“Eravamo combattenti, non terroristi”: intervista a Sergio Segio

Un’intervista di “Prometeo Libero” a Segio, un’occasione, per approfondire una stagione della nostra storia da un punto di vista inedito, spesso conosciuto in maniera superficiale e non dalla voce dei suoi protagonisti

È un uomo distinto, ha poco più di sessant’anni e si occupa di diritti umani e di disuguaglianze sociali. Se un ragazzino di 15 anni lo sentisse parlare penserebbe che Sergio Segio sia un docente universitario di lungo corso. Mai potrebbe immaginare che Segio ha passato gran parte della sua vita in carcere ed era il comandate militare di un’organizzazione armata di estrema sinistra: Prima Linea. Un gruppo protagonista negli ‘anni di Piombo’ di violenze e omicidi ai danni di docenti universitari, magistrati e agenti di polizia. Dopo oltre 20 anni di reclusione, Segio dal 2004 è un uomo libero e oltre all’impegno nel volontariato ha collaborato con vari quotidiani nazionali e da qualche anno dirige il magazine Global Rights. Quest’intervista – che Segio ci ha concesso gentilmente e che si è svolta in forma indiretta, con consegna delle domande in forma scritta e presentazione scritta delle risposte – non nasce come apologia della lotta armata né come la riabilitazione dell’immagine di una figura controversa. Ma come pretesto per approfondire una stagione della nostra storia da un punto di vista inedito, spesso conosciuto in maniera superficiale e non dalla voce dei suoi protagonisti.

 

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Sergio Segio ritratto da Livio Patriarca per Prometeo Libero

 

Segio, il gruppo terroristico che ha fondato, Prima Linea, in sei anni (1976-1983) si è macchiato di 23 omicidi. Tra i vari motivi di rimorso, quali sono le cose che hanno provocato un senso di pentimento maggiore?

“In premessa, mi pare necessario puntualizzare: Prima Linea è stata un’organizzazione combattente di sinistra. Il terrorismo è storicamente, ma anche “tecnicamente”, un’altra cosa. Nella vicenda italiana, terroristiche sono state semmai le numerose, e impunite, stragi che hanno deviato la storia del paese. Capisco che sia entrato nel linguaggio comune, ma questa non è solo una semplificazione: è una vera e propria truffa semantica. E badi che non lo dico io: lo ha successivamente ammesso uno dei principali e più determinati avversarsi che abbiamo avuto in quegli anni, Francesco Cossiga, all’epoca ministro dell’Interno e successivamente Capo dello Stato. Alla fine degli anni Novanta ha infatti dichiarato «Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali». E ancora: «Rileggendoli ora, quei dati, e considerando che sono state sei o settemila le persone finite in carcere per periodi più o meno lunghi, va ricordato che aveva ragione Moro: ci trovavamo davanti a un grosso scoppio di eversione. Non di terrorismo. Il terrorismo ha una matrice anarchica che punta sul valore dimostrativo di un attentato o di una strage. L’eversione di sinistra non ha mai fatto stragi. Ci trovavamo davanti a una sovversione. A un fenomeno politico. A un capitolo della storia politica del Paese».

Venendo al merito della domanda, è sempre difficile, specie per me, tradurre quel periodo in una contabilità di vittime, che rischia di risultare arida. Ma, dato che me lo chiede, mi sembra necessario e doveroso premettere che le cifre drammatiche di quegli anni, come del resto l’intero periodo storico, andrebbero ricordate e analizzate con una completezza di informazione invece per lo più dolosamente assente. Le persone uccise dalle organizzazioni armate di sinistra sono state 128, di cui 74 a opera delle BR (58%), 20 di PL (15,6%); le rimanenti 34 a opera di 19 sigle diverse. Se alle vittime direttamente attribuite a Prima Linea si aggiungono quelle a opera di gruppi a essa collegati, si arriva effettivamente a un totale di 23. Di queste morti, 11 sono non premeditate, avvenute cioè incidentalmente per lo più nel corso di conflitti a fuoco con le forze dell’ordine, nei quali sono rimasti uccisi anche 5 militanti. In totale i militanti delle diverse organizzazioni armate uccisi dalle forze dell’ordine sono stati 36. Forse le morti incidentali sono quelle che pesano e colpiscono di più, proprio per la terribile, ma non meno responsabile, casualità. Non fosse che oggi sono profondamente convinto delle parole del poeta John Donne: «La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità». Qualsiasi uomo, quale che sia la sua professione, ideologia, condizione sociale. Il mondo in cui viviamo e il sistema che lo governa ci mettono quotidianamente di fronte, all’opposto, a una continua strage che indigna pochi e di cui nessuno si sente responsabile. Basti un solo esempio, dei tanti possibili: dal 2000 a oggi sono almeno 60.000 gli uomini, le donne e i bambini morti, in larga parte annegati nel Mediterraneo, nel tentativo di fuggire da guerre, fame e persecuzioni. Nessuno se ne sente responsabile, né tanto meno viene accusato o processato per questa vera e propria guerra, eppure essa è in buona parte causata da scelte politiche ed economiche prese da governi e singoli uomini, non da volontà divine.

Ma per rimanere agli anni Settanta, forse sarebbe necessario accompagnare la cifra da lei ricordata, da altre che nessuno mai menziona. Ad esempio, quelle che dicono che dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica avvenuti sono stati opera della destra fascista, così pure l’85% nel 1974 e il 78% nel 1975. O che il maggior numero di vittime è stato determinato dalle stragi, la cui responsabilità è storicamente ma anche giudiziariamente acclarato essere stata di organizzazioni fasciste coperte e supportate da apparati dello Stato. Dal 1969 al 1984, l’Italia è stata insanguinata da otto stragi che hanno provocato 149 morti, 688 feriti. O, ancora, nessuno ricorda né tanto meno si indigna del fatto che sono diverse centinaia le vittime a opera delle forze dell’ordine, in gran parte si trattava di manifestanti inermi, lavoratori in sciopero, studenti in lotta, semplici passanti. Ad esempio, la legge Reale sull’ordine pubblico del 1975, capostipite dell’intera legislazione di emergenza, che aumentava i termini della carcerazione preventiva, consentiva il fermo di polizia per 96 ore senza convalida del magistrato e permetteva l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine non solo in presenza di violenza o di resistenza, ha determinato almeno 254 morti e 371 feriti: spesso semplici passanti e cittadini colpiti durante controlli di polizia o ai posti di blocco.

È solo nella seconda metà del decennio Settanta che prende progressivamente piede una violenza organizzata da parte di gruppi di sinistra. Naturalmente questo non giustifica nulla e nessuno: esercitare violenza, e tanto più se irrimediabile come quella di togliere la vita a un’altra persona, è una scelta anche soggettiva, che dunque comporta responsabilità. Tuttavia, la Storia ha un carattere di processualità e dinamiche di interazione: se si cancella il prima, si ottiene un dopo difficilmente comprensibile e obiettivamente falsificato.

Parlare di quelle dolorose vicende a distanza di quarant’anni ha senso solo se l’intento è quello appunto di provare a comprendere, a ricostruire con onestà e completezza, non solo a stigmatizzare, peraltro a senso unico, come invece per lo più viene fatto.”

Quali battaglie ideologiche, portate avanti negli anni ’70, Sergio Segio rivendica ancora oggi, a inizio 2018?

“Io e la gran parte dei miei compagni dell’epoca non siamo nati con le pistole in mano, né con una propensione personale ad esercitare violenza. Semmai il contrario, dato che da giovane studente mi è capitato in diverse occasioni, come a migliaia di altri, di essere fermato durante manifestazioni, portato in caserma o in commissariato e fatto oggetto di pestaggi e violenze. Siamo cresciuti nelle lotte politiche e sociali dell’epoca. Nelle fabbriche, nelle scuole, negli uffici, nei quartieri. Nelle lotte per la casa, per migliorare la condizione operaia, asservita alla catena di montaggio, o per contrastare una scuola ritenuta di classe, funzionale a perpetuare la divisione sociale. Nelle lotte anche contro il risorgente fascismo e l’autoritarismo degli apparati statali, in quel periodo più volte compromessi in tentativi golpisti, in trame per instaurare in Italia una dittatura militare, come era avvenuto in Grecia e com’era in quegli anni Spagna e in Portogallo.

Anche qui, se lo sforzo è quello di provare a capire, bisognerebbe ricordare che ancora negli anni Sessanta e Settanta italiani, 62 dei 64 prefetti di prima classe provenivano dai ranghi dell’amministrazione dello Stato nel regime mussoliniano e così pure tutti i 241 viceprefetti, i 135 questori e i 139 vicequestori. O ricordare che il generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, che negli anni Sessanta era stato a capo del servizio segreto militare e poi Capo di stato maggiore dell’Esercito Italiano, capeggiava in quegli anni manifestazioni della cosiddetta “maggioranza silenziosa”, composta perlopiù da monarchici e fascisti, dove si gridava: «Ankara, Atene, adesso Roma viene», oppure «Basta con i bordelli, vogliamo i colonnelli». O andarsi a rileggere le considerazioni di Giovanni Pellegrino, che per molti anni ha presieduto una Commissione parlamentare di inchiesta sul terrorismo e sulle stragi in Italia: «Nel periodo ’68-’74 settori del mondo politico, apparati istituzionali, gruppi e movimenti della destra radicale hanno elaborato e posto in essere una strategia della tensione (…); a tale strategia sono attribuibili tentativi di colpo di stato (…) tre grandi stragi impunite nel periodo 69-74 (…); gli apparati di intelligence e di sicurezza, anche dopo il 1974, furono autori di attività di depistaggio e di copertura nei confronti di elementi della destra radicale individuati come possibili autori di fatti di strage».

Prima di diventare violenza organizzata e armata, insomma, le mie e nostre lotte sono state lotte per la giustizia sociale, per i diritti dei lavoratori, per una democrazia reale, contro una società autoritaria e repressiva e contro i rischi di colpo di Stato militare e fascista. Valori e pratiche che non avevano solo un contenuto ideologico, ma semmai ideale e sociale e che ancora oggi, in condizioni e tempi certo mutati, sento come miei.

A posteriori, la valutazione è che la strategia della tensione e lo stragismo posti in essere da settori dello Stato hanno funzionato, facendo deragliare una parte dei grandi movimenti di quegli anni (io facevo parte del gruppo extraparlamentare di Lotta Continua) lungo il crinale scivoloso delle armi. Una strategia tesa a destabilizzare per stabilizzare e, soprattutto, a sconfiggere il forte movimento operaio di quei primi anni Settanta, che aveva messo in discussione non solo lo sfruttamento in fabbrica, ma lo stesso sistema di potere. Per capire il clima dell’epoca, da noi inteso come prerivoluzionario, andrebbe ricordata, ad esempio, l’occupazione della FIAT avvenuta nel 1973. Oppure il movimento del ’77, del quale più direttamente era parte Prima Linea, quando decine di migliaia di persone esprimevano un antagonismo radicale e una disponibilità generalizzata allo scontro, in manifestazioni di massa spesso armate.

Molti, specialmente oggi, potrebbero pensare che avessimo scambiato lucciole per lanterne, che la spinta alla rivoluzione fosse solo un nostro vaneggiamento. Ma basterebbe leggere quanto scrisse una fonte non certo sospetta di simpatie per l’estremismo, come l’ex ambasciatore Sergio Romano, quando relativamente agli USA, ha parlato esplicitamente di situazione prerivoluzionaria: «Tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’America fu per molti aspetti in una situazione prerivoluzionaria. La guerra del Vietnam aveva provocato numerose rivolte giovanili. I campus universitari erano diventati vivai di contestazione e ribellione. Washington era attraversata da cortei di manifestanti. La bandiera americana e le cartoline di precetto venivano bruciate sulla pubblica via. I ghetti neri delle grandi città erano teatro di insurrezioni e saccheggi. Gli attentati terroristici e le manifestazioni violente erano all’ordine del giorno». Ebbene, gli stessi identici “ingredienti” erano presenti in quegli anni in Italia, coinvolgevano e convincevano decine di migliaia di giovani. Una vasta area che anche il successivo passaggio alla lotta armata non prosciugò, se sono vere le cifre indicate dalla statunitense CIA in un documento dell’aprile 1982, nel quale i simpatizzanti della lotta armata in Italia venivano stimati in un milione, con un serbatoio di sostegno e possibile arruolamento considerato del 2% degli operai su base nazionale e tra i diecimila aderenti al movimento dell’Autonomia operaia.

Il nostro errore di valutazione semmai è stato quello di scambiare un tramonto per l’alba, vale a dire di non aver adeguatamente compreso la trasformazione epocale in corso, il passaggio dal fordismo al post-fordismo, e dunque la sconfitta della precedente composizione di classe, che divenne evidente a tutti solo nel 1980, con la simbolica marcia dei “quarantamila” alla FIAT e la fine di un ciclo storico. Un errore grave, che ha prodotto gravi conseguenze. Ma che, va detto, non è stato solo nostro, ha riguardato l’intera sinistra di questo paese, compresa quella parlamentare, in tutte le sue componenti e sfaccettature.”

Lei è stato in carcere per 24 anni e per altrettanti è stato impegnato nella difesa dei diritti umani. Il percorso di riabilitazione con lei pare abbia funzionato. Ma non sembra che funzioni sempre, anzi. Perché?

“Lo dico molto semplicemente ma con convinzione e nettezza: perché nonostante io e chi ha vissuto la mia stessa esperienza abbiamo compiuto reati, anche gravissimi, non eravamo motivati da spinte criminali. Piuttosto, come ho cercato qui di spiegare, da una spinta – o se si preferisce un’illusione – rivoluzionaria. Cessata la quale il rientro nella società e nelle sue regole è stato un fatto naturale. Il carcere, e specialmente quello violento delle sezioni speciali nelle quali siamo stati a lungo rinchiusi, ha semmai rallentato e a volte inceppato questo percorso. La riabilitazione, se questo è il termine appropriato, è avvenuta spesso nonostante il carcere, non in virtù di esso.

Oggi il carcere è popolato da figure alquanto diverse, in massima parte persone con problemi di droghe, stranieri, malati. Ricordo le parole di un magistrato che, chiamato a incarichi ai vertici dell’amministrazione penitenziaria, tempo fa ebbe a dire: «Sono arrivato pensando di trovare il carcere pieno di criminali, l’ho scoperto pieno di poveri».

Da tempo, esauritasi la spinta propulsiva della riforma Gozzini e delle retrostanti culture politiche che l’avevano resa possibile, il carcere sembra avere deposto ogni ambizione rieducativa e finalità di reinserimento, limitandosi a contenere numeri crescenti di esclusi, a svolgere funzioni surrogate rispetto al venire meno delle politiche sociali all’esterno da un lato, e, dall’altro, a connotarsi come vera e propria vendetta sociale, risposta al rancore diffuso nella società non solo verso chi delinque ma verso gli esclusi e i poveri in generale.”

Il 4bis va abolito oppure ha qualche ragione di esistere?

“Il 4 bis è la formalizzazione giuridica della rinuncia alle funzioni riabilitative che la Costituzione assegna alla pena reclusiva nei confronti di alcune categorie di reati e dunque di detenuti. Dovrebbe pertanto essere abolito, al pari del 41bis e dell’ergastolo cosiddetto ostativo, che costituiscono nient’altro che una forma legalizzata di tortura. Entrambe le norme sono frutto della medesima logica di emergenza che contraddistinse la risposta giudiziaria e penitenziaria ai fenomeni armati degli anni Settanta. Allora c’era stato l’uso indiscriminato ed estensivo dei reati associativi, del “concorso morale”, l’uso disinvolto dei cosiddetti pentiti, la tortura sugli arrestati, le carceri speciali e l’articolo 90. Oggi le norme di emergenza hanno nomi e obiettivi diversi, ma è uguale il vulnus che producono nello Stato di diritto e l’irrigidimento complessivo del sistema penitenziario.”

In un recente convegno lei ha citato una vecchia inchiesta Rai sulle carceri in cui l’inviato – osservando l’interno dei penitenziari – non notava un numero ingente di criminali ma un gran numero di poveri. A quali sistemi carcerari stranieri si può ispirare l’Italia per impedire che le prigioni restino delle discariche sociali?

“Sì, il conduttore di quella inchiesta, dopo aver visitato un alto numero di penitenziari, era giunto alla medesima conclusione di quel magistrato che ho citato prima. Affermava che la popolazione detenuta somigliava a una “corte dei miracoli”, che i volti che vi si incontravano «sono gli stessi dei miserabili di Victor Hugo, dei sepolti vivi di Dostoevskij». Una popolazione composta da persone con basso grado di istruzione, senza lavoro, prevalentemente di origine meridionale. Una fotografia scattata quasi mezzo secolo fa ma straordinariamente, e preoccupantemente, simile a quella attuale. Oggi vi sono da aggiungere gli stranieri, arrivati a essere oltre il 34% dei reclusi, ma la ragione principale per la quale si finisce in carcere rimangono i reati contro il patrimonio e la composizione socio-economica prevalente resta quella dell’emarginazione.

Vi sono paesi i cui sistemi penitenziari hanno fatto e vinto scommesse riformatrici, come ad esempio l’Islanda. Ma anche diversi paesi più grandi, magari con contraddizioni, hanno politiche di maggiore apertura e maggiore attenzione ai diritti delle persone recluse, penso ad esempio a quello all’affettività o all’abolizione della pena perpetua.

Si potrà obiettare che l’Italia ha peculiarità criminali, come quelle delle mafie. Ma penso che ciò costituisca un argomento debole e pretestuoso, perché, come diceva Leonardo Sciascia, che ben conosceva il fenomeno, le mafie si battono con lo Stato di diritto, non con la terribilità delle pene. L’ergastolo, come del resto la pena di morte, non sono un vero deterrente. Il carcere duro porta a una spirale violenta non a un reale governo delle prigioni.

Prima che modelli da seguire, e ce ne sarebbero, occorre però una diversa cultura della pena e della sua funzione. Per dirla con il compianto cardinal Martini, «occorre provare a immaginare alternative alla pena, non solo pene alternative». Mentre aspettiamo Godot, vale a dire che la classe politica (di destra, di centro e di sinistra) trovi questo coraggio e questa lungimiranza, si potrebbe e dovrebbe cominciare almeno rendere la pena reclusiva davvero l’extrema ratio, anziché la scorciatoia preferita per ogni genere di reato e di devianza, come è adesso.”

Parliamo un po’ di politica. Se Sergio Segio avesse 20 anni, oggi in che forme sarebbe impegnato politicamente? Voterebbe qualche partito in particolare? 

“Guardi, io ho avuto un imprinting e una educazione sentimentale di sinistra e rimango convinto che la giustizia sociale e l’eguaglianza siano valori e obiettivi imprescindibili. Non ho mai militato né votato partiti ma piuttosto in movimenti e gruppi extraparlamentari. Ho avuto attive simpatie per l’ultimo grande movimento che si è espresso alla fine degli anni Novanta in tutto il mondo e che è stato sanguinosamente represso a Genova nel 2001. Un movimento altermondialista e post-novecentesco, che aveva l’ambizione di provare a cambiare il mondo senza prendere il potere e che ha avuto importanti e ancora attuali intuizioni. Se pure quel movimento si è dissolto, le sue ragioni sono più che mai valide ed evidenti e le sue analisi continuano a costituire un giacimento anche di proposte, che magari negli Stati Uniti riescono a contaminare positivamente il programma di un candidato alle presidenziali come Bernie Sanders e in Spagna quello di Podemos, ma che in generale non sono riuscite a cambiare la politica e a influenzare le grandi scelte globali. Ciò non fa venire meno la rilevanza del fatto che hanno avuto ragione quelle associazioni, quei sindacati, quei pezzi di società civile che a quel tempo ammonivano sui rischi della finanziarizzazione dell’economia, sui pericoli connessi alla cessione di poteri e prerogative da parte dei governi e dei Parlamenti a favore di organismi privi di rappresentatività democratica come il FMI, la Banca Mondiale, la WTO. Che hanno contrastato prima la stessa Organizzazione Mondiale del Commercio e poi l’intervento militare in Iraq. Che hanno denunciato gli interessi privati dei George Bush, dei Dick Cheney e dei Donald Rumsfeld e la complicità dei Tony Blair nell’invadere l’Iraq, costruendo a tavolino prove false per poterlo fare, e che hanno innescato e addirittura teorizzato una “guerra infinita”, i cui effetti continuano oggi a devastare il Medio Oriente e a destabilizzare intere aree geografiche e indirettamente la stessa Europa, destinataria principale dei flussi di migranti che fuggono dai bombardamenti e dalle stragi. La sola guerra in Siria, in corso dal 2011, ha sinora prodotto quasi mezzo milione di morti, due milioni di feriti, 12 milioni di profughi. Il neocolonialismo, gli interessi strategici energetici e le industrie belliche occidentali sono responsabili dei milioni di morti e delle decine di milioni di profughi che hanno segnato l’inizio del nuovo secolo e che continuano senza freni o ripensamenti. E senza neppure più quel movimento mondiale che aveva la forza e la lucidità di denunciarlo. Oggi è rimasta solo la voce del papa Francesco, autorevole ma priva di reali conseguenze nelle scelte politiche.

Rimango convinto che, tanto più in quest’epoca di globalizzazione e di governance tecnocratica, i parlamenti decidano assai poco. Assieme, e di conseguenza, alla crescita del potere della finanza e dei grandi gruppi multinazionali, sono infatti andati svuotandosi gli istituti del potere legislativo e la stessa democrazia. Le grandi decisioni mondiali vengono prese nei consigli di amministrazione di quelle corporation e incidono sulle nostre vite molto di più di qualsiasi parlamento. Del resto, se molte multinazionali e banche hanno bilanci superiori ai PIL degli Stati, non è difficile capire chi comanda nel mondo. Il colosso USA dei supermercati Walmart impiega 2,2 milioni di persone e realizza un fatturato di oltre 485 miliardi di dollari, come l’intero PIL dell’Argentina. Il bilancio della banca BNP-Paribas, quasi 2.000 miliardi di euro, equivale al PIL del Paese in cui ha sede, la Francia, la sesta più grande economia; eppure BNP è “solo” l’ottava banca a livello mondiale. La capitalizzazione di giganti come Google e Apple supera il PIL della Svezia, Polonia o Nigeria, il Paese più popoloso dell’Africa, con 180 milioni di abitanti. Interi settori vitali per l’umanità, come quello alimentare e dell’agrochimica sono nelle mani e nel potere di poche corporation. I tre quarti del mercato delle sementi sono posseduti da sole dieci multinazionali; la statunitense Monsanto, da sola, ha oltre un quarto del mercato globale. Tutto ciò contribuisce a svuotare di ruolo e possibilità i partiti politici, e lo vediamo di riflesso con il crescere dei populismi e quello, sempre più minaccioso, dei nazionalismi.

In ogni modo, per chi viene dalla mia storia dopo aver espiato la pena detentiva, ne continua un’altra infinita, una sorta di ergastolo sociale e della parola. Tra i diritti civili di cui siamo privati ci sono anche quelli politici, di conseguenza, anche volendo, non potrei votare né essere votato.

L’unico partito al quale io mi sia mai iscritto e con cui intrattengo rapporti e simpatia è quello radicale. Prima di tutto per riconoscenza, dato che negli anni Settanta e Ottanta i radicali sono stati tra i pochi a denunciare i frequenti episodi di tortura avvenuti nei confronti dei militanti arrestati e le condizioni di detenzione nelle carceri speciali. Una gratitudine non solo in generale, ma anche per il sostegno e la vicinanza che personalmente mi espressero in occasione di un lungo sciopero della fame che io e Susanna Ronconi conducemmo per protestare contro una decisione del presidente del tribunale di sorveglianza di Torino. Una decisione che apri un conflitto, anche giuridico, tra quel magistrato e la direzione del carcere, che aveva disposto anche per noi due l’accesso al lavoro all’esterno come già era avvenuto per tutti gli altri detenuti politici della nostra sezione, ma che il magistrato invece ci rifiutava. Fatto sta che a un certo punto io e Susanna decidemmo uno sciopero della fame contro quella che obiettivamente era una discriminazione ingiustificata nei nostri confronti (opinione, peraltro, condivisa e scritta nero su bianco da personalità politiche e giuridiche di tutto rilievo, come ad esempio l’ex magistrato e poi presidente della Camera Luciano Violante, il futuro ministro di Giustizia Piero Fassino, lo stesso senatore Mario Gozzini, il giurista Neppi Modona e tanti altri). Uno sciopero totale e determinato, tanto che dopo solo una settimana fummo ricoverati al reparto-bunker dell’ospedale Le Molinette di Torino. Uno sciopero che intendevamo non come un ricatto ma come una battaglia che, pur a partire dalla nostra condizione, poneva una questione di diritto più generale. Era una situazione decisamente disperata. Noi eravamo davvero determinati a ottenere di essere trattati come gli altri, o a morire in caso diverso. Ebbene, e per farla breve, tra i non moltissimi che ci sostennero in quella battaglia di vita o di morte ci fu l’intero Partito Radicale e tutti i suoi parlamentari, Marco Pannella in testa. Sino a che, dopo un intervento dell’allora guardasigilli Giuliano Vassalli, il magistrato dovette accettare di ammettere al lavoro esterno prima Susanna e qualche tempo dopo anche me, sia pure sotto scorta e vigilanza costante degli agenti di polizia penitenziaria: lavoro esterno sotto scorta che ha costituito un fatto più unico che raro nella storia carceraria italiana.

Ma, al di là delle vicende personali e della riconoscenza, poi e assieme, vi è da parte mia la considerazione di una loro profonda coerenza e anche della loro, positiva, anomalia, dato che si tratta di un partito “non partito”, dato che da tempo ha scelto di non presentarsi alle elezioni e di caratterizzarsi su di un piano transnazionale. Il che bilancia la decisa distanza che avverto riguardo invece le loro posizioni neoliberiste in economia. Infine, ma non per ultimo, perché negli anni più recenti sono rimasti davvero l’unica forza politica impegnata nella difesa dello Stato di diritto e di un garantismo non a corrente alternata, nonché contro l’ergastolo e il carcere duro del 41 bis.”

Se lei dovesse definire con un aggettivo Renzi, Bersani, Berlusconi, Grillo e Salvini, quale utilizzerebbe per ognuno di loro?

“Credo che da quanto ho detto sinora sia evidente che non ho vicinanza con nessuna delle forze politiche da essi rappresentate, anche se per alcune, caratterizzate da una cultura di intolleranza, di egoismo sociale e di atteggiamenti xenofobi posso avvertire una distanza maggiore. Sulle singole persone mi sono abituato a non esprimere giudizi, essendo troppe volte stato giudicato, per non dire pre-giudicato o additato alla gogna e disprezzo pubblici. I tempi in cui viviamo mostrano una facilità ai discorsi d’odio, all’insulto, ai giudizi lapidari che penso vadano contrastati, su tutti i piani e nei confronti di chiunque.”

Quali sono le passioni di Segio – anche le meno impegnate – che nessuno conosce sul fronte musicale, cinematografico, sportivo.. ?

“Credo valga per molti, ma io mi sento ed effettivamente sono spesso in gara con il tempo, un bene divenuto sempre più scarso, date le forme raggiunte dall’organizzazione sociale. Le mie attività e l’impegno sociale mi consentono dunque davvero poco margine per dedicarmi ad altro. Il tempo che riesco a guadagnare lo investo nella lettura, ascolto abbastanza musica, anche in sottofondo quando lavoro o scrivo, vado purtroppo troppo raramente al cinema. I miei gusti letterari, musicali e cinematografici sono rimasti abbastanza attardati al secolo scorso. Non mi sono mai interessato di sport, tanto meno di calcio, che continuo a ritenere un’arma di distrazione di massa, oltre che ormai un business più che uno gioco. Ma da alcuni anni pratico la corsa, partecipando a maratone. Detto ciò, la mia principale passione rimane quella politica, nel senso che spero di aver sin qui sufficientemente delineato: vale a dire dell’impegno sociale e della partecipazione.”

Qualche tempo fa, in un incontro alla sede del Partito Radicale, poco dietro di lei c’era seduto Valerio Fioravanti. L’ha salutato?

“No ma semplicemente perché non l’ho visto. In quell’occasione ho invece salutato Francesca Mambro, con la quale peraltro condivido impegno e battaglie contro la pena di morte e per i diritti umani nell’associazione Nessuno Tocchi Caino, del cui direttivo faccio parte e alla quale collaborano anche Valerio e Francesca.

Una grande e nobile figura, purtroppo scomparsa nell’agosto 2016, che è stata a lungo magistrato di sorveglianza e per un troppo breve periodo anche a capo dell’amministrazione penitenziaria, Sandro Margara, ebbe a scrivere una volta che «il carcere crea innocenza, trasformando anche il colpevole in vittima»; una profonda verità che troppi non vogliono ascoltare, specie in questi tempi incattiviti. Io penso che il carcere crei anche sentimenti naturali di solidarietà reciproca tra chi vive la medesima condizione e che spinga dunque a superare distanze e prevenzioni anche tra “ex nemici”.”

Fonte: GIACOMO DI STEFANO, PROMETEO LIBERO

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