L’altra metà della lotta armata

«Sebben che siamo donne» di Paola Staccioli, per DeriveApprodi. L’autrice sceglie di raccontare le storie delle attiviste di organizzazioni rivoluzionarie, molte delle quali cadute nella militanza

La sta­gione poli­tica degli anni set­tanta rap­pre­senta ancora oggi il con­vi­tato di pie­tra della poli­tica ita­liana. Per l’area della sini­stra radi­cale, gli errori, i fal­li­menti e le lace­ra­zioni di que­gli anni si con­no­tano come un trauma mai ela­bo­rato, che forse osta­cola più di ogni altro fat­tore lo svi­luppo di un nuovo movi­mento anta­go­ni­sta. Per l’area isti­tu­zio­nale, vice­versa, i cosid­detti «anni di piombo» si pon­gono ancora oggi come vera e pro­pria linfa rige­ne­ra­trice di una classe poli­tica esan­gue. Le recenti ispe­zioni in via Fani, la tre­pida attesa dell’estradizione di Cesare Bat­ti­sti, sono lì a dimo­strarlo.

Il libro di Paola Stac­cioli, Seb­ben che siamo donne (Deri­veap­prodi, pp.250, euro 16), tenta di supe­rare le rigi­dità e le cen­sure che cir­con­dano il tema. Adot­tando una pro­spet­tiva dia­cro­nica, che arriva ad inclu­dere anche vicende recenti, l’autrice si pone su un piano di ori­gi­na­lità, che si arti­cola in una plu­ra­lità di direzioni.

In primo luogo, sce­glie di nar­rare le vicende delle atti­vi­ste di orga­niz­za­zioni rivo­lu­zio­na­rie cadute nel corso della mili­tanza. Una scelta pre­gnante di signi­fi­cati pro­fondi, in quanto emer­gono le loro vicende esi­sten­ziali, che, come sot­to­li­nea l’autrice nelle pagine ini­ziali, scel­gono di sfi­dare gli uomini sul ter­reno della pra­tica rivo­lu­zio­na­ria. Ne emerge una nuova let­tura dell’impegno poli­tico, sce­vra sia dalla cor­re­la­zione tra impe­gno delle donne e movi­mento fem­mi­ni­sta, sia dal car­rie­ri­smo odierno, fil­trato da «Leo­polde» e «bunga bunga» a vario titolo.
La sog­get­ti­vità fem­mi­nile che le pagine ci resti­tui­scono è per­meata da un intrec­cio tra ten­sione indi­vi­duale e sen­si­bi­lità sociale radi­cal­mente diversa dalle logi­che da muc­chio sel­vag­gio che pre­va­le­vano tra la com­po­nente maschile, risul­tando in un agire impli­ci­ta­mente fem­mi­ni­sta, in quanto non subal­terno a logi­che di genere.

In secondo luogo, Paola Stac­cioli mostra di cono­scere e di uti­liz­zare sapien­te­mente le tec­ni­che let­te­ra­rie con­tem­po­ra­nee nella misura in cui ribalta il punto di vista della nar­ra­zione.
La let­tura domi­nante degli anni set­tanta, che riduce la lotta armata e il movi­mento anta­go­ni­sta ad un attacco cri­mi­nale allo Stato demo­cra­tico da parte di un pugno di fana­tici disa­dat­tati, perde ter­reno man mano che la nar­ra­zione incalza. I poli­ziotti spa­rano a san­gue freddo, anche davanti alle mani alzate in segno di resa. I giu­dici adot­tano stra­te­gie di inde­bo­li­mento e di repres­sione basate su un agire ves­sa­to­rio. Lo Stato non è tanto di diritto, ma gronda di legi­sla­zioni pre­miali, car­ceri spe­ciali, reparti spe­ciali, di fronte alle quali i corpi e gli ideali ritro­vano la loro fra­gi­lità e la loro fondatezza.

La scelta di nar­rare la lotta armata attra­verso le sto­rie indi­vi­duali, per­mette di rista­bi­lire i ter­mini della que­stione: si tratta di una vicenda col­let­tiva, che ha riguar­dato per­sone pro­ve­nienti da ogni strato sociale, di diverso grado di istru­zione, ani­mate da rab­bia e spe­ranza, mosse dalla presa di coscienza che le tra­sfor­ma­zioni capi­ta­li­sti­che sta­vano con­du­cendo ad una ristrut­tu­ra­zione col­let­tiva dell’impalcatura sociale, che avrebbe por­tato ad un peg­gio­ra­mento delle con­di­zioni di vita degli strati subal­terni. Le die­tro­lo­gie e le cacce alle stre­ghe su cui si sor­regge la let­tura domi­nante sul «ter­ro­ri­smo», escono for­te­mente inde­bo­lite da que­sto libro.

Infine, all’autrice va rico­no­sciuto un merito che, a sini­stra, non è del tutto scon­tato. Le sto­rie che emer­gono dal libro non riguar­dano mili­tanti di una spe­ci­fica orga­niz­za­zione piut­to­sto che un’altra. L’elemento fem­mi­nile, il carat­tere col­let­tivo delle vicende, si pon­gono come una pos­si­bi­lità di ricom­porre le frat­ture interne ai movi­menti sociali radi­cali. La repres­sione sta­tale, infatti, non ha eli­mi­nato, anzi, ha accen­tuato, le distin­zioni rela­tive alla pre­sunta purezza di un’organizzazione rispetto ad un altra, tra­smet­ten­dole ai giorni nostri.

Que­sto aspetto rap­pre­senta un nodo fon­da­men­tale per il futuro svi­luppo di movi­menti o gruppi che vogliono met­tere in discus­sione l’ordine sociale e poli­tico esi­stente. Una società divisa in classi, nota l’autrice, non potrà mai avere una memo­ria con­di­visa. Una tesi ovvia­mente con­di­vi­si­bile. Il pro­blema, tut­ta­via, si pone, in tutta la sua gra­vità, quando la memo­ria non viene con­di­visa tra chi ha lot­tato dalla stessa parte della bar­ri­cata e ha patito la stessa scon­fitta e i mede­simi soprusi. È pro­prio tra que­ste ferite che si insi­nuano e attec­chi­scono ras­se­gna­zione e riflusso. Sarebbe ora di comin­ciarlo a capire.

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