Il trionfo dei comi­tati d’affari

Dopo Marino. Una partitocrazia senza partiti, dei quali a ben guardare non è rimasto che il peggio: il potere pressoché assoluto delle oligarchie e dei cerchi magici

Lo scon­tro fron­tale tra il sin­daco della capi­tale e il suo par­tito è giunto all’ultimo atto. Non si sen­tiva il biso­gno di quest’altra tri­sta vicenda. La poli­tica ita­liana, la demo­cra­zia ita­liana, i cit­ta­dini ita­liani e in par­ti­co­lare i romani non se lo meri­tano. Ma, giunte le cose al punto in cui stanno, l’urto finale è ine­vi­ta­bile. Pro­viamo almeno a rica­varne una lezione.

Non più tardi di qual­che mese fa – lo scorso giu­gno – il Pd difen­deva Marino a spada tratta. «È un baluardo della lega­lità e chi dice che si deve dimet­tere incon­sa­pe­vol­mente sostiene le posi­zioni di quelli che lo hanno per­ce­pito come osta­colo ai loro dise­gni. L’interesse di Roma è che Marino resti sin­daco». Così par­lava il vice di Renzi al Naza­reno, non pro­prio l’ultimo venuto. Qual­che giorno fa lo stesso Gue­rini se n’è uscito dicendo che «non esi­ste che Marino ci ripensi»: se ne deve andare, punto e basta.

Ha cam­biato idea radi­cal­mente anche Mat­teo Orfini, che su Marino aveva resi­stito per­sino a Renzi e che ora è sceso in campo per orga­niz­zare le dimis­sioni in massa dei con­si­glieri del Pd. Uti­liz­zando, pare, un nobile argo­mento, degno dei momenti più alti della sto­ria della Repub­blica: chi oggi disob­be­di­sce all’ordine di dimet­tersi si può scor­dare di essere rie­letto in Cam­pi­do­glio. Il com­mis­sa­rio Orfini è coe­rente. Come si sa e si vede, si batte anima e corpo per il rinnovamento.

Quanto al pre­si­dente del Con­si­glio, meglio tacere. Marino non fa parte dei suoi fedeli né dei suoi famuli e tende per di più a muo­versi in auto­no­mia su uno sce­na­rio non pro­pria­mente peri­fe­rico. Renzi gliel’ha giu­rata sin da prima dell’estate per con­qui­starne lo scalpo.

Tutto que­sto è – va detto senza remore – ver­go­gnoso, oltre che stu­pido. Non si tratta qui di difen­dere in blocco l’operato del sin­daco, per molti versi molto discu­ti­bile. Ma il modo in cui il par­tito che due anni fa lo ha can­di­dato alla pol­trona di primo cit­ta­dino della capi­tale ha pre­teso ora di liqui­darlo senza che ad alcuno sia con­cesso di com­pren­dere le vere ragioni di tanto acca­ni­mento è sem­pli­ce­mente inde­gno di un paese civile. E ben dif­fi­cil­mente por­terà buon frutto alla città oltre che agli stessi regi­sti dell’operazione, per i quali evi­den­te­mente l’autonomia delle isti­tu­zioni locali e della cit­ta­di­nanza vale zero.

Per lungo tempo hanno imper­ver­sato in Ita­lia infuo­cate pole­mi­che sulla par­ti­to­cra­zia. Si impu­tava ai par­titi di occu­pare le isti­tu­zioni e di cer­care di met­tere le mani su tutti i luo­ghi di potere che riu­sciva loro di rag­giun­gere. Non erano certo accuse pre­te­stuose o infon­date. Ma i par­titi nella prima Repub­blica costi­tui­vano anche snodi cru­ciali della par­te­ci­pa­zione demo­cra­tica. Svol­ge­vano le fun­zioni vitali di alfa­be­tiz­za­zione poli­tica e di orien­ta­mento cul­tu­rale di massa che la Costi­tu­zione repub­bli­cana attri­bui­sce loro.

Poi è venuto il ter­re­moto di Tan­gen­to­poli, si è adot­tato il modello del par­tito leg­gero, ha trion­fato la più spinta per­so­na­liz­za­zione della poli­tica. I par­titi di massa, radi­cati nel tes­suto sociale del paese, sono stati rapi­da­mente sman­tel­lati. E il discorso sulla par­ti­to­cra­zia è pas­sato di moda, come se ogni pro­blema fosse stato risolto.
I par­titi si sono tra­sfor­mati in comi­tati elet­to­rali, in orga­niz­za­tori di opi­nione, in strut­ture rare­fatte coman­date da gruppi sem­pre più ristretti, da vere e pro­prie oli­gar­chie. Non sol­tanto a destra, dove il partito-azienda del padrone rea­lizza coe­ren­te­mente una con­ce­zione con­di­visa della società. Lo stesso è avve­nuto nel campo delle forze demo­cra­ti­che. Che non hanno intro­iet­tato sol­tanto la let­tura ege­mone della moder­niz­za­zione neo­li­be­rale, ma anche la con­ce­zione auto­ri­ta­ria, post-democratica, della poli­tica e dell’amministrazione.

Nes­suno parla più di par­ti­to­cra­zia, evi­den­te­mente ai mag­giori opi­nio­ni­sti que­sta situa­zione garba. Si capi­sce. Ma di certo alla regres­sione oli­gar­chica dei par­titi non hanno cor­ri­spo­sto una rinun­cia al potere né – come si vede – uno stile più sobrio nell’esercitarlo. Al contrario.

Se per tanti versi il ren­zi­smo ci appare quo­ti­dia­na­mente l’espressione matura della tor­sione tec­no­cra­tica e affa­ri­stica della poli­tica, la vicenda della defe­ne­stra­zione del sin­daco di Roma orga­niz­zata dal Pd rap­pre­senta a sua volta il trionfo della par­ti­to­cra­zia peg­giore e più insi­diosa. Una par­ti­to­cra­zia senza par­titi, dei quali a ben guar­dare non è rima­sto che il peg­gio: il potere pres­so­ché asso­luto delle oli­gar­chie, dei cer­chi magici, dei comi­tati d’affare. E il con­se­guente trionfo delle clien­tele poli­ti­che e del trasformismo.

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