Paesaggi berlinesi. Intervista con il sociologo tedesco Andrej Holm sul diritto all’abitare
Si potrebbe parlare di «nuovo maccartismo», questa volta al servizio della speculazione immobiliare. Dopo le dimissioni dall’incarico di Segretario di stato per la casa nel Senato della capitale tedesca, il sociologo Andrej Holm ha appena presentato ricorso contro la decisione della Humboldt Universität di cancellare il suo contratto di ricercatore (ne ha dato notizia Jacopo Rosatelli su queste pagine). Abbiamo conversato con Holm che ha accettato di raccontarci la sua storia.
«Sono nato nel 1970 nella Germania Est e cresciuto in una famiglia di solida tradizione comunista – ha spiegato -. Da ragazzo nella Ddr il mio atteggiamento verso il socialismo era molto idealista. E perciò mi sono arruolato per la leva in un reparto della StaSi. Con la svolta del 1989 ho cambiato molte convinzioni rispetto al sistema socialista e sono diventato parte del movimento libertario e autonomo qui a Berlino. Poi ho iniziato a impegnarmi con il movimento degli inquilini nei quartieri orientali. Il dibattito sulla gentrification inizia ufficialmente tra il 2008 e il 2009, ma a Berlino Est abbiamo avuto lotte contro la gentrificazione molto prima che il concetto diventasse «di moda» in ambito accademico. Ho iniziato a studiare sociologia urbana alla Humboldt Universität, trovando una diretta corrispondenza tra questi concetti scientifici e la mia esperienza di lotta. Così ho sempre lavorato sull’interrelazione tra ricerca accademica, movimenti e politica cittadina».
Poi ci sono state le elezioni di settembre a Berlino ed è cominciata la discussione sul programma della coalizione di governo rosso-rosso-verde. Che ruolo hanno avuto i movimenti?
Per la prima volta si discuteva nel merito dei contenuti, in dettaglio, e con grande trasparenza oggi chiunque può leggere quali sono gli impegni assunti dal nuovo governo della città. In materia di politiche abitative ma non solo, siamo di fronte a un programma marcatamente anti-liberista. Si dice che il «decennio dell’austerity» è finito e si apre invece una fase di rinnovati investimenti pubblici, per la creazione di infrastrutture sociali. Sulla base di questo ho accettato la proposta della Linke di entrare nella squadra di governo in prima persona. Sono state direttamente assunte nel programma molte delle rivendicazioni elaborate dal movimento. E le lotte per il diritto alla casa avevano fatto di questo tema uno degli aspetti decisivi della sconfitta Cdu.
Poche ore dopo la sua nomina è scoppiato il caso-Holm. Come possiamo interpretarlo?
Ci sono certo intrecci tra la campagna contro di me, la cultura profondamente anti-comunista di settori dell’establishment tedesco e gli interessi materiali del capitale speculativo. È certo un dibattito dalle molte sfaccettature, come del resto è la mia biografia politica e personale insieme. Ho deciso di dimettermi per evitare che si arrivasse alla rottura nella coalizione rosso-rosso-verde e che le nuove politiche sociali, antiliberiste e anti-austerity contenute nei suoi impegni programmatici, venissero messe in discussione.
Ha scritto nella sua lettera di dimissioni «il mio ritiro non significa affatto la rinuncia a una politica alternativa per la casa». Che cosa intendeva?
La possibilità di un’interazione positiva tra il nuovo governo di Berlino e i movimenti è tutta aperta. Abbiamo imparato una volta di più che invertire le tendenze dominanti nel campo della politica residenziale è questione di rapporti di forza sociali. E noi dobbiamo interrogarci su come sia possibile costruire un contro-potere più forte di prima. Se vogliamo una nuova politica della casa, dobbiamo lottare: un buon social housing non sarà mai un «regalo» del governo, bisogna conquistarlo. Ed è chiaro che molte iniziative degli inquilini escono rafforzate da questa esperienza.
Può riassumere quali sono i principali problemi per quanto riguarda il diritto alla casa a Berlino e, viceversa, quali siano i punti di forza del programma che ha contribuito a scrivere?
È una materia complessa. Mettiamola così: soddisfare il diritto all’abitare è troppo costoso per chi ha un basso reddito, ma questo è il risultato dell’intreccio tra condizioni economiche generali, meccanismi finanziari e politiche pubbliche. Bisogna perciò avere un approccio sistemico. E il punto è ancora quello posto 150 anni fa da Friedrich Engels, cioè la logica capitalista che ritiene la casa una merce, da valorizzare il più possibile. Perciò vogliamo ricombinare un ampio ventaglio di strumenti: dal superamento della logica privatistica di gestione dello stesso patrimonio pubblico, a nuove regole per il «social housing», dalla protezione effettiva dei diritti degli inquilini alla fine di dismissioni e privatizzazioni; serve anzi un massiccio piano di nuove acquisizioni comunali. Infine, abbiamo affermato un diverso modo di prendere le decisioni politiche: non più consultazioni con le lobby immobiliari, ma un ampio e partecipato dibattito, che analizzi l’impatto sociale di ogni scelta istituzionale.
Quali sono le similitudini e le differenze tra la situazione della casa a Berlino e nelle altre città europee?
Ci sono molte cose in comune, perché tutti, anche se in misura e con modalità diverse, abbiamo subito gli effetti delle politiche neoliberiste negli ultimi vent’anni. E dall’altra parte, ogni città ha la sua specifica storia, sia nello sviluppo urbano che nella crescita dei movimenti. Berlino, per effetto della sua storia di città divisa, continua ad avere una certa «mixité» sociale anche nei quartieri più centrali. Nel cuore della metropoli continuano a vivere persone a basso reddito, famiglie che beneficiano del sistema di welfare. Questa è la grande differenza con Parigi, Londra o Barcellona, dove la trasformazione neoliberista del centro è un processo compiuto. E la nostra sfida è mostrare che è possibile una diversa qualità sociale della vita urbana nel suo insieme. Che è una componente essenziale del discorso sull’eguaglianza sociale nelle nostre città, che può nascere ed essere portato avanti dai movimenti.
Pensa possa esserci lo spazio per costruire alleanze tra città per affermare una diversa politica della casa in Europa?
Dobbiamo portare avanti questo lavoro su entrambi i versanti. Da alcuni anni c’è un buon livello di relazioni tra movimenti per la casa: le nostre iniziative anti-sfratto qui a Berlino hanno adottato molte delle forme sperimentate dalla Pah, ad esempio, traducendole nelle nostre condizioni. Imparare dalle altre città e organizzarsi su scala transnazionale è fondamentale. Poi c’è un secondo livello, quello dell’elaborazione dei dispositivi necessari ad attuare una nuova politica dell’abitare: abbiamo differenti legislazioni nazionali, in Olanda o in Italia, ma ci sono delle idee che possiamo adattare e applicare. Perciò dobbiamo fare rete, sia tra ricercatori critici, sia tra attivisti, sia tra governi di sinistra e alternativi. E combinare questi differenti livelli, non solo tra istituzioni. Ada Colau sa bene, come del resto la coalizione rosso-rosso-verde di Berlino, di aver bisogno di una forte spinta dal basso, di una permanente pressione sociale. E questo è parte della nostra capacità di mutuo apprendimento a livello internazionale.
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