Studi & Ricerche

Presentato a Roma l’11mo «Rapporto sui diritti globali»: aumentano le disuguaglianze sociali, mentre è in corso la battaglia finale contro il modello sociale europeo del Welfare Un bollettino di guerra: 1.700 milioni di disoccupati in più dal 2008, aumenta la povertà e i più precari sono i giovani e le donne

«Una bomba sociale a orologeria»Il «rapporto sui diritti globali. Il mondo al tempo dell’austerity» è un volume di 1097 pagine, curato da Sergio Segio per l’Associazione Società Informazione Onlus e pubblicato dalla casa editrice Ediesse (30 euro) con prefazioni di Susanna Camusso e Sharan Burrow. È il frutto della collaborazione di una serie di prestigiose associazioni, sindacati e enti culturali come Antigone, Arci, il Gruppo Abele, Legambiente, Sbilanciamoci!, la Cgil e le Comisiones Obreras Catalogna, la Fondazione Basso di Roma. Strumento eccezionale per la ricerca sociale e la critica dell’economia dell’austerità, il volume è diviso in otto parti che spaziano su tutti i temi del Welfare, del lavoro, dell’economia, dei diritti della persona, dell’ambiente e del territorio, delle carceri e della giustizia. Presenta una nutrita sezione di statistiche, schede e parole chiave, oltre a preziosi approfondimenti sui diritti civili.

Torniamo a dare il giusto peso alle parole. Quella che stiamo vivendo è una lotta di classe. Oggi la fanno i ricchi contro i poveri che sono stati messi a morte dalle politiche dell’austerità. Il tono è enfatico, ma sono le parole usate dal Nobel per l’economia Joseph Stiglitz per descrivere il più grande saccheggio della ricchezza avvenuto in tempi moderni. La violenza della crisi è tale da mettere a rischio la vita di milioni di persone. Gli autori dell’undicesimo «Rapporto sui diritti globali» (Ediesse), presentato ieri a Roma presso la sede centrale della Cgil in Corso Italia, spiegano nelle oltre mille pagine del volume le caratteristiche della guerra di rapina condotta dal capitalismo finanziario e descrivendo il meccanismo di una «redistribuzione al contrario». Quella messa in piedi dal 2008 dalle politiche dell’austerità nell’Unione Europea è una gigantesca macchina di drenaggio verso l’alto dei redditi da lavoro e dei risparmi delle famiglie. Le banche, i fondi di investimento, le grandi imprese, lo Stato che aumenta il carico fiscale sui cittadini senza restituire nulla in servizi, hanno accumulato un’enorme massa monetaria che non «sgocciola» nell’economia reale, resta nelle sfere della finanza e viene usata per acquistare o vendere buoni del tesoro che non modificano il quadro della crisi. Questa situazione ha annientato la produttività del lavoro in Italia. Dal 2000 al 2009 è diminuita dello 0,5% ogni anno, impresa mai riuscita in un paese a capitalismo avanzato fino ad oggi. Gli occupati italiani lavorano di più dei colleghi europei, ma producono il 25% in meno dei tedeschi e il 40% in meno dei francesi. Senza contare che l’occupazione è crollata di 1 milione e 700 mila unità dal 2008, abbattendosi con particolare violenza sui giovani tra i 15 e i 24 anni, il 41,7% dei quali è disoccupato (con punte di oltre il 50% a Sud). Ciò ha comportato un impoverimento generalizzato tra i pensionati e persino tra i bambini. Nel 2011 i bambini da 0 a 2 anni che avevano la possibilità di frequentare un asilo nido non superavano l’11,8% (era il 3% nel 2004). Su un totale di 16,7 milioni di pensionati, quasi 8 percepiscono una pensione inferiore a mille euro al mese, oltre 2 milioni non arrivano a 500. Senza contare che il processo di deregolamentazione del lavoro ha creato in Italia un esercito di lavoratori precari da 3.315.580 milioni di persone, più di mezzo milione delle quali lavorano per lo Stato, il più grande sfruttatore di lavoro precario al mondo. Il reddito di queste persone è di 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne. Queste cifre sono utili per dare un’idea della povertà dilagante nel nostro paese.
Questo processo è destinato a durare a lungo. L’Italia, come anche Francia, Spagna, Grecia o Portogallo, ha approvato nella loro costituzione l’impegno a ridurre il debito sovrano dall’attuale 130% al 60% sul Pil. Ciò porterà alla dismissione del patrimonio pubblico e alle liberalizzazioni, tagli alla spesa e altre misure che dovranno «risparmiare» 50 miliardi di euro all’anno per i prossimi venti. Fondi che alimenteranno la bolla degli interessi sul debito e non andranno in investimenti. La stessa sorte è toccata ai mille miliardi di euro prestati dalla Banca Centrale Europea alle banche europee altasso d’interesse irrisorio dell’1%. Le banche italiane hanno ottenuto 200 miliardi. Di questa montagna di denaro fresco solo il 5% delle persone sopra i 15 anni ha ottenuto un prestito negli ultimi dodici mesi, a fronte di una media europea del 13%. Questo significa che il nostro paese fluttua in una bolla finanziaria che espropria la ricchezza alle persone, non libera risorse verso il basso, ma le accumula in un forziere chiuso a doppia mandata da cui esce solo qualche centesimo. Questa è la cornice macroeconomica dove prolifera la disuguaglianza sociale. Il reddito di uno dei 38 mila «straricchi» (lo 0,1% più ricco in Italia) vale oggi quello di cento poveri. Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza totale, mentre riceve il 27% dei redditi. Il 50% delle famiglie più povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale.
La responsabilità di questa tragedia non è solo di Berlusconi o di Monti che hanno gestito la parte terminale di una crisi che viene da lontano, cioè dall’inizio della cosiddetta «Seconda Repubblica» nel 1992. Oggi solo cinque paesi Ocse, tra cui gli Stati Uniti, mostrano disuguaglianze più feroci tra i ricchi e i poveri dell’Italia. Ad avere allargato la forbice tra le rendite e i redditi è stata l’abolizione della scala mobile nel 1984, la crisi valutaria ed economica del 1992 e la manovra finanziaria da 90 miliardi di lire fatta da Amato nello stesso anno. Da quel momento tutti i governi hanno portato il loro contributo alla lotta di classe in corso. Il «pilota automatico», una volta evocato dal presidente Bce Mario Draghi per spiegare la natura delle politiche economiche europee, indipendentemente dalla maggioranza politica alla guida di un paese, è stato azionato più di vent’anni fa. Da allora continua a pretendere l’applicazione rigorosa degli imperativi del rigore del bilancio, la liberalizzazione dei servizi e la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
La tesi del rapporto sui diritti globali sostiene che il tentativo in corso di «ammorbidire» la cura preparata dalla Troika (Bce, Fmi e banca mondiale) per i paesi indebitati come Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e ora anche Francia, non riuscirà a fermare la rovinosa corsa a precipizio del treno dell’austerità. L’obiettivo finale della lotta di classe è farla finita con il « modello sociale europeo», quello del Welfare, già dichiarato morto da Draghi. Lo dimostra il taglio del 90% alle politiche sociali che tra il 2010 e il 2012 sono passate da 435 milioni di euro a 43 milioni, mentre i fondi per scuola e università sono stati tagliati di 10 miliardi. Entro il 2015 la sanità subirà 30 miliardi di tagli. Alla luce di questi dati si comprende meglio l’utilità del governo delle «larghe intese». Parliamo di una forma politica postdemocratica che si è candidata a gestire la liquidazione dei diritti sociali in Italia e a normalizzare i conflitti sociali che potrebbero nascere. Un lavoro arduo, ma è a buon punto.

Reddito di cittadinanza, una risorsa per i più deboli

Per uscire dalla «guerra dei trent’anni» del liberismo contro il Welfare, gli autori del «rapporto sui diritti globali 2013» indicano quattro priorità: 1) ripristinare la partecipazione democratica e il ruolo del pubblico nell’economia; 2) affiancare alla crescita della produttività e dell’efficienza economica il benessere delle persone, l’equità e l’uguaglianza in direzione di una maggiore sostenibilità sociale e ambientale; 3) indirizzare la crescita economica verso lo sviluppo di nuove attività ad alta intensità di conoscenza, favorendo l’occupazione stabile e sanzionando il ricorso delle imprese (e dello Stato) alla precarietà dei giovani e dei meno giovani; 4)consolidare la partecipazione della società civile, non profit e delle mobilitazioni sociali elaborando nuovi strumenti di intervento nell’economia e nella società. La centralità delle politiche «anti-austerity» dev’essere quella della ridistribuzione delle ricchezze, favorita da una riforma fiscale che colpisca il dominio economico esercitato dal 10% della popolazione più ricca. Particolare attenzione viene prestata al rilancio del «reddito di cittadinanza», e non del salario minino. Si chiede l’introduzione di una misura universalistica necessaria per rimediare all’esclusione sociale fatta di lavori poveri, intermittenti, precari e di non lavoro.

CON CRISI AUMENTATI SUICIDI;CAMUSSO,STOP AUSTERITA’,SERVE SVOLTA

 ROMA, 04 GIU – E’ un’Italia sempre più povera, con un esercito di precari che supera i 3,3 milioni di lavoratori e 8 milioni di pensionati che percepiscono meno di 1.000 euro al mese. E’ un’Italia in crisi, con un welfare in affanno, “vera vittima sacrificale” dell’economia. Un Paese che deve fare i conti con l’aumento della deprivazione materiale (+4,3% tra il 2010 e il 2011) e dei debiti (nei primi nove mesi del 2012 le famiglie indebitate sono passate dal 2,3% al 6,5%) e con una crisi che si abbatte sui più fragili. E’ un paese che soffre e che talvolta non vede la via d’uscita, tanto che nei primi tre mesi del 2013 i suicidi per presunti motivi economici sono aumentati del 40% rispetto allo stesso periodo del 2012. La denuncia è del Rapporto sui Diritti globali 2013, presentato oggi a Roma. In Europa e in Italia serve una “netta inversione di tendenza delle politiche economiche”, è finito il tempo dell'”austerità” e del “rigore dei conti pubblici”, avverte nella prefazione al volume, il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso.

Nel Rapporto, promosso dalla Cgil in collaborazione con Antigone, Arci, Gruppo Abele e altre associazioni,”ci sono tanti indicatori – ha aggiunto il curatore, Sergio Segio, nel corso della presentazione – che ci dicono che la situazione è drammatica. Servono alternative di buon senso”.

8 MILIONI DI POVERI IN ITALIA – E 15 milioni vivono in stato di deprivazione materiale, “si tratta di 1 italiano su 4 – ha sottolineato Segio – nel 2010 erano il 16% della popolazione. Metà di questi 15 milioni sono in stato di grave deprivazione. C’é inoltre un record di povertà infantile: quasi un bimbo su tre vive in poverta”. Il 60,6% degli italiani è costretto a metter mano ai propri risparmi per arrivare a fine mese, il 62,8% ha grandi difficoltà ad arrivarci e quasi l’80% non riesce ad accantonare un euro.

SUICIDI PER MOTIVI ECONOMICI IN AUMENTO – Sono 121 le persone che tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013 si sono tolte la vita per cause direttamente legate al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali: nel 2012 i suicidi sono stati 89, mentre nei primi tre mesi del 2013 32, il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. “Al di là delle fonti, del rigore e della completezza dei dati, indubbiamente il fenomeno è rilevante e dovrebbe preoccupare”, ha osservato Segio.

OLTRE 3,3 MLN PRECARI, 8 MLN PENSIONATI CON MENO MILLE EURO – I precari guadagnano in media 836 euro al mese, hanno un diploma di scuola superiore (46%), lavorano per lo più nel Mezzogiorno (35,18%) e nell’Amministrazione pubblica (34%). L’occupazione è ferma a 23 milioni: è “crollata” per la popolazione tra i 15 e i 24 anni (35,5% sono disoccupati nel 2012) e per le donne (sono occupate il 47,1% delle donne contro il 66,1% degli uomini). Per quanto riguarda invece i pensionati, su un totale di 16,7 milioni, quasi 8 milioni percepiscono meno di 1.000 euro al mese, oltre 2 milioni meno di 500 euro. A tutto ciò si aggiunge il “ritardo delle imprese”: “bassa domanda, poca ricerca e innovazione, scarsi investimenti – si legge nel Rapporto – determinano la caduta della produttività e la spirale del declino italiano”. “Il governo Letta – osserva Segio – non pare certo rispondente all’ampio disagio emerso dalle urne”.

EMERGENZA CASA, ITALIA INVESTE POCO – Il Paese investe in diritto alla casa lo 0,1% della spesa sociale, contro la media Ue del 2%, e ha tagliato del 95%, in 10 anni, il fondo che sostiene l’affitto (da 360 milioni di euro a 9,8 milioni): dei 290 mila sfratti emessi negli ultimi cinque anni, ben 240 mila sono per morosità, con la previsione di un incremento di 150 mila nel prossimo triennio.

WELFARE ‘VERA VITTIMA SACRIFICALE’ – A partire dal 2012 a pagare i tagli in modo incisivo sono stati i trasferimenti agli enti locali e dunque il welfare (meno 2,2 miliardi nel 2013), scrive il Rapporto. Nel 2010-2011 i bambini tra 0-2 anni che hanno la possibilità di frequentare un servizio pubblico per l’infanzia non superano l’11,8%, solo +3% sul 2004. Aumenta inoltre il denaro che gli italiani devono sborsare di tasca propria per le spese sanitarie: nel 2011 raggiunge i 2,8 miliardi, l’1,76% del Pil e il 17,8% di tutta la spesa. “L’austerity è la condanna a morte dei più poveri – ha concluso Segio – bisogna cambiare le carte in tavola”.

“Sono 121 le persone che tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013 si sono tolte la vita per cause direttamente legate al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali: nel 2012 i suicidi sono stati 89, mentre nei primi tre mesi del 2013 32, il 40% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente”.

Lo afferma Sergio Segio, nel Rapporto sui Diritti globali 2013, presentato oggi a Roma. Segio cita una ricerca della Link Campus University, che rileva come “la precaria situazione economica personale avrebbe determinato il 49,4% di questi decessi, la perdita del posto di lavoro il 28,1%, i debiti con l’erario il 14,6% e il ritardo nei pagamenti da parte dei committenti il 7,9%. Il 30% delle persone che si sono tolte la vita viveva nel nord-est, il 13,9% nel nord-ovest, il 25,8% nel centro, il 14,6% al sud e il 15,7% nelle isole”. “Al di là delle fonti, del rigore e della completezza o meno dei dati – osserva Segio – e pur assumendo che la comparazione con le cifre dell’Istat mostrerebbe in realtà un decremento rispetto al 2007-2009 (“numero oscuro” a parte), indubbiamente il fenomeno è rilevante e dovrebbe preoccupare”. In attesa di un nuovo modello di sviluppo e di una “reale riconversione ecologica dell’economia”, il dibattito, aggiunge critico Segio, è incentrato sulle risposte alla crisi in termini di “rigore e tagli alla spesa: sbagliare i calcoli o enfatizzare una teoria zoppicante, per giustificare drastiche politiche di sacrifici e tagli vigorosi a spesa pubblica e Stato sociale, produce un effetto di ‘condanna a morte per i piu’ poverì. Eppure – conclude – nessuno se ne sente responsabile e a nessuno ne viene chiesto conto”.

SEGIO; SERVE NUOVO MODELLO SVILUPPO, NON LAVORO E’ DRAMMA

(ANSA) – ROMA, 04 GIU – “Non sembra esservi stato sinora adeguato ascolto della disperazione individuale e neppure della protesta sociale ed elettorale. Il governo Letta, definito da alcuni osservatori ‘ircocervo’, un ibrido Pd-Pdl con qualche foglia di fico tecnica, non pare certo rispondente all’ampio disagio emerso dalle urne: a fronte dei tanti drammi legati alla perdita del reddito e del lavoro nulla è stato predisposto sul piano di specifici servizi di sostegno psicologico e di attività di prevenzione”. Così Sergio Segio, nel Rapporto sui Diritti globali 2013, presentato oggi a Roma. Segio denuncia la politica dei tagli e del rigore e chiede “un nuovo modello di sviluppo”; definisce “una scelta paradossale” (“una bomba a orologeria”) aver inserito il pareggio di bilancio nella Costituzione italiana, perché “fiscal compact significa manovre e tagli per 40-50 miliardi l’anno per il prossimo ventennio”. Una “bomba pericolosamente innescata”, secondo il curatore del rapporto, sono anche i tagli alla salute “di oltre 30 miliardi di euro”, che arrivano in un momento in cui anche “le risorse destinate all’inclusione sociale sono rimaste tra le più basse d’Europa”: “la distanza tra ultimi e nuovi penultimi, già breve, si è ulteriormente accorciata. Basti pensare che su un totale di 16,7 milioni di pensionati , quasi 8 milioni percepiscono meno di 1.000 euro al mese, oltre 2 milioni meno di 500 euro”.

Il non lavoro, aggiunge Segio, “é divenuto un dramma sociale di notevoli dimensioni” e in Italia “le anomalie democratiche sono diverse e vistose, eppure ormai metabolizzate come normalità”. “Nelle urne della democrazia 2.0 – conclude Segio – si finirà per votare direttamente con il bancomat (chi non avrà il conto in banca ben fornito perderà le prerogative e i diritti di cittadino), anziché mediante la scheda elettorale. Ma occorre avere consapevolezza che le soluzioni vanno pensate, organizzate e perseguite a livello globale. Lì si gioca la partita per una nuova democrazia, per nuovi percorsi di eguaglianza e di giustizia sociale e ambientale: a livello macro e di sistema”.

 

“Non sembra esservi stato sinora adeguato ascolto della disperazione individuale e neppure della protesta sociale ed elettorale. Il governo Letta, definito da alcuni osservatori ‘ircocervo’, un ibrido Pd-Pdl con qualche foglia di fico tecnica, non pare certo rispondente all’ampio disagio emerso dalle urne: a fronte dei tanti drammi legati alla perdita del reddito e del lavoro nulla è stato predisposto sul piano di specifici servizi di sostegno psicologico e di attività di prevenzione”. Così Sergio Segio, nel Rapporto sui Diritti globali 2013, presentato oggi a Roma denuncia la politica dei tagli e del rigore e chiede “un nuovo modello di sviluppo”.

Segio definisce “una scelta paradossale” (“una bomba a orologeria”) aver inserito il pareggio di bilancio nella Costituzione italiana, perché “fiscal compact significa manovre e tagli per 40-50 miliardi l’anno per il prossimo ventennio”.

 

Tagli alla salute – Una “bomba pericolosamente innescata”, secondo il curatore del rapporto, sono anche i tagli alla salute “di oltre 30 miliardi di euro”, che arrivano in un momento in cui anche “le risorse destinate all’inclusione sociale sono rimaste tra le più basse d’Europa”: “la distanza tra ultimi e nuovi penultimi, già breve, si è ulteriormente accorciata. Basti pensare che su un totale di 16,7 milioni di pensionati , quasi 8 milioni percepiscono meno di 1.000 euro al mese, oltre 2 milioni meno di 500 euro”.

 

Non lavoro dramma sociale – Il non lavoro, aggiunge Segio, “é divenuto un dramma sociale di notevoli dimensioni” e in Italia “le anomalie democratiche sono diverse e vistose, eppure ormai metabolizzate come normalità”. “Nelle urne della democrazia 2.0 – conclude Segio – si finirà per votare direttamente con il bancomat (chi non avrà il conto in banca ben fornito perderà le prerogative e i diritti di cittadino), anziché mediante la scheda elettorale. Ma occorre avere consapevolezza che le soluzioni vanno pensate, organizzate e perseguite a livello globale. Lì si gioca la partita per una nuova democrazia, per nuovi percorsi di eguaglianza e di giustizia sociale e ambientale: a livello macro e di sistema”.

 

Meno welfare si abbatte sui più bisognosi – Aumentano in Italia le persone a rischio povertà e cresce la deprivazione materiale (+4,3% dal 2010 al 2011). Nei primi nove mesi del 2012 le famiglie indebitate sono passate dal 2,3% al 6,5% e il paese ha speso poco più dell’1% del Pil per i nuclei con minori (2,2% dato Ocse). Nel triennio 2010-2012 il welfare è stato la “vera vittima sacrificale dell’economia italiana”, sostiene il rapporto. A partire dal 2012 a pagare i tagli in modo incisivo, rileva il Rapporto, sono stati i trasferimenti agli enti locali e dunque il welfare (meno 2,2 miliardi nel 2013). Nel 2010-2011 i bambini di età 0-2 anni che hanno la possibilità di frequentare un servizio pubblico per l’infanzia non superano l’11,8% (solo +3% sul 2004). La cooperazione (sociale e non) tra il 2007 e il 2011 ha visto crescere l’occupazione dell’8% (mentre il mercato del lavoro perdeva l’1,2% e le imprese profit il 2,3%): la cooperazione sociale è stata il settore trainante, con +17,3% lavoratori, ma rimane “inchiodata a gare al ribasso e pagamenti pubblici in grave ritardo: alla fine del 2012 il credito dagli enti pubblici si aggira sui 6 miliardi di euro”.

Roma, martedì 4 giugno, ore 11.30, CGIL nazionale, Sala Simone Weil, Corso d’Italia 25

Il Rapporto è a cura di Associazione Società Informazione Onlus, promosso da Cgil, in collaborazione conActionAid | Antigone | Arci | Cnca | Comisiones Obreras Catalogna | Fondazione Basso-Sezione Internazionale | Forum Ambientalista | Gruppo Abele | Legambiente | Sbilanciamoci!

 

Con la prefazione di Sharan Burrow, Segretario generale del sindacato mondiale ITUC

«L’austerità è una condanna a morte per i più poveri» (Joseph Stiglitz)
partecipano

Danilo Barbi, segretario nazionale Cgil

Paolo Beni, presidente nazionale Arci, deputato

Marco De Ponte, Segretario Generale ActionAid Italia

Maurizio Gubbiotti, coordinatore nazionale Legambiente

Grazia Naletto, portavoce Sbilanciamoci!

Mauro Palma, presidente onorario Antigone

Ciro Pesacane, portavoce nazionale Forum Ambientalista

Sergio Segio, curatore del Rapporto, direttore di Associazione Società Informazione

Don Armando Zappolini, presidente nazionale Cnca

con un intervento di  

Moni Ovadia

Il Rapporto sui diritti globali compie undici anni. Undici anni di passi indietro, di arretramento dei diritti, di riduzione della ricchezza, di indebolimento della democrazia, di demolizione del sistema di welfare. L’austerità sta aggravando decisamente la crisi e sono ormai in molti a chiedere a gran voce che si intraprenda la strada della ripresa, degli investimenti e della spesa sociale. Ma cosa si nasconde dietro l’apparente asetticità e inevitabilità delle misure che la Troika impone all’Europa?

Come spiega Sharan Burrow – Segretario generale dell’International Trade Union Confederation (ITUC), il sindacato mondiale – che quest’anno per la prima volta firma la prefazione del Rapporto – siamo di fronte a una «storica e finale resa dei conti con il modello sociale che ha contraddistinto a lungo l’Europa, garantendo i diritti del lavoro e delle fasce più deboli della popolazione. Dietro lo schermo delle ragioni economiche e di bilancio si afferma una visione del mondo e delle relazioni sociali e umane diversa da quella che abbiamo conosciuto e che è stata conquistata dalle lotte e dai sacrifici dei lavoratori, dei sindacati, delle forze sociali lungo tutto il secolo scorso».  

 Nella risposta alla crisi il sindacato deve avere un ruolo di primo piano, deve ricominciare a organizzarsi, a ridare potere contrattuale ai lavoratori, a intensificare la propria influenza per respingere con forza l’agenda mondiale, per affermare una nuova economia e nuove relazioni industriali, nel segno dell’equità, dell’ecologia, della riduzione degli squilibri tra Nord e Sud del mondo, dei diritti umani, del welfare. Anche per questo, perché anche la difesa dei diritti dei lavoratori possa essere globale, il Rapporto di quest’anno vede la partecipazione della Comisiones Obreras de Catalunya. Perché se dai diritti e dal lavoro bisogna ripartire per sconfiggere la crisi, anche la risposta dei sindacati deve essere globale. Bisogna evitare che l’attuale recessione (che nel 2012 ha riguardato 9 Paesi sui 17 dell’eurozona) si trasformi in inarrestabile declino e in pericolosa rottura della coesione sociale.

 Come ha avuto modo di spiegare Paul Krugman «il programma dell’austerity rispecchia da vicino la posizione dei ceti abbienti, ammantata di rigore accademico. Ciò che il più ricco un per cento della popolazione desidera diventa ciò che la scienza economica ci dice che dobbiamo fare». Secondo l’ILO, chi invece ha seguito strade opposte all’austerity ha finora ottenuto risultati assai più positivi. Gli USA hanno finanziato politiche per la crescita, riducendo la disoccupazione e arrivando, nel primo trimestre 2013, a un +2,5% del PIL. Paesi come l’Uruguay, il Brasile, l’Indonesia hanno consolidato e ampliato l’occupazione e la qualità del lavoro grazie a politiche di sviluppo. In Europa, invece, oltre alla disoccupazione, cresce la precarietà, quella che sino a poco tempo fa si era usi edulcorare chiamandola flessibilità.

 E cosa accade in Italia? Gli ultimi dati dell’ISTAT documentano un Paese ferito in profondità, con consumi calanti e famiglie impossibilitate a far fronte ai costi di cure ed esami diagnostici, a pagare le bollette, a riscaldare l’abitazione, con povertà e rischio di esclusione che riguardano un quarto della popolazione; percentuali che si raddoppiano per la scandalosa povertà minorile, ai livelli più alti d’Europa. Tra il 2012 e i primi tre mesi del 2013 sarebbero 121 le persone che si sono tolte la vita per cause direttamente legate al deterioramento delle condizioni economiche personali o aziendali: il 40% in più rispetto al corrispondente trimestre dell’anno scorso.

La distanza tra ultimi e nuovi penultimi, già breve, si è ulteriormente accorciata. Basti pensare che su un totale di 16,7 milioni di pensionati italiani, il 13,3% riceve meno di 500 euro al mese; il 30,8% tra i 500 e i 1.000 euro, il 23,1% tra i 1.000 e i 1.500 euro e il restante 32,8% percepisce un importo superiore ai 1.500 euro. In sostanza, quasi otto milioni percepiscono meno di 1.000 euro mensili, oltre due milioni meno di 500 euro. La diseguaglianza è il prodotto e assieme la fotografia dell’iniquità sociale.

 Di tutto questo e di molto altro ancora parla il Rapporto di quest’anno. Macro-capitoli tematici documentano la situazione e delineano possibili prospettive future. L’analisi e la ricerca sono corredate da cronologie dei fatti, da schede tematiche, da quadri statistici, da un glossario, da una bibliografia e sitografia, dalle sintesi dei capitoli e dall’indice dei nomi e delle organizzazioni citate. Uno strumento fondamentale d’informazione e formazione per quanti operano nella scuola, nei media e nell’informazione, nella politica, nelle amministrazioni pubbliche, nel mondo del lavoro, nelle professioni sociali, nelle associazioni.

 Ideato e realizzato dall’Associazione Società INformazione onlus, è co-promosso con la Cgil nazionale, in collaborazione con ActionAid, Antigone, Arci, Comisiones Obreras (CCOO) della Catalogna, Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza (Cnca), Fondazione Basso-Sezione Internazionale, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente, Sbilanciamoci!, vale a dire con le associazioni tra le più autorevoli, rappresentative e territorialmente diffuse che sono concretamente impegnate sulle problematiche trattate dal Rapporto.

 

Prefazioni di Susanna Camusso e Sharan Burrow. Introduzione di Sergio Segio. Interventi di Yezid Arteta Dávila, Danilo Barbi, Nnimmo Bassey, Ricard Bellera I Kirchhoff, Paolo Beni, Carla Cantone, Luigi Ciotti, Tony Clarke, Vittorio Cogliati Dezza, Astrit Dakli, Marco De Ponte, Patrizio Gonnella, Maurizio Gubbiotti, Embarka Hamoudi Hamdi, Vera Lamonica, Elena Lattuada, Saul Meghnagi, Pat Mooney, Salih Muslim Muhammad, Grazia Naletto, Mauro Palma, Livio Pepino, Ciro Pesacane, Claudia Pratelli, Michele Raitano, Vincenzo Scudiere, Fabrizio Solari, Pablo Solon, Leopoldo Tartaglia, Gianni Tognoni, Ignacio Fernández Toxo, Alex Zanotelli, Armando Zappolini.

 Il Comitato Scientifico del Rapporto è composto da Aldo Bonomi, Massimo Cacciari, Massimo Campedelli, Francesco Ciafaloni, Chiara Daniele, Andrea Di Stefano, Guglielmo Epifani, Maurizio Gubbiotti, Luigi Manconi, Maria Luisa Mirabile, Mauro Palma, Marco Revelli, Guido Viale, Danilo Zolo.

 

Nella testa dei complottisti

Il New York Times racconta a che punto sono gli studi su cause ed effetti psicologici delle teorie del complotto: c’entra il cinismo e non fanno molto bene

Complottista è una parola che esiste da pochi anni, nella lingua italiana. Si trova in qualche articolo di giornale nel corso degli anni Novanta, ma è entrata nei dizionari solo a partire dagli anni Duemila. Il dizionario Treccani ne dà questa definizione:

Chi o che ritiene che dietro molti accadimenti si nascondano cospirazioni, trame e complotti occulti.

Il complottismo, però, è tutt’altro che un’esclusiva italiana. Il New York Times ha pubblicato un articolo di Maggie Koerth-Baker, caporedattrice scientifica del sito BoingBoing, che illustra qualche risultato scientifico sulla psicologia di chi è incline a credere nelle teorie del complotto.

Negli Stati Uniti, infatti, il complottismo è particolarmente diffuso ed è anche studiato da più tempo: uno dei grandi classici sull’argomento è un saggio di Richard Hofstadter del 1965, The Paranoid Style in American Politics (qui l’originale in PDF). Negli ultimi anni è diventato di attualità anche da noi, se si pensa alla quindicina di interrogazioni recenti al Parlamento italiano sulle scie chimiche o alle teorie del complotto sull’11 settembre.

Nel resto del mondo, pare, non va molto meglio: in un sondaggio effettuato nel 2004 in sette paesi a maggioranza musulmana, circa l’80 per cento degli intervistati ha detto di credere che l’attentato alle Torri Gemelle è stato portato avanti dagli Stati Uniti o dal Mossad israeliano (che viene tirato in ballo in un sacco di teorie cospirazionistiche).

Koerth-Baker parte dall’osservazione che, dopo l’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile scorso, sono circolate le teorie più diverse sulle motivazioni dei suoi autori, i fratelli Tsarnaev: secondo alcuni erano capri espiatori per alcuni sauditi che avevano conoscenze molto in alto; secondo altri gli Tsarnaev erano parte di un’organizzazione più ampia; per altri ancora i due fratelli erano innocenti e l’attentato era stato organizzato dallo stesso governo americano.

Secondo gli studi psicologici, dice Koerth-Baker, chi si è convinto che una delle teorie del complotto è vera tende a trovare plausibili anche tutte le altre che spiegano lo stesso evento, nonostante molte di queste siano tra di loro in contraddizione. «Una teoria del complotto non è tanto la risposta a un singolo evento, quanto l’espressione di una visione del mondo complessiva.» Come è stata definito in un’altra ricerca , il complottismo è un “sistema monologico di credenze”, cioè una specie di griglia di regole in cui si possono facilmente inserire anche gli avvenimenti nuovi, sui quali si hanno poche informazioni.

Questo permette ai complottisti di assimilare facilmente dei nuovi fenomeni ed incasellarli nella propria rete di credenze. Chi è dotato di un rigoroso sistema di questo tipo, non deve fare sforzi per studiare la storia o la cultura di un paese sconvolto da un attentato o da una guerra civile. Ha già una spiegazione pronta: è stata la CIA (o il Mossad o il KGB, qualche anno fa).

Un simile sistema è altrettanto utile a evitare che le credenze profonde di una persona possano venire danneggiate da fatti che minacciano di metterle in dubbio, e questo è un altro dei meccanismi psicologici fondamentali che entrano in gioco. Negli Stati Uniti, un fanatico delle armi potrebbe credere che la sparatoria in una scuola è stata messa in scena da nemici del secondo emendamento della Costituzione americana (quello che permette ai privati, nella sua attuale interpretazione, la detenzione di armi), per tutelare la sua convinzione che le armi sono sempre e comunque un bene per la società.

Il cinismo del complottista
Le ricerche hanno mostrato anche qualche tratto caratteriale che si associa più di frequente con le tendenze complottiste. Una ricerca del 2010 (qui in PDF) ha concluso che i complottisti tendono ad essere più cinici nei confronti del mondo e della classe politica. Le teorie del complotto si diffondono più spesso in persone che hanno una bassa stima di sé e la sensazione di non essere in grado di intervenire per cambiare il mondo che li circonda.

È possibile che, in alcune persone, questi stati d’animo siano legati a forme di psicopatologia: lo studio di Hofstader del 1965 ha ancora molto credito nello spiegare perché il fenomeno del complottismo possa sorgere più facilmente in certe persone piuttosto che in altre. Ma la malattia mentale, da sola, non basta a giustificare l’estrema diffusione di alcune teorie del complotto (come ad esempio quella sull’11 settembre nel mondo arabo) e una delle cose più interessanti del fenomeno è proprio che persone che reputiamo perfettamente normali, o persino molto intelligenti, siano convinte con facilità dalle interpretazioni complottiste della realtà.

Infine possono entrare in gioco alcuni elementi esterni. Teorie del complotto possono essere suggerite e propagandate da politici, religiosi o altre figure mediatiche per favorire una precisa agenda politica. La mancanza di affidabili informazioni può contribuire a fare sì che queste teorie si diffondano. Purtroppo vale anche l’effetto contrario: un eccesso di informazioni può avere un effetto contrario a quello che normalmente ci aspetteremmo.

Internet, infatti, ha permesso una circolazione dell’informazione molto più rapida e diffusa, ma le ricerche mostrano anche che la rete, invece di frenare le ipotesi più bizzarre, sembra essere un grande strumento per renderle più convincenti. Di conseguenza, il complottismo sembra più diffuso che mai: l’articolo del NYT cita una ricerca recente secondo cui il 63 per cento degli americani che sono iscritti alle liste elettorali – quelli dunque più interessati alla vita democratica del paese – crede in almeno una teoria del complotto che ha a che fare con la politica.

Il complottismo fa bene?
Una domanda a cui tutte le ricerche cercano di dare una risposta è se il complottismo, detto brutalmente, faccia bene o faccia male. Si tratta di una domanda che prescinde dal fatto che la particolare teoria del complotto a cui crede la persona sia vera o falsa. I due punti a cui cercano di rispondere gli scienziati sono se chi crede a una teoria del complotto ne riceva un vantaggio o uno svantaggio per sé, e se il complottismo porti un vantaggio o uno svantaggio per la società.

La risposta sembra essere no a entrambe le domande. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che alcune persone, a cui venivano mostrate teorie della cospirazione sul riscaldamento globale e la principessa Diana (ma non le informazioni che le smentivano) in un secondo momento erano più inclini a non farsi coinvolgere nell’attività politica e meno inclini a comportamenti responsabili dal punto di vista ambientale.

Altre ricerche mostrano che gli afroamericani che credono al complotto della diffusione dell’AIDS come arma contro di loro sono meno inclini a fare sesso protetto; i genitori che credono che governi e case farmaceutiche tengano nascosti i dati che mostrano quanto siano dannosi i vaccini tendono a non vaccinare i propri figli: il risultato di queste scelte sono sacche di morbillo e di pertosse e, in certi paesi, di poliomelite, oppure la diffusione epidemica in alcuni gruppi di popolazione di gravi malattie sessualmente trasmissibili.

Attualmente gli psicologi non sono sicuri di poter affermare che tutto questo meccanismo cominci con un sentimento di impotenza o che sia il complottismo a causare il sentimento di impotenza. La conclusione a cui è giunta la gran parte degli scienziati con le ricerche attualmente disponibili è che, indipendentemente da che cosa causi cosa, il complottismo è spesso una forma di cinismo estrema e a volte patologica.

Il fallimento della Fini-Giovanardi nel II Libro bianco delle associazioni. Da cinque anni in vigore, la legge che punisce il consumo e il piccolo spaccio ha riempito le celle ma non di trafficanti. «Va cambiata»

 

ROMA – L’amnistia? Sì certo. Come sostengono i Radicali è una prima necessaria soluzione. Ma affinché possa incidere sul sovraffollamento carcerario, giunto ormai al limite della tortura, deve poter essere applicata anche ai reati di detenzione di sostanze stupefacenti illegali ad uso personale e al piccolo spaccio. Quei reati che, per effetto della legge Fini-Giovanardi, dal 2006 sono sanzionati anche con pene che vanno dai 6 ai 20 anni di prigione. E sono proprio i dati sulla popolazione penitenziaria a rendere evidente il fallimento dell’impianto puramente repressivo della legge attualmente in vigore sulle droghe, la 49/2006, come hanno mostrato ieri le associazioni Antigone, Forum Droghe, Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità d’accoglienza) e Società della Ragione presentando a Roma il Secondo Libro bianco sulla Fini-Giovanardi, una legge che ogni anno – come avverrà anche oggi con una conferenza stampa a Palazzo Chigi – viene sponsorizzata dal sottosegretario che le ha dato il nome, nella Relazione annuale sulle tossicodipendenze depositata ma mai discussa dal Parlamento.
Per questo le associazioni che lavorano sulle dipendenze e con i detenuti sostengono che le norme vigenti in questi cinque anni hanno avuto come unico effetto quello di riempire le carceri senza far diminuire in nessun modo né il consumo di sostanze né i reati ad esse legati. «La repressione, concentrata sulla cannabis – spiega il rapporto delle associazioni – e l’impatto carcerario della legge sono le principali cause del sovraffollamento». Non solo: «all’aumento della carcerazione e delle sanzioni amministrative corrisponde un abbattimento dei programmi terapeutici». La Fini-Giovanardi, dunque, va modificata, se non cancellata come pure la ex Cirielli, sulla recidiva.
Dai dati del Secondo Libro bianco si evince che negli ultimi cinque anni è raddoppiato il numero di detenuti in carcere per violazione dell’articolo 73 (da 14.640 nel 2006 si passa al 27.294 nel 2010), il cuore punitivo della legge, quello che impone le pene detentive per ogni tipo di comportamento (produce, detiene, vende, offre, cede o riceve, passa, traffica, commercia, trasporta, ecc.) legato alle droghe illegali inserite e parificate in un’unica tabella (dalla cannabis all’eroina e cocaina, tutte uguali). Nell’ultimo anno, era tossicodipendente il 28,4% dei nuovi entrati in carcere (il 27% nel 2006) mentre è arrivato ad uno su tre il numero di coloro che hanno varcato la soglia per reati legati alle droghe. Aumentate pure le denunce, specie per detenzione a fini di spaccio (art. 73), ma a guardarle bene si tratta al 40% di hashish o marijuana, e spesso, troppo spesso, di piccolo spaccio. D’altra parte da quando il «partito della vita» ha scelto di intraprendere la «crociata contro la droga» reprimendo in realtà solo i consumatori, sono aumentate le segnalazioni al Prefetto ma oltre il 70% dei segnalati è per cannabis e, – fa notare il rapporto – mentre sono più che raddoppiate le sanzioni irrogate, sono invece crollate le richieste di programmi terapeutici. Da notare che i detenuti tossicodipendenti, come spiega il Gruppo Abele intervenuto a corredo di una ricerca condotta in Toscana, «sono la parte più socialmente marginale dei consumatori». In sostanza, mentre in Europa e nel mondo si affermava la strategia dei quattro pilastri (prevenzione, terapia, riduzione del danno e repressione), l’Italia del centrodestra decideva di puntare solo sul pilastro repressivo. 
Appena dopo le modifiche al Dpr 309/’90 introdotte da Giovanardi e da Fini (che di tutto si è pentito tranne che di questa legge), a metà 2006 arriva l’indulto. Eppure, perfino dopo il provvedimento di clemenza, a causa della legge – si legge nel Libro bianco – le misure alternative per i tossicodipendenti sono crollate ma soprattutto, mentre prima del 2006 venivano concesse dalla condizione di libertà, dopo la legge il rapporto si è invertito e la maggioranza dei ristretti passano alle misure alternative solo dopo aver scontato una parte della pena in carcere. Infine, le tanto sbandierate operazioni antidroga sono, sì, cresciute costantemente (nel 2009 il massimo storico dell’ultimo decennio, con 23.187 operazioni) ma «senza che siano aumentati i sequestri di sostanze illecite». 
Sarebbe interessante studiare l’impatto economico di queste norme ma purtroppo, spiega il Forum droghe nel documento, «i dati forniti dai vari dicasteri e riassunti nella Relazione annuale al Parlamento non permettono questo calcolo». Solo nel 2007, con l’allora ministro Paolo Ferrero, la Relazione annuale «aveva per la prima volta tentato di quantificare l’applicazione della legge in termini economici: si stimava che i tre pilastri sociosanitari assorbissero 1,75 milioni di euro mentre la sola repressione avrebbe assorbito il doppio delle risorse: 2,8 milioni di euro. I dati, sostanzialmente confermati nella Relazione successiva, sono poi spariti dalle seguenti Relazioni governative». Inoltre, conclude il Forum droghe dopo una decina di pagine di analisi approfondita difficile da riassumere, «i dati sulla prevalenza del consumo di droga della Relazione per l’anno 2009 non sono paragonabili a quelli dell’anno precedente, rendendo così impossibile individuare il trend». Al contrario di quanto sosterrà oggi lo stesso Giovanardi. 
E allora, quale soluzione? «È urgente una modifica della legge – concludono le associazioni nel Libro bianco – iniziando da norme che definiscano come reato autonomo l’ipotesi di lieve entità» della detenzione o dello spaccio (art.73), in modo da ridurre la pena per i consumatori e i piccoli spacciatori i cui reati possano peraltro rientrare in un atto di amnistia. E vanno rese «di nuovo praticabili le alternative terapeutiche, sia per le condanne carcerarie che per le sanzioni amministrative». Una soluzione che piace anche agli Ecodem che ieri hanno immediatamente sostenuto la proposta.

Carceri stracolme che si riempiono ogni giorno di più, oltre ogni limite, in un trend esattamente opposto alle risorse. Soldi che vengono sottratti alla gestione ordinaria dei reclusi dal Piano di edilizia carceraria di Franco Ionta approvato giusto un anno fa. Celle sovraffollate di immigrati e tossicodipendenti, ma sempre meno educatori, psicologi e medici. Boom di ricorsi alla Corte europea di Diritti dell’uomo. I penitenziari italiani in pochi anni sono diventati tra i più preoccupanti d’Europa, con un gran numero di criticità  ben al di sopra della media europea. È quanto emerge dal rapporto che l’associazione Antigone ha presentato ieri a Roma sulle «Carceri nella illegalità : la torrida estate 2011».

I numeri della popolazione carceraria purtroppo sono quelli che già conosciamo ma vale la pena concentrarsi un minuto e riflettere su queste poche cifre, una per una: i 67 mila e passa detenuti nei 205 penitenziari italiani dovrebbero avere a disposizione almeno 7 metri quadri a testa in cella singola e 4 metri quadri in cella multipla, più o meno quanto occorre per un allevamento biologico di suini – come ha fatto notare più di qualcuno. La Corte Ue dei diritti umani, che considera «tortura» la detenzione con meno di 3 metri quadri a testa, ha ricevuto invece dall’Italia circa 300 esposti per condizioni detentive al di sotto di questi standard: 150 da Antigone e altri 200 presentati direttamente dai detenuti sotto la supervisione del difensore civico, messo a disposizione dall’associazione dopo che nel luglio 2009 la Corte condannò l’Italia a seguito alla denuncia presentata dal detenuto serbo-bosniaco Sulejmanovic. «Condizioni inumane di detenzione causate dal sovraffollamento», stabilirono i giudici europei. Prendiamo Poggioreale: «In una cella di 8 metri per 4, vivono 12/13 persone – si legge nel rapporto – spazi adibiti a bagno e cucina uniti tra di loro, finestre munite di schermature, 22 ore al giorno il tempo trascorso in cella». Al sesto raggio di Milano San Vittore, invece, in celle di 7 metri quadri si sta in 6, spesso per 20 ore al giorno, sdraiati sui letti a castello a tre piani. E così via, l’elenco è lungo. E in estate si soffre molto di più.
Se confrontiamo la vita in una cella italiana con le medie europee, capiamo perché certi potenti farebbero qualsiasi cosa pur di non varcare i cancelli: ogni 100 posti letto ci sono 148,2 detenuti (in Europa 96,6); il 37% è straniero (Ue 11,5%); il 36.9% sconta la violazione della legge sulle droghe (Ue 15,4%); il 4,6% è condannato all’ergastolo (1,4% in Europa). Il tasso di suicidi ogni 10 mila carcerati (i dati si riferiscono al 2008, ultima rivelazione europea) è di 8,2 (in Ue 6,1). In Italia c’è un poliziotto penitenziario ogni 1,4 detenuti, in Europa ogni 2,6. Al contrario, invece, c’è una figura non di polizia (educatori, direttori, medici, psicologi, ecc) ogni 21,7 carcerati (in Ue 13,1).
Ma se negli ultimi tre anni (2007-2010) la popolazione carceraria è aumentata del 50,6%, parallelamente lo stanziamento di risorse è calato da 3,09 a 2,77 miliardi: meno 10% nel solo 2010. Scrive Antigone: «Il sistema è allo stremo e da mesi un importante sindacato di polizia avvisa che “è a rischio anche il sostentamento dei detenuti, considerato che a settembre non ci saranno più nemmeno i soldi per dar loro da mangiare”». Nella legge finanziaria del 2010, però, è previsto lo stanziamento di 500 milioni di euro per la realizzazione del Piano di edilizia carceraria presentato dal Commissario straordinario Franco Ionta e approvato il 29 giugno 2010, che prevede la realizzazione entro il 2012 di 9.150 posti e una spesa di 661 milioni di euro. Gli altri 161 milioni di euro «saranno scippati alla Cassa delle Ammende, un fondo del ministero della Giustizia tradizionalmente destinato al reinserimento dei detenuti». Non c’è da stupirsi, dunque, se il 65% di coloro che arrivano a fine pena – come ricordava ieri dalle colonne di questo giornale Marco Pannella – finiscono per delinquere di nuovo e tornare in cella.
Antigone bolla come «inverosimile» la tempistica prospettata dal piano Carceri, il cui primo cantiere è stato inaugurato a Piacenza il 28 febbraio 2011, mentre in molti casi «devono ancora essere individuate le zone interessate». In più, «ammesso che il piano parta adesso, che i soldi bastino, e si rispettino i tempi indicati, al ritmo di crescita dei detenuti nel 2012 mancheranno ancora 14 mila posti». Sulla collocazione delle strutture, invece, c’è da registrare che «dei 9.150 nuovi posti previsti, 2.400 saranno in Sicilia, 850 in Campania, 1.050 in Puglia: circa la metà si concentrerà dunque al sud, mentre oggi i tassi di sovraffollamento più elevati si registrano nel centro nord».

Senza lavoro e con titoli di studio spesso “inutili” sognano una casa e magari dei figli, ma restano fino alla soglia degli “anta” accampati in casa di mamma e papà. Il parallelo con i propri genitori è impietoso: rispetto agli anni Settanta oggi il tasso di occupazione dei giovanissimi con meno di 25 anni si è dimezzato, mentre la disoccupazione è triplicata (e addirittura quintuplicata tra gli under 35). Per non parlare dell’inattività, oggi oltre il 70%, quasi il 15% in più rispetto a 40 anni fa.
Il centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore ha messo a confronto l’identikit delle nuove generazioni bloccando il fermo immagine su tre tappe: 1971, 1991 e oggi. «L’invecchiamento della popolazione è sotto gli occhi di tutti – osserva il ricercatore Michele Pasqualotto -: i giovani tra i 15 e i 24 anni sono ormai poco più del 10%: mentre nel 1971 gli anziani erano la metà dei giovani, ora sono una volta e mezza».
Nonostante siano molti di meno rispetto al passato, la difficoltà a trovare un’occupazione si mantiene su livelli record. «È questa la grande anomalia – spiega Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica all’Università Cattolica di Milano – che evidenzia come la domanda sia scarsa e le retribuzioni basse». Gli stipendi degli under 30 al primo impiego superano di poco gli 800 euro mensili, secondo Datagiovani, e ristagnano da oltre un decennio al di sotto dei livelli degli anni Ottanta.
Insomma, il fatto di essere in pochi non migliora le condizioni d’ingresso, anzi. Le cause? «Prima di tutto la crisi economica – risponde Campiglio – che ha ristretto le opportunità d’impiego soprattutto per i giovani, ma anche una struttura legislativa specchio di una realtà storica e di mercato generata dal baby boom che ormai non esiste più».
E poco conta che i giovani di oggi siano sempre più qualificati, con i diplomati triplicati rispetto al 1971 e i laureati passati dall’1% al 15 per cento. «Le aspettative di trovare un impiego in linea con il proprio curriculum – sottolinea il giuslavorista Michel Martone – si scontrano con l’offerta di contratti a tempo, spesso a bassa qualificazione: così aumentano lo scoraggiamento e l’inattività». La generazione Neet (Not in education, employment or training) conta ormai 2 milioni di proseliti. «Mentre negli anni Settanta i giovani lavoravano presto, si sposavano e avevano figli prima dei 30 anni – aggiunge Martone – oggi è l’esatto contrario: si studia di più, ci si laurea tardi, si rinvia l’uscita dalla famiglia d’origine e non si fanno più bambini»

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