Rinazionalizzazione delle masse, la tentazione autoritaria speculare alla libertà del liberismo

Un potere che si presenta come uno strumento per ricomporre le tante molecole in cui si sta frantumando la nostra società

Il quadro italiano ed europeo nel quale si celebra quest’anno la ricorrenza del 25 aprile è quello di un progressivo trapasso dalle democrazie sociali, che erano venute faticosamente affermandosi dalla Liberazione in poi, ad un ordinamento di poteri che, in mancanza d’altri termini, può essere definito come democrazia recitativa. Alla partecipazione collettiva al voto corrisponde – infatti – la corporativizzazione e la saldatura oligarchica dei processi decisionali, consegnati a gruppi di interesse ristretti e autoreferenziati.

Ciò che chiamiamo «populismo» si inscrive a pieno titolo dentro questo processo, semmai rafforzandolo, in quanto occultamento dei nodi irrisolti tra rappresentanza, conflitti e poteri. Un fenomeno continentale, per più aspetti, anche se ogni paese lo affronta e lo declina a modo suo, in base alla sua storia. Lo svuotamento della Costituzione «nata dalla Resistenza» è allora pari all’appassimento dell’antifascismo come fenomeno sociale e culturale. Si tratta di una dinamica di lungo periodo, innescatasi già nella seconda metà degli anni Settanta, ma che ha prodotto i suoi effetti solo in tempi a noi più prossimi.

In Italia il vero suggello della trasformazione che stiamo vivendo è dato dalla colonizzazione dell’intero spazio politico da parte di forze e liste che articolano un verbo sospeso tra qualunquismo, identitarismo e sovranismo. Non si tratta di un progetto, quello che da esse viene avanzato, bensì di un linguaggio sincretistico, irenico e quindi privo di reale sostanza. Non è neanche il soddisfacimento di un difetto di rappresentanza, quello che loro in tale modo manifestano, bensì di una capacità di adattarsi alle condizioni date, un adagiarsi nella crisi da trasformazione in atto, traendone un vantaggio e offrendo, come contropartita per il consenso raccolto, la compiacenza dell’inganno.

Il populismo, d’altro canto, così com’è democrazia senza Costituzione, sa anche essere sembiante magico e infantile della politica quando questa è svuotata di effettivo ruolo decisionale. Lo spazio del fascismo che non torna, è esattamente questo. Se il vecchio regime, ma anche le sue estreme propaggini neofasciste, sono oggi consegnate perlopiù al solaio della storia, non la medesima cosa può essere detta di una tentazione autoritaria che è speculare alla libertà del liberismo.

Se nel secondo caso, quella libertà nessuno sa usarla poiché non si è emancipati se non si hanno risorse, e non si hanno risorse se non c’è un contratto sociale che garantisca la redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, nel primo il potere, che non è autorevole ma autoritario, potrà invece tornare ad avere nuovi spazi nella misura in cui saprà presentarsi come uno strumento di ricomposizione delle tante molecole in cui si sta frantumando la nostra società. Non lo farà in virtù dei processi di inclusione, ai quali pensava la Costituzione, ma di esclusione su base identitaria.

Il dispositivo etnico della vecchia e nuova destra riposa integralmente su tale dinamica. È il suo nesso di continuità. Vince proprio per questo, ossia riconfigurandosi efficacemente rispetto all’evoluzione dei rapporti sociali di produzione. Dei quali dà una rilettura consolatoria perché proposta in chiave etnicista: offrire l’idea di protezione attraverso l’identificazione dell’estraneo da emarginare da espellere. Il vero sovranismo, quindi, si basa sulla riattivazione di questa procedura razzista. A corredo di essa si pone la trasformazione della questione sociale in questione penale e l’appello alla collettività come richiamo alla plebe. Non sono aspetti secondari o sbavature in una partitura altrimenti accettabile, bensì il prodotto funzionale del mutamento che stiamo vivendo.

Cosa c’entra, tutto ciò, con la memoria del 25 aprile e, ancora di più, con la consapevolezza storica di ciò di cui ci si liberò in quella clamorosa circostanza? Torna il tempo della rinazionalizzazione delle masse. Che fu quanto di più e meglio riuscì al fascismo, incapsulando il conflitto sociale, disegnando il profilo di una «nazione» fittizia ma come tale creduta da molti, cristallizzando le diseguaglianze, mitologizzando la politica medesima, ridotta ad atto fideistico. Una miscela magica per un popolo bambino, consegnato all’età dell’eterna dipendenza.

La questione si sta riproponendo, a partire dai processi di infantilizzazione collettiva che accompagnano i nostri tempi. È un processo, quello corrente, che deve senz’altro contemperarsi con l’individualismo che negli ultimi trent’anni ha dominato la scena pubblica, prodotto della disgregazione dell’azione collettiva. Un individualismo che domanda non rappresentanza ma gregarismo tra sedicenti liberi, che non riescono a concepire una società che non sia quella che coincide con il perimetro delle proprie immediate angosce. Il ritorno della plebe si inscrive in questa logica dell’immediatezza e della paura per tutto ciò che può eccedere il tempo presente e lo spazio visibile.

La vera sfida, quindi, è iniziare fare i conti una volta per sempre con la falsa necessità di rincorrere queste dinamiche, in sé ingovernabili, per invece riformulare e porsi da principio un problema che era già alla radice della lotta di Liberazione: su quali presupposti si può costruire non un ipotetico, utopico, astratto progetto alternativo bensì una classe dirigente che sappia farsi capace di trasformare la realtà in progetto, transitando dal lamento impotente dell’emarginato alla rivendicazione di un nuovo spazio di diritti reali?

Non ritorna nessun fascismo; semmai ci si rifugia in un passato mitico, fatto di illusorie armonie, in cui la memoria del fascismo storico viene recuperata, come se di esso fosse stato, in qualche modo, il generoso garante. Si tratta di quella ossessione per il tempo trascorso, del tutto trasfigurato, che ci dice che la vera dimensione che sembra mancarci è quella del futuro da costruire. La vera crisi che stiamo vivendo si chiama impotenza. Ragionarci sopra è irrinunciabile, a rischio di essere impietosi con se stessi. Altrimenti si apriranno per davvero inedite possibilità per chi dovesse continuare a proporsi come colui che ammalia grazie alle tragiche illusioni della politica della prepotenza e della sopraffazione.

* Fonte: Claudio Vercelli, IL MANIFESTO

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