La logica omicida del profitto

«Non è stata una fatalità . Ma un omicidio. Quei nove sono stati uccisi dalla logica del profitto, che dimentica i lavoratori»: è stato questo il grido di dolore degli operai genovesi durante il funerale dei loro compagni, morti sul lavoro nel porto del capoluogo ligure

«Non è stata una fatalità . Ma un omicidio. Quei nove sono stati uccisi dalla logica del profitto, che dimentica i lavoratori»: è stato questo il grido di dolore degli operai genovesi durante il funerale dei loro compagni, morti sul lavoro nel porto del capoluogo ligure due giorni fa. O, meglio, morti di lavoro, come è stato denunciato. Tre persone al giorno, ogni santo giorno, muoiono a causa del lavoro. Ma si muore anche per assenza di occupazione e di reddito. Com’è stato per Romeo Dionisi, che si è ucciso a Civitanova Marche lo scorso 5 aprile assieme alla moglie Anna Maria Sopranzi, subito seguiti dal fratello di lei, Giuseppe.

«Omicidi di Stato»: così sono state definite queste tre morti dalla folla che ne seguiva le esequie e che ha contestato l’unica autorità che ha avuto il coraggio di presenziare, la neo presidente della Camera, Laura Boldrini. Proprio mentre i lavoratori genovesi denunciavano che i loro compagni erano stati «sacrificati per la produttività», il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, nell’alta cerimonia che ricorda ogni anno le vittime del terrorismo, ammoniva circa i pericoli di una violenza verbale che porterebbe all’eversione. «La violenza va combattuta, scongiurata e fermata prima che si trasformi in eversione e distruzione», ha detto solennemente Napolitano. L’intento, naturalmente, è lodevole. Si tratta di capire come l’enunciazione possa essere tradotta in pratica, posto che sarebbe giuridicamente arduo (pur se talvolta il tentativo è stato e viene operato) portare sotto la sfera penale la sola, per quanto discutibile, espressione del pensiero.

La repressione, peraltro, è illusoria: è stato autorevolmente detto e scritto da decenni, ad esempio per quanto riguarda i fenomeni delle tossicodipendenze, delle migrazioni, ma anche del disagio e del conflitto sociale. La sua efficacia in ogni campo si è sempre rivelata dubbia e spesso anche controproducente. Sempre che chi la invoca, la sceglie e la persegue non abbia il nascosto intento di fomentare anziché di impedire; in tal caso, in effetti, lo strumento ha sempre dato grandi risultati. Le manganellate che quasi quotidianamente vengono distribuite sulle teste degli universitari di Milano, dei lavoratori del San Raffaele o degli studenti napoletani difficilmente possono servire a calmare gli animi. Di fronte ai rischi di violenza la strada migliore sembrerebbe quella di prevenire, evitando alla radice che situazione di disagio, ingiustizia, inosservanza di norme e diritti consacrati persino nella Costituzione, possano arrivare a surriscaldare le parole. E poi magari anche le azioni.

Su questo non sembra però esservi alcuna considerazione da parte di chi ha il potere di decidere e indirizzare, media, istituzioni e politica in primo luogo. Di fronte alle quotidiane morti evitabili l’indignazione evapora, la ricerca delle cause nemmeno viene immaginata come possibilità, se non come dovere. Quando a uccidere è la logica del profitto l’impotenza e l’indifferenza (che altri potrebbero leggere come complicità) regnano sovrane. Ha guadagnato solo qualche trafiletto di giornale la tragedia che pochi giorni fa a Dacca, in Bangladesh, ha fatto strage di lavoratori tessili: 1.033 le vittime accertate sinora, ma sono ancora centinaia i dispersi e i feriti gravi. L’edificio in cui era situata la fabbrica mostrava da giorni segni di cedimento, ma l’imperativo della produttività ha prevalso su ogni altra cosa. Bisognava tagliare i tempi, evadere gli ordini, i clienti occidentali hanno sempre fretta.

Il bilancio delle vittime è pari a quello di una piccola guerra, a quello di mezzo secolo di terrorismo in tutta Europa. Vederlo e denunciarlo come un crimine (e, come sempre, crimine impunito) è violenza verbale? O non sarà piuttosto che ci siamo abituati a vedere – peggio, a sentire – alcune morti leggere come piume e altre, quelle in cui ci possiamo riconoscere per ceto sociale, per appartenenze culturali e religiose, per radici etniche e provenienze geografiche, pesanti come montagne?

Forse è questo radicato meccanismo culturale e politico a produrre violenza verbale e rabbia se non peggio.

Forse impedire la violenza, verbale, morale e fisica necessiterebbe il fatto di pensare – di sentire – che la morte di ciascun uomo, di qualsiasi uomo, davvero, ci diminuisce.

 

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