pesantissime (avevano accusata di aver fatto perdere l’Acea in borsa). Sì al controllo pubblico delle aziende dei servizi. Qui Giachetti, da deputato del partito che ha maciullato il risultato del referendum in aula, invece ha bisogno di molte parole per spiegarsi: «Non abbiamo in programma di intervenire sull’assetto proprietario di natura pubblica di Acea, Ama e Atac», ma su Assicurazioni di Roma e Farmacap «valuteremo». Giachetti con onestà non vuole fare una parte del contrario pregiudiziale alle privatizzazioni, che non è sua: «È impensabile», scrive, «che aziende non strategiche con le loro perdite consumino risorse che potremmo utilizzare meglio altrove».

Così come la delibera sul patrimonio pubblico: Giachetti non fa finta di non capire e dice che è pronto a riesaminarla, ma niente buonismo: «Si debbono trovare meccanismi per equilibrare la prima esigenza – quella economica – con un’altra, altrettanto importante, di carattere sociale». Qui Raggi affonda: rivendica di essersi confrontata «con le realtà sociali al Nuovo Cinema Palazzo» (c’era anche Fassina, ma non Giachetti, e lo sottolinea), e improvvisa una grande attenzione per «tutti quei cittadini che si attivano e si mobilitano per fini sociali fungendo da aggregatori culturali nei quartieri». Né mette meccanicamente al primo posto «il rispetto della legalità», come aveva fatto incautamente in un’intervista al manifesto prima del voto. Deve averla fatta riflettere anche la contestazione ricevuta al Parco Schuster, durante un comizio, da parte dei militanti dei movimenti della casa, Action in prima fila, che avevano denunciato pubblicamente che la signora non aveva neanche voluto riceverli. Ora si è fatta più furba, e al tema stavolta arriva più morbida: serve un bando, «ciononostante è evidente che chi negli ultimi anni ha dimostrato concretamente di essere parte socialmente attiva debba ricevere adeguata considerazione». Una mezza – non più di mezza – promessa di messa a valore delle occupazioni a scopo sociale in atto.

Nel frattempo comincia a palesarsi una tendenza tra alcuni elettori del Movimento Cinque Stelle disposti a votare centrodestra pur di danneggiare il Pd di Matteo Renzi

MILANO I meno astiosi scuotono la testa, “convincerli sembra impossibile”. Forse sarebbe meglio stare zitti, ammette chi ha cominciato un lento percorso di autocritica. Tanto ognuno decide di testa sua, dice chi ha capito che nessuna forza politica oggi può dare indicazioni di voto senza risultare insultante. Basta livore contro gli astensionisti, predicano i più saggi, ma bisognerebbe scollegarsi dai social. Lì, a sinistra, ci si scanna. Incredibile è la spocchia dei militanti “arancioni” che dopo aver condotto una campagna elettorale disastrosa puntano il dito contro chi non ha votato per loro. L’atteggiamento rischia di provocare un disastro, “cari supporter di Sala andate avanti così e convincerete tutti a non votare” dice Luciano Muhlbauer (il più votato della lista Milano in Comune, che non se la sente di dare indicazioni di voto).

Si sarebbero rimessi “pancia a terra” ma non è vero. Sono in crisi i militanti costretti a sbattersi ancora per Mister Expo. Specialmente gli arancioni di SinistraXMilano, spazzati via dal voto (3,83% con l’appoggio di Pisapia). Dieci giorni sembrano un’eternità. Idee forti non ce ne sono. Volantini al mercato? Uff… C’è il confronto in tv con Stefano Parisi (“ma appena Beppe Sala apre bocca…). Forse girano dei video con alcuni personaggi imploranti. Vip, mmh… e le periferie? Per i sostenitori di Sala si annuncia più complicata del previsto la caccia agli astenuti (122.991 voti in meno rispetto al 2011) e agli “arrabbiati” con la coda tra le gambe della sinistra sinistra (17.635 voti).

Stefano Parisi, invece, ha già messo a punto la strategia. Dopo il faccia a faccia di ieri sera con Beppe Sala su SkyTg 24, l’uomo più in forma del centrodestra italiano ha deciso di restare in tv per sempre, saltando da un canale all’altro. Nel tempo libero, mercati. Luogo dove sembra fuori posto, eppure è proprio lì, in periferia, che il centrosinistra ha accusato il colpo più duro. Anche Sala ha deciso di restare in giro il più possibile, e questa è l’indicazione anche per i suoi assessori dell’ex giunta arancione. Del resto meglio che stia lontano dalla tv, ammette qualcuno sgranando gli occhi davanti al post di Mister Expo che alla domanda di Paolo Mieli “lei cosa farebbe al ballottaggio di Napoli” risponde “voterei scheda bianca” (seguono insulti). Curioso modo per convincere gli elettori di sinistra che bisogna votare lui per sconfiggere la destra: anche De Magistris ha contro la destra, allora come la mettiamo? Tocca smarcarsi dal Pd, lo sanno tutti. Sala no

Soprattutto da Matteo Renzi e dal cosiddetto partito della nazione. “Milano non c’entra con Verdini, dobbiamo essere più efficaci a spiegare che questo timore è infondato”, spiega con delicatezza Pierfrancesco Majorino (Pd), più di 7.500 preferenze e non renziano. Ma al Pd milanese per far tornare il sereno basta vincere anche per una manciata di voti. Di ben altra natura invece sono i tormenti della sinistra dopo l’ennesimo fallimento. Continuano a riunirsi ma visti i dati c’è poco altro da aggiungere. Il cerchio non proprio magico di SinistraXMilano ieri ha deciso di rivedersi venerdì per organizzare l’ultima fase di campagna, è previsto l’intervento di Gad Lerner (mugugni in sala), l’artefice insieme a Giuliano Pisapia della marcia non proprio trionfale del “popolo arancione”. Tra pochi giorni sarà tutto finito, e per molti che ci hanno creduto sarà un sollievo. L’umore sarà pessimo anche alla riunione di Milano in Comune (Basilio Rizzo) che si tiene stasera. Attivisti e candidati sanno che in caso di sconfitta di Sala a sinistra scoppierà la guerra civile, ma la lista non può fare altro che non dare indicazioni di voto. Gli elettori sono divisi. Sarà Rizzo, tra una settimana, a dire “lui” cosa farà. Voterà Sala.

Beppe Sala a parte, è evidente che per molti elettori tormentati il rospo più grosso da ingoiare è il Pd di Matteo Renzi. Anche chi impallidisce all’idea di rivedere La Russa e De Corato a Palazzo Marino in cuor suo sa che a questo punto (della storia) l’argomento è piuttosto popolare. Poi c’è sempre l’incognita a 5 Stelle (52.376 voti), con una parte di elettorato che potrebbe anche decidere di farsi del male per fare del male. “E’ chiaro che molti di quelli che tifano per noi stanno maturando la convinzione che la cosa più importante è danneggiare Renzi”, ammette l’ex candidato sindaco Gianluca Corrado. Deve averlo subodorato anche Renzi. Se perde (anche) Milano non si dimetterà. Sembra un presentimento, molto poco “pancia a terra”.

L’ex manager di Expo vedrà Cappato (radicali) e Rizzo (Milano in Comune), ma è difficile pensare che l’elettorato segua le indicazioni di voto calate dall’alto. A sinistra il dilemma è lacerante: astenersi e far vincere la destra o turarsi il naso e accettare il sindaco del partito della nazione?

MILANO La sberla si è fatta sentire. Dicono che va bene così ma il centrosinistra milanese è agitatissimo. Stefano Parisi invece non ha più niente da perdere, ha già fatto un mezzo miracolo e se ne va in giro in metropolitana a farsi i selfie con i cittadini. Poi sorride al mercato. I Sala boys (and girls) invece sono ancora frastornati e si stanno interrogando su quale cambio di marcia servirebbe per tagliare il traguardo del 19 giugno. Risposte non ne hanno, e certo non sarà sufficiente ripetere la parola “periferia”, del resto Beppe Sala lo sta facendo da sei mesi e non ha convinto nessuno. E’ proprio nelle periferie che il centrosinistra ha perso irrimediabilmente terreno, non per scomodare la lotta di classe ma non funziona più la buona borghesia che ogni cinque anni sale sul tram per “consumarsi le suole” e torna a casa in taxi. Smart city, coworking e aperitivi elettorali non sono cose esaltanti per tutti.

Basterebbe una manciata di voti per non riconsegnare Milano alla destra e preservare il Pd (nazionale) dal colpo mortale. Sala e Parisi sono separati da 4.938 voti, pochissimi. I militanti del centrosinistra si interrogano sul che fare senza venirne a capo, corteggiano i candidati sindaco che non hanno accettato la candidatura di Mr.Expo e forse si sono resi conto che il presidente del Consiglio è meglio se in questi giorni si mantiene il più distante possibile da Milano. Non gode di buona salute il partito della nazione, anche qui se ne sono accorti troppo tardi.

Come recuperare gli astensionisti fortemente motivati che hanno voluto punire chi ha scelto il manager di Letizia Moratti per sostituire Pisapia? Questo è il problema. Tra i due c’è una differenza che si sostanzia in circa 91 mila voti persi per strada dopo una campagna elettorale disastrosa (solo il 54.65% dei milanesi si è recato alle urne). Adesso servirebbe uno psicologo, un genio del marketing o forse un esperto di mediazione familiare perché domenica scorsa a sinistra è finita una storia. Invece l’ex popolo arancione (la lista Sinistra X Milano sostenuta da Pisapia ha ottenuto un risultato deprimente, in termini assoluti meno voti di quelli ottenuti da Francesca Balzani alle primarie) continua a rivolgersi agli astenuti e ai votanti della lista Milano in Comune come se fossero loro i colpevoli del disastro. Non un cenno di autocritica, non un argomento convincente se non l’invito a votare il meno peggio. Gira una foto con La Russa, De Corato e Salvini. Fa impressione, ma potrebbe non bastare. Non è un caso se dopo mesi trascorsi nell’ombra è tornato a farsi sentire il candidato più di sinistra delle primarie-farsa di febbraio, Pierfrancesco Majorino (Pd), almeno ha colto l’umore degli elettori disposti a pugnalare questo centrosinistra alle spalle: “Bisogna avere l’umiltà di guardare gli elettori che si sono astenuti, non dicendo quanto sono stati cattivi, ma dicendo che bisogna fare di più”. Mancano solo undici giorni, però a sinistra ci si massacra da un anno.

Complicato anche il tentativo di mediazione di Beppe Sala che ha chiesto un incontro a Marco Cappato (radicali: 10.104 voti) e a Basilio Rizzo (Milano in Comune: 17.536 voti tra Prc, Lista Tsipras e Possibile). I voti dei radicali sono ballerini (oggi incontrano il manager Sala, domani il manager Parisi), quelli degli elettori di sinistra invece non troveranno una collocazione in base ai suggerimenti di Basilio Rizzo. L’ex presidente del Consiglio comunale infatti è molto imbarazzato e continua ad invitare Sala a dire qualcosa di convincente su lavoro, periferie e case popolari (lo sta facendo da mesi). Rizzo sa che non può permettersi di indicare Sala e si esprimerà solo a titolo personale a pochi giorni dal voto (per Sala). Il suo elettorato è spaccato in due e lo stesso si può dire della stragrande maggioranza degli astenuti. L’incognita più pesante però, per una questione di numeri e per un elettorato ancora poco decifrabile, riguarda quel 10,4% che ha votato 5 Stelle e che una volta si sarebbe chiamato “ago della bilancia” (sono 52.376 voti). Il risultato più clamoroso potrebbe dipendere da loro. Un ascoltatore penta stellato di Radio Popolare, ex Cgil, ha detto: “Forse per salvare l’Italia si può sacrificare Milano”. L’affermazione indigna, ma purtroppo il dibattito è aperto.

L’implosione della sinistra perbene emerge inconfutabile da recenti accadimenti in paesi dell’Unione Europea a guida socialista. Implosione in senso lato: in Austria, per la crisi politica innescata dall’«emergenza» immigrazione; altrove – da noi e in Francia – per le scelte conseguenti alla mutazione genetica che l’ha trasformatai in una forza organica di restaurazione.

La reazione austriaca all’ondata migratoria replica in forme estreme un fenomeno classico. Le tensioni e i conflitti provocati dalla mancata integrazione si concentrano nelle periferie e in quelli che sino a poco tempo prima erano i quartieri rossi delle grandi città, col risultato di trasformarli nelle roccaforti della destra ultranazionalista. Per mesi a Vienna le squadre neonaziste si sono sentite spalleggiate e hanno moltiplicano le aggressioni. D’altra parte il governo ha rincorso la deriva xenofoba, come si è visto al Brennero e col varo di una legge più restrittiva sul diritto d’asilo. Com’è finita, per il momento, lo sappiamo. Al ballottaggio l’erede di Jörg Haider ha perso, per il rotto della cuffia. Ma il vero fallimento è quello del Partito socialdemocratico che, dopo una decina di anni di governo, lascia un paese spaccato, più che mai restio a fare i conti con il proprio passato nero, e una destra razzista votata da un elettore su due.

In Francia Hollande e il suo governo si giocano l’osso del collo pur di imporre una «riforma» del Codice del lavoro tutta giocata contro i diritti dei lavoratori. Per offrire alle imprese lo scalpo del contratto nazionale e la piena libertà sui licenziamenti hanno evitato il voto dell’Assemblea nazionale e scatenato una reazione sindacale che sta paralizzando il paese. Ora vacillano ma non demordono, nonostante il grosso della popolazione stia con chi sciopera.

Come se la ragion d’essere del socialismo europeo risiedesse precisamente nella precarizzazione radicale del lavoro salariato e nella distruzione delle sue tutele.

In Italia, dopo due anni di escalation reazionaria contro il lavoro e i diritti sociali nel segno delle privatizzazioni e degli interessi delle lobbies finanziarie e imprenditoriali; dopo una legge elettorale anticostituzionale come e più della precedente perché negatrice del principio di uguaglianza e del diritto alla rappresentanza politica – ora il governo a guida «democratica» investe tutto su una «riforma» costituzionale incentrata sulla pienezza dei poteri in capo al premier.

Cioè sulla logica contro la quale fu disegnata la Costituzione antifascista. Anche qui è un governo di centrosinistra a dirigere la normalizzazione, guidato per di più dal segretario di una forza nata dalle ceneri del più grande partito comunista d’Occidente.

Ovunque in Europa dagli anni 90 la «sinistra clintoniana» è la testa d’ariete dello scardinamento delle conquiste democratiche in ambito economico e sul terreno (strettamente intrecciato) della partecipazione e dei diritti di cittadinanza. Ovunque i partiti «socialisti», ispiratori di Maastricht e Lisbona, hanno promosso «riforme» antisociali che difficilmente sarebbero riuscite a esecutivi di destra, necessariamente più cauti nel timore di avvantaggiare la controparte politica. Ovunque hanno cavalcato la deriva postdemocratica, avallato la prepotenza delle oligarchie, legittimato la sovranità del profitto. Oggi non è difficile un bilancio a freddo di un quarto di secolo di storia politica del continente che tenga conto, in primo luogo, della controrivoluzione culturale che ha segnato l’intero processo.

Non si è trattato di un fatto episodico né di una trasformazione epidermica. La sinistra operaia a fine Ottocento nacque dalla consapevolezza del rapporto problematico tra capitalismo e democrazia, dall’esperienza del conflitto ineliminabile tra diritti e profitti. La «sinistra» che si afferma in Europa dopo la caduta del Muro di Berlino si fonda su una opposta ideologia, che offre anche il vantaggio di nobilitare l’affarismo. Muove dall’assunto che non vi è democrazia senza capitalismo. Considera i cardini del capitalismo (il mercato e la concorrenza) addirittura capisaldi costitutivi della democrazia, quindi le privatizzazioni passaggi progressivi. Di qui una nuova qualità delle divisioni a sinistra, che non vertono più su divergenze tattiche (come un tempo tra riformisti e massimalisti), ma su questioni di ordine strategico.

In una stagione triste, avara di speranze, la crisi storica del socialismo europeo è la metafora più limpida di una politica ormai priva di ideali. Da questo punto di vista l’odierna bonaccia italiana è la fotografia di una devastazione perfetta. O, se si preferisce, di un suicidio riuscito. Nel giro di vent’anni la sinistra è stata estirpata dal corpo del paese.

Trasformata in una forza restauratrice (il sedicente «riformismo») o confinata ai margini della scena, grazie all’insipienza dei suoi dirigenti. Ora, col referendum di ottobre, siamo forse a un passaggio-chiave. Può darsi che Renzi perda, che ci si liberi finalmente di lui e della sua gente, il che sarebbe una liberazione, chiunque gli succeda. Ma anche in questa eventualità ci si ritroverebbe ai piedi di una montagna da scalare.

lista arancione

MILANO Sulla sinistra milanese è calato uno strano silenzio, ci si riunisce sottovoce a passi felpati e la temperatura si è fatta freddina anche sui social, al massimo c’è chi parla a nuora perché suocera intenda. Solo qualche isolato ottimista di professione suona la carica ma le congetture che filtrano dalla penombra delle segrete stanze non scaldano i cuori. Rumore di cocci di sottofondo. Nascondersi, più che la logica conseguenza di un disastro annunciato negli anni, sembra essere diventato tatticamente indispensabile per ripresentarsi sulla scena con un profilo non troppo di sinistra per farsi votare da un elettorato che si presume essere di sinistra. Basso profilo, compagni. Sono paradossi che angosciano gli addetti ai lavori. Candidare chi? Questo il problema, che assilla anche i pentastellati orfani di Patrizia Bedori – se può consolare.

Il tentativo di sintesi chiamato “Milano in Comune” (Prc, Possibile, Altra Europa per Tsipras) sta ancora aspettando il tentennante Curzio Maltese. Lo implorano da settimane ma lui è ancora pieno di dubbi. Li ha espressi poco simpaticamente l’altro giorno sul Corriere della Sera, un pezzo che deve aver gelato i suoi sponsor politici. Anche l’europarlamentare e giornalista – come esplicitato altrettanto poco carinamente da Gherardo Colombo – ha espresso l’intenzione di candidarsi ma solo con una lista dal profilo civico distante dai partiti di sinistra (gli stessi che lo cercano): “Nemmeno io voglio fare il candidato della sinistra radicale, ostaggio di mille veti”.

Pare che in questi giorni Maltese – non molto gradito a una parte dei civatiani (e vabbè) – si sia consultato con alcuni esponenti dell’autoproclamata società civile che chissà perché dovrebbe rappresentare il sentire comune della città. Sta cercando spalle più o meno autorevoli per smarcarsi dal ruolo di candidato dei partiti di sinistra ridotti ai minimi termini, atteggiamento comprensibile ma non gentile nei confronti di quegli elettori che sono rimasti alla larga dalla sceneggiata delle primarie per non essere costretti a digerire l’ex manager di Expo come candidato sindaco. L’annuncio sofferto potrebbe arrivare oggi, oppure all’assemblea dell’Altra Europa per Tsipras che si terrà sabato. Altrimenti, fuori dal perimetro del centrosinistra scolorito che sostiene Sala, si consumerebbe l’ennesimo disastro.

Anche i cugini di Sel hanno vissuto momenti migliori, ma almeno domani sera si riuniranno per comunicare al mondo una decisione finalmente presa. Lo si capisce dal titolo dell’assemblea convocata alla prestigiosa Sala Alessi di Palazzo Marino: “Milano, andiamo avanti”. Insomma, non proprio un colpo di scena. Dopo la rinuncia di Francesca Balzani a vestire panni non suoi (troppo arancioni e poco adatti per un ruolo da prima donna), Sel ha deciso di sostenere Sala fino alla fine distinguendosi con una lista di sinistra – non troppo però. In questo caso il problema non è il candidato sindaco ma il capolista, anche perché i nomi di peso latitano o hanno già declinato l’invito. Si dice Paolo Limonta, infaticabile dispensatore di speranze e già braccio sinistro di Giuliano Pisapia, ma per alcuni sarebbe un’opzione troppo connotata (stessa sindrome Colombo-Maltese).

Se questo è il ragionamento, se per essere competitivi a sinistra bisogna giocare a nascondino, allora per lo stesso motivo potrebbero non funzionare anche gli attuali consiglieri comunali del partito. Quindi servirebbe un bel personaggio dal profilo civico che almeno ci metta la faccia, è questa ricerca affannosa che negli ultimi giorni ha tenuto i milanesi di Sel con il fiato sospeso. Quanto il nome sarà gradito, gli elettori lo faranno sapere il prossimo giugno. Essendo molto improbabile l’ipotesi del personaggio di grido – tipo Gad Lerner, regista di molte operazioni non andate a buon fine – qualcuno azzarda il nome della giornalista e scrittrice Benedetta Tobagi.

Nel frattempo, anche i cinque stelle sono disperatamente alla ricerca di un nuovo candidato per Palazzo Marino. E di un metodo per sceglierlo senza combinare altri pasticci. Gianroberto Casaleggio, con fare piuttosto seccato, ha detto che una decisione verrà presa nei prossimi giorni. Probabilmente, ancora una volta, si affiderà alle magnifiche sorti e progressive della Rete.

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