Lo stato maggiore della rivoluzione. 2 marzo 1919 nasce l’Internazionale comunista

Intervista. Le considerazioni di Aldo Agosti intorno all’anniversario della fondazione dell’Internazionale Comunista

MOSCA. Il 2 marzo 1919 a Mosca venne fondata l’Internazionale comunista. Il suo obiettivo dichiarato era dirigere la rivoluzione internazionale. Ma quale ruolo giocava all’interno il partito russo? E quale ruolo giocherà negli anni successivi?

Dopo la vittoria dell’ottobre ’17, i bolscevichi erano convinti che la sopravvivenza del potere sovietico dipendesse dal successo della rivoluzione nei paesi capitalistici europei, che ritenevano fosse imminente. Ma quasi subito la necessità di creare uno “stato maggiore della rivoluzione” capace di dirigere su scala internazionale 1’assalto del proletariato al potere si venne a saldare con l’urgenza di difendere la rivoluzione dagli attacchi interni ed esterni.

Fin dalla fondazione l’IC, proprio perché concepita come “partito mondiale della rivoluzione”, si era data una struttura centralizzata, ispirata al modello bolscevico: il peso decisivo che questo vi assunse derivava, oltre che dal suo prestigio, dal fatto che tutto il peso finanziario e gran parte del peso organizzativo dell’apparato del Comintern ricadevano sulle sue spalle. Quando, sul finire del 1923, il ciclo rivoluzionario apertosi con l’Ottobre apparve concluso con quella che si giudicava la provvisoria stabilizzazione del capitalismo, lo stesso rapporto tra lo Stato e il partito sovietico da un lato e l’Internazionale dall’altro risultò profondamente modificato. Via via che si constatavano da un lato i successi del regime sovietico e dall’altro il ritardo della rivoluzione in Occidente, compito essenziale dell’Ic diventava la difesa e il rafforzamento del primo Stato proletario, e l’URSS e il suo partito comunista acquistavano un’importanza crescente nei determinarne gli orientamenti. Di questo potere i comunisti russi non tardarono a servirsi come strumento nelle lotte interne del loro partito.

Già nella fase che precedette e seguì il V congresso (giugno-luglio 1924) la lotta condotta da Stalin e Zinov’ev contro Trockij si trasferì all’interno delle sezioni dell’Ic, finendo per distorcere l’autonomia della loro dialettica interna. A perpetuare la supremazia indiscussa del partito russo nell’Ic e a plasmare le varie sezioni nazionali secondo l’orientamento della maggioranza di questo contribuì poi in modo determinante la campagna di “bolscevizzazione” dei partiti comunisti lanciata nel corso del 1924.

Tra la tattica del fronte unico dell’internazionale e quella dei fronti popolari ci fu l’intermezzo della politica del socialfascismo. Che conseguenze ebbe?

Quando si aprì il VI Congresso dell’IC (luglio-settembre 1928), la fortuna di Bucharin, che ne era diventato il leader, volgeva al tramonto, e alla sua interpretazione, che non trascurava l’accrescimento delle forze produttive nei paesi capitalistici e la funzione assunta dallo Stato come regolatore dell’economia, Stalin contrappose la previsione di un aggravamento irrefrenabile delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico, che avrebbe condotto il sistema al crollo in un futuro prossimo. Due fattori fecero sì che questa seconda tesi s’affermasse nella maggioranza dei partiti comunisti, favorendo o imponendo l’ascesa di gruppi dirigenti “di sinistra”. Il primo fu il bilancio nel complesso poco brillante della politica di fronte unico: basti ricordare il fallimento dello sciopero generale in Inghilterra nel maggio del 1926 e la disastrosa conclusione della collaborazione con il Guomindang in Cina. Il secondo fu la svolta della politica interna dell’URSS, con l’abbandono della NEP e l’avvio della collettivizzazione forzata. Maturò in questo clima, nell’Internazionale, l’orientamento che fu definito “classe contro classe”: nella fase nuova dello scontro la socialdemocrazia, in quanto si opponeva alla rivoluzione e alla dittatura del proletariato, non poteva più essere considerata un’ala del movimento operaio, ma diventava una forza controrivoluzionaria al servizio del nemico di classe. A partire dal X Plenum (luglio-agosto 1929) l’Ic cominciò a definire la socialdemocrazia come “socialfascismo” e a equiparare le forme democratiche e le forme dittatoriali del dominio borghese.

La crisi economica mondiale del 1929 parve confermare le previsioni catastrofiche di Stalin e portare acqua al mulino del radicalismo di sinistra. D’altra parte cambiava la composizione sociale dei partiti comunisti, in cui confluivano sempre più disoccupati, insofferenti nei confronti degli strati sociali relativamente protetti che costituivano una parte della base sociale dei partiti socialdemocratici: fu questo l’humus in cui poté attecchire e mettere radici profonde la parola d’ordine del “socialfascismo”. In realtà, la depressione economica agì in generale negativamente sulla disponibilità alla lotta delle masse operaie, determinando in esse uno stato di rassegnazione e spingendo i ceti medi nelle braccia della reazione. Per di più la tensione di lotta che l’attivismo comunista riusciva talvolta a suscitare veniva irrigidito in una linea politica dimostrativa e senza sbocchi pratici, che aveva come unico contenuto reale quello un’azione di disturbo nelle retrovie del nemico diretta a prevenire ogni possibile attacco all’URSS.

Stalin sciolse l’internazionale nel 1943. Fu solo una concessione agli Alleati in vista del dopoguerra oppure Stalin pensava già a una nuova strutturazione dell’internazionalismo comunista poi cristallizzatasi nella formazione del Kominform?

Con la primavera del 1943, dopo la vittoria sovietica a Stalingrado, si aprì una fase nuova nella guerra. I problemi dell’assetto mondiale all’indomani dell’ormai probabile vittoria sul nazifascismo venivano sempre più in primo piano. È in questa situazione che va inquadrato lo scioglimento dell’Internazionale comunista, deciso dal Presidium l’8 giugno, dopo un’affrettata consultazione con la maggioranza dei partiti membri. Si faceva preminente per Stalin l’interesse di rassicurare l’opinione pubblica dei paesi amici che l’URSS rinunciava ad “esportare” la rivoluzione: e questo non solo per migliorare i rapporti con gli Alleati nella guerra in corso, ma anche per facilitare la continuazione della collaborazione soprattutto nella prospettiva di una partecipazione americana alla ricostruzione dell’economia dell’URSS. È quindi indubbio che il Comintern fu anche sacrificato alla politica estera sovietica. Ma alla base della decisione di scioglierlo vi erano pure motivazioni che scaturivano da una situazione reale nei rapporti fra Mosca e le sezioni come l’emergere in modo sempre più chiaro proprio dall’evoluzione della guerra delle esperienze dei partiti comunisti jugoslavo e cinese, avviati a dirigere autonomamente la rivoluzione nel proprio paese .

Stalin era convinto, e a ragione, di poter contare su un legame con i partiti comunisti che non avesse bisogno di esprimersi in forme istituzionalizzate. In effetti con lo scioglimento del Comintern i partiti comunisti non recisero il loro legame con Mosca: anzi questo per certi aspetti divenne più stretto e diretto che in passato. Tuttavia il loro rapporto con “la casa madre” si fece più complesso, diversificandosi in ragione della divisone del mondo in due aree d’influenza. Maggiore spazio acquistavano così obiettivamente le varianti nazionali della strategia comunista, che inizialmente l’URSS non scoraggiò, anche se cercò di armonizzarle in un disegno corrispondente ai suoi interessi di potenza.

A 100 da quell’evento l’organizzazione su scala internazionale della sinistra è definitivamente tramontata o nel futuro potremmo vedere rinascere forme di organizzazione sovranazionale?

Dopo il 1989, la fine della guerra fredda e la disintegrazione dell’Urss e dei regimi di “socialismo reale” in Europa hanno inferto un colpo mortale alle forme sempre più ritualizzate e vuote di un movimento internazionale comunista già da tempo in crisi, senza peraltro comportare una vera ripresa di vitalità di quello socialdemocratico, anch’esso in estinzione. I nuovi processi di globalizzazione frantumano identità e classi, dividono generi e generazioni, aprono nuove contraddizioni sociali basate su appartenenze etniche e religiose. Gli ultimi vent’anni del XX secolo hanno visto una serie di battaglie di resistenza, spesso perdute, delle società nazionali contro l’emergere di un’economia globale: soprattutto con l’inizio degli anni 2000 si è visto qualche segnale dell’emergere di una società civile globale che inizia a ricostruire identità, organizzazione, alleanze oltre e attraverso i confini nazionali per affrontare i cambiamenti dell’economia a livello planetario. Si è potuto scorgervi a volte nuove forme embrionali di internazionalismo. Ha mosso i primi incerti passi un movimento che propone un progetto alternativo di “globalizzazione dal basso” che intende uscire dagli angusti orizzonti nazionali, ma rovesciandone i valori – profitto e potere – delle imprese multinazionali, della finanza, dei governi e rimpiazzandoli con le idee della democrazia e dell’uguaglianza, di uno sviluppo umano compatibile con la natura, del diritto al lavoro per tutti, della giustizia economica e sociale a scala del pianeta. Ma questo movimento rimane per ora più che altro un’idea astratta, lontana dal poter risuscitare un internazionalismo quale lo si è conosciuto nell’ultimo scorcio del XIX secolo e come, in una prospettiva radicalmente nuova e rivoluzionaria presto destinata a rivelarsi illusoria, lo intendeva la Terza Internazionale.

* Fonte: Yurii Colombo, IL MANIFESTO

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