Emanuele Macchi è colpevole e fascista, ma non deve morire in carcere

La domanda si pone non per la prima volta: è giusto, civile e democratico lasciar morire in galera un detenuto, per quanto colpevole? E ancora, per chi si ritiene «di sinistra»: è necessario difenderlo anche se politicamente quel detenuto è collocato sulla destra estrema?

Emanuele Macchi è un fascista. Fronte della Gioventù negli anni ’70, poi Costruiamo l’azione, il gruppo di Paolo Signorelli e Sergio Calore che vagheggiava impossibili alleanze tra il radicalismo di destra e quello di sinistra. Macchi ne guidava il braccio armato, il Movimento rivoluzionario popolare.

Condannato a 16 anni se li è fatti tutti, uno dei principali «irriducibili» tra i terroristi neri della generazione dei tardi anni ’70.

Uscito dal carcere dopo 16 anni, Macchi è stato nuovamente arrestato, 15 anni dopo, e condannato per traffico internazionale di stupefacenti è indagato come organizzatore del sequestro, poi finito in omicidio, di Silvio Fanella, il «cassiere» di Gennaro Mokbel.

Evaso dai domiciliari prima che il processo per traffico di stupefacenti fosse concluso, è stato ri-arrestato in Francia ed estradato in Italia. Ora, dopo la condanna a 10 anni e mezzo, è detenuto nel carcere di Marassi.

Emanuele Macchi, però, è anche un uomo molto malato, affetto probabilmente da malattia demielizzante, costretto su una sedia a rotelle, dimagrito sino a diventare quasi irriconoscibile.

La moglie ha scritto nei giorni scorsi una lettera molto onesta: «Non è un detenuto come tutti gli altri. Ha una storia antipatica, scabrosa, sgradevole. Il suo passato è costellato di altre detenzioni. È, per il pubblico che legge, un pregiudicato, un evaso, un delinquente, un condannato».

Ma il quadro clinico è devastato: «Pregresso cancro squamocellulare asportato alla testa, cecità assoluta all’occhio sinistro, gamba destra ridotta di quattro cm, discinesia e sospetta malattia demielizzante».

Macchi, racconta la moglie che può vederlo una volta al mese, «non cammina più, il braccio sinistro è immobilizzato, ha le piaghe da decubito, sviene durante i colloqui». Dai 70 kg di quando è rientrato in carcere è passato a 44 kg.

Su questa base, la magistrata di sorveglianza dispone una perizia medica, che registra l’incompatibilità con la detenzione. La giudice non è convinta. Chiede di ripetere la perizia, che dà lo stesso esito.

Tuttavia la magistrata afferma di sentirsi «in dovere di disattendere» le raccomandazioni e di non disporre il differimento pena. In compenso, il 2 maggio scorso, ordina il trasferimento a un carcere più vicino a casa, a Ostia.

Però l’amministrazione penitenziaria non procede. Il giorno seguente, 3 maggio, le condizioni di Macchi si aggravano e il medico penitenziario dispone l’immediato trasferimento in una struttura ospedaliera. Stavolta è la direzione del carcere a non ascoltare: Macchi è arrivato in ospedale solo ieri.

Sarebbe opportuno che tutte le figure istituzionali coinvolte ricordassero che la pena di morte, nel nostro ordinamento, non è prevista.

Per nessuno.

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