A Genova non avevamo gli smartphone

Genova 2001. L’evento più fotografato e ripreso della storia. O almeno, potremmo dire della storia prima che le tecnologie digitali diventassero tutt’uno con la nostra pelle

Genova 2001. L’evento più fotografato e ripreso della storia. O almeno, potremmo dire della storia prima che le tecnologie digitali diventassero tutt’uno con la nostra pelle. L’idea di un altro mondo possibile si diffondeva come un virus: passava di bocca in bocca, correva di cavo in cavo, attraversando il pianeta da un angolo all’altro del globo. Internet era finalmente alla portata di tutti, macchine fotografiche e telecamere portatili erano diventate accessibili: tantissimi erano quelli che sperimentavano forme di comunicazione indipendenti e “Become your media” era un invito che era parte stessa di quell’altro mondo possibile per cui si lottava. Cosi Genova 2001 è stato l’evento più fotografato e ripreso della storia, anche se non c’era YouTube, né Flickr, nemmeno Instagram, Pinterest, Twitter… nulla di nulla, men che meno Facebook. Negli USA si, qualche tentativo c’era stato, ma bisognerà aspettare il 2003 per vedere MySpace diffondersi e imporsi come piattaforma di blogging. Potremmo dire che il network di Indymedia rappresentava una sperimentazione più che all’avanguardia nel campo delle comunicazioni partecipate e interattive.

Poi dal punto di vista tecnico le possibilità offerte dalle tecnologie digitali si sono moltiplicate e oggi abbiamo YouTube, Flickr, Instagram, Pinterest, Twitter, Facebook… come ben sappiamo, l’elenco non si limita a questa manciata di social network: app, smartphone, tablet, occhiali di realtà virtuale, persino lo spazzolino che si connette a internet e dice al tuo dentista come ti lavi i denti.. per ogni azione abbiamo una app apposita, persino per avere un appuntamento con un* ragazz*. Internet ha preso forma intorno a noi, costruendo l’ambiente in cui viviamo, penetrando dentro i nostri corpi e i nostri pensieri. Anche internet, come ogni ambiente, ha i suoi architetti, che progettano il modo in cui gli abitanti abitano l’ambiente: anche internet, come ogni ambiente, condiziona il tuo modo di vivere, di abitare gli spazi, di relazionarti con il mondo intorno.

Siamo sommersi di immagini, video, informazioni di qualsiasi tipo; circondati da surrogati di amici, avatar di familiari; bombardati da impulsi cosi rapidi che facciamo fatica a dare importanza all’una o all’altra avvenimento, godere o soffrire di una emozione.. Un contatto non è più un contatto, una notizia non è più una notizia… Ogni volta che ci connettiamo stiamo semplicemente percorrendo un’autostrada, chiusi dentro una bolla che inibisce la capacità critica e la capacità affettiva: scorriamo su e giu da un post all’altro, in una fitta giungla di opinioni, dove le fonti valgono poco o niente. Crediamo di conoscere il mondo ma non riusciamo nemmeno a vedere al di là del recinto. Siamo incapaci di uscirne: quanti, in mezzo agli amici, al bar, per strada, a scuola, al lavoro, tirano fuori il telefono per ritornare in quel recinto?

Siamo tutti compenetrati dalla tecnologia e ne vogliamo sempre di più, perché le tecnologie digitali aumentano e intensificano le nostre opportunità conoscitive, relazionali e sensoriali. Grazie al fascino che questa esercita su di noi, siamo diventati tutti volontariamente parte di un enorme processo di valorizzazione economica. Una forza lavoro frammentata e fisicamente divisa, ma sempre connessa; una forza lavoro che non vede distinzione tra tempo libero e tempo di lavoro, tra luoghi di lavoro e luoghi di svago, tra vita pubblica e vita privata… L’attenzione è una risorsa scarsa, e quindi preziosa. Non a caso i servizi più comodi sono gratuiti. Ma che prezzo siamo disposti a pagare per la gratuità? Quando un servizio è gratis, solitamente, la merce sei tu: siamo il tessuto connettivo grazie a cui si costituisce il ‘capitale sociale’ delle società postfordiste.

I giganti delle tecnologie digitali sono in grado di ricavare le nostre abitudini, i nostri comportamenti, persino le nostre espressioni facciali. Non è per questioni di sicurezza nazionale, prevenzione del crimine e del terrorismo, garanzia dei cittadini che ci spiano 7 giorni su 7, 24 ore su 24: quello dei (meta)dati è un businnes enorme, una preziosa miniera di informazioni che permette a chi ne è in possesso di fare vere e proprie previsioni di tendenza. Sanno cosa ci piace, ipotizzano cosa vogliamo, producono ciò che consumeremo. I nostri dati pongono chi li possiede (e ha gli strumenti tecnologici per analizzarli) in una posizione strategica di vantaggio: collezionano le informazioni dei singoli utenti, elaborano analisi di massa e infine confezionano per tutti noi i prodotti più adatti per perseguire i loro interessi, politici o commerciali che siano. Cosi possono metterci davanti infinite possibilità tra cui scegliere quella più adatta ai nostri gusti, infinite ciotole da cui servirci: ognuno di noi ha il suo prodotto personalizzato, fatto apposta in base ai propri gusti, alle abitudini, ai luoghi che frequenta. Con un ventaglio cosi largo di offerta, il tempo per immaginare la tua opzione non è previsto, non è previsto che ci resti il tempo di pensare se quello che vedi è davvero quello che vuoi. Obiettivo? Impedirti di immaginare tu stesso cosa ti piacerebbe. Il capitale globale approfitta delle possibilità delle tecnologie per mantenerci in una posizione di precarietà, di instabilità, di subordinazione.

Mondi virtuali, mondi possibili

Era il 1994 quando ci fu il cosiddetto Levantamiento Zapatista. L’EZLN fu il primo esperimento di utilizzo di internet per diffondere un messaggio politico di liberazione, per spargere sul globo una chiamata che ha raccolto adesioni da ogni angolo del pianeta, approdando a Seattle in quello che presto sarebbe diventato il movimento dei movimenti. Milioni di persone si unirono in quegli anni dietro all’idea che un altro mondo fosse possibile. La capacità di dubitare che l’unico punto di vista, la sola strada da percorrere fosse quella del sistema di potenti al governo del mondo si diffondeva come un virus.

Ci hanno educati alla competizione, all’individualismo. La precarietà ci ha fatto naufragare in una quotidianita frammentata, solitaria, triste. La deliberata e sistematica distruzione dell’istruzione pubblica ci ha reso ignoranti, togliendo a generazioni intere gli strumenti per leggere il mondo ci ha resi incapaci di comprendere cosa ci accade intorno e quindi di reagire. Le tecnologie digitali ci hanno offerto una spiaggia su cui approdare. O meglio. Infinite spiaggie su cui approdare. Ballard disse che il fatto principale del XX secolo era il concetto di possibilità illimitata.

Oggi è il sistema stesso, neoliberista, consumista e globalizzato, che ci offre ogni giorno infinite possibilità, anche grazie alla diffusione degli strumenti virtuali. La virtualità è sempre esistita, il linguaggio e la tecnica sono un esempio di strumenti virtuali che usiamo per rapportarci al mondo, ma con la diffusione delle tecnologie digitali gli strumenti virtuali si sono moltiplicati nella nostra esperienza quotidiana, e di conseguenza si sono moltiplicati i loro effetti sulla realtà. In particolare, le tecnologie che hanno a che fare con il linguaggio, agiscono sulla nostra capacità di organizzare i pensieri, obbligando la nostra mente ad adattarsi allo strumento che media il nostro rapporto con il mondo. E’ stato così per l’alfabeto, la stampa, la tv, i computer. Su scala globale, oggi, possiamo produrre e scambiare una quantità praticamente illimitata di informazioni in tempo reale ma qual è l’impatto sociale e culturale? A differenza del possibile (ovvero ciò che ancora non esiste e magari nemmeno esisterà mai), il virtuale produce i suoi effetti prima di essere realizzato: agisce sulla realtà, provocando effetti di realtà proprio come se fosse dotati della stessa esistenza degli oggetti che chiamiamo reali.

Ben lontano dal diventare reale, il sogno di un altro mondo possibile viene scordato, sommerso dal fascino irresistibile delle infinite realtà virtuali e , bombardate continuamente da informazioni, la nostra capacità critica e la nostra affettività restano sommerse.

Ti basta uno smartphone per aumentare la realtà; oppure, puoi metterti i caschetti della samsung e vedere a 360° un altro mondo, puoi scomparire dentro ai video game, puoi trasformare la realtà stessa in un gioco di ruolo, puoi vedere un video o un immagine senza sapere se si tratta di immagini sintetiche, prodotte con software di grafica e modellazione 3d o se invece sono una riproduzione reale… Finzione e realtà non sono distinguibili, il nostro ambiente è un ibrido: non esiste una distinzione tra naturale e artificiale. Le nuove tecnologie permettono una moltiplicazione di mondi senza fine, ed è proprio questo il punto: dominare l’immaginazione è fondamentale per imporre l’imperativo neoliberista “THERE IS NO ALTERNATIVE”. Somministrare mondi possibili già confezionati è centrale per controllare l’immaginario, la produzione di desiderio.

A Genova non avevamo gli smartphone

Se c’è una crisi che possiamo fermare, è la crisi dell’immaginazione, perché è proprio nell’immaginario che possiamo scatenare un cortocircuito. A Genova non avevamo gli smartphone ma sarebbe davvero stupido concludere che la soluzione è l’opzione luddista. Ci sono tante piccole cose che possiamo fare ma, a essere onesti, non siamo sicuri di qual è la soluzione, possiamo dirvi quella che abbiamo scelto noi: organizzarci nelle scuole, nei quartieri, negli spazi occupati, nelle manifestazioni; incontrandoci corpo a corpo ogni giorno, ragionando insieme e praticando il mutuo soccorso come tentativo di costruire dal basso un altro mondo possibile. Ostinatamente convinti che un mondo nuovo è probabile tanto quello vecchio.

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