Vi racconto mio fratello, il Che Guevara. Sapeva sorridere di tutto»

Juan Martín Guevara, il fratello più piccolo di Ernesto, classe 1943, una vita articolata, sindacalista, prigioniero politico, rappresentante di sigari Avana, non vuole sentir parlare di mitizzazioni cristologiche

«Ero sul mio camion a Buenos Aires, presi il giornale all’alba: “Il Che è morto”, titolava. Lo seppi così». La fucilazione sugli altipiani sperduti della Bolivia di Ernesto Guevara detto il Che, il 9 ottobre del 1967, esattamente 50 anni fa, è un turning point . Perché è una sorta di Pasqua rivoluzionaria che anticipa la Resurrezione del 1968 e trasfigura il guerrigliero più celebre di tutti in un santino eternamente giovane.

Ma Juan Martín Guevara, il fratello più piccolo di Ernesto, classe 1943, una vita articolata, sindacalista, prigioniero politico, rappresentante di sigari Avana, non vuole sentir parlare di mitizzazioni cristologiche. Come si vede nel suo memoir appena uscito «Il Che, mio fratello» (Giunti), ritratto intimo in cui l’argentino scende appunto dall’Olimpo degli eroi e diventa uomo. E faceva dunque il camionista, Juan, il giorno del martirio guevarista: è dunque leggenda quella del Che borghese annoiato in cerca di distrazioni? «Sì, mio padre Ernesto senior fu sempre in cerca di fortuna e piuttosto assente. E mia madre Celia, donna rigorosa quanto umile. Di comodità in casa non ne abbiamo avute mai».

L’Ernesto junior di Juan è un ragazzo che sa sempre sorridere. «La grandiosa foto-icona di Alberto Korda non gli rende del tutto giustizia: è accigliato, ritratto in un giorno di lutto. Sapeva invece sdrammatizzare qualunque situazione». Ernesto diventa poi il Che (l’intercalare argentino con cui lo ribattezzarono per sempre i cubani) e si sottopone dunque al giudizio della storia. All’inizio lo dipingeranno come un Robespierre implacabile, quando comminerà numerose condanne a morte: «Me lo chiesero in Germania. Ribattei: cosa avrebbe dovuto fare con assassini e torturatori? Cosa avreste dovuto fare voi a Norimberga?». Poi lascerà Cuba per inseguire illusioni rivoluzionarie in Congo e, fatalmente, in Bolivia. Ma una volta morto, Ernesto diventerà una condanna per il fratello minore. Nel 1975 l’arresto in Argentina: Juan è sindacalista e soprattutto si chiama Guevara. Otto anni nelle carceri del regime militare: «In realtà il mio cognome sparì e divenni un numero, 445, completamente disumanizzato. E se lo scoprivano, il colmo era ricevere i complimenti degli aguzzini, “Che stratega tuo fratello, non fosse stato comunista…”». Ora invece, i complimenti Juan li riceve «dai ragazzini, perché mio fratello rimane punto di riferimento indiscutibile nella lotta contro le diseguaglianze sociali. Al netto di qualunque santino».

FONTE: Matteo Cruccu, CORRIERE DELLA SERA

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