«Bella Ciao». Storia di una canzone della Resistenza

Il libro. Cesare Bermani racconta storia e fortuna di un canto della Resistenza italiana diventato universale

In tanti hanno scritto di Bella ciao e in tanti l’abbiamo cantata. Adesso, in un piccolo prezioso libro, Cesare Bermani, lo studioso militante che meglio di tutti ne ha seguito le origini e la storia, distilla più di mezzo secolo di ricerca e arriva a conclusioni definitive e solidamente documentate (Cesare Bermani, «Bella ciao». Storia e fortuna di una canzone dalla Resistenza italiana all’universalità delle Resistenze, Novara, Interlinea, 2020).

Per prima cosa, Bermani fa chiarezza su un punto importante: non è vero che Bella ciao non sia stata cantata durante la Resistenza. Era l’inno di combattimento della Brigata Maiella in Abruzzo, cantato dalla brigata nel 1944 e portato al Nord dai suoi componenti che dopo la liberazione del Centro Italia aderirono come volontari al corpo italiano di liberazione aggregato all’esercito regolare. La ragione per cui non se ne aveva adeguata notizia, osserva Bermani, stava in un errore di prospettiva storica e culturale: l’idea che la Resistenza, e quindi il canto partigiano, fossero un fenomeno esclusivamente settentrionale. Il fatto che la canzone iconica dell’antifascismo venga invece dall’Abruzzo sposta la prospettiva non solo sul canto, ma sul movimento di liberazione nel suo insieme: il «vento del Nord» è stato impetuoso e decisivo, ma il vento non soffiava in una direzione sola.

Da tempo, peraltro, avevamo rilevato una ricca tradizione di canto antifascista e partigiano in altre parti dell’Italia centrale, in Lazio e Umbria soprattutto (per non dire della Toscana, di cui già si sapeva molto). C’è una versione di Fischia il vento, il classico canto composto dai partigiani liguri, raccolta in Umbria da Valentino Paparelli, a cui è stata aggiunta una strofa sorprendente: «Là nel Nord c’è un popolo che attende con certezza di aver la libertà». I partigiani che hanno combattuto nell’Italia centrale continuano la lotta salendo a liberare il Nord; tra loro, c’erano anche i combattenti della Brigata Maiella. L’incontro fra questi combattenti e le forze partigiane del Nord, soprattutto in Emilia, diventa un cruciale momento di scambio e contaminazione culturale. È lì che i partigiani umbri della Brigata Gramsci arruolati nel corpo di combattimento Cremona impararono sia Fischia il vento sia Stoppa e Vanni, per poi riadattarle al loro contesto; e fu proprio a Reggio Emilia che l’allora partigiano Vasco Scanzani imparò la Bella ciao partigiana che nel 1951 avrebbe poi trasformata nel canto di lavoro delle mondine.

Bermani, che ne è stato anche protagonista, ricorda che di tutto questo non sapevano niente Roberto Leydi e Gianni Bosio quando vicino Reggio Emilia incontrarono la grande cantatrice ex mondina Giovanna Daffini, che gli cantò la versione delle mondine, e si convinsero che fosse l’origine del canto partigiano. Da questo malinteso nacque il memorabile spettacolo, «Bella ciao», rappresentato al Festival di Spoleto del 1964, che cominciava proprio con la giustapposizione, in ordine sbagliato, della versione mondina e di quella partigiana. Il folk revival italiano nasce dunque su un doppio equivoco: l’identificazione del canto partigiano solo con il Nord, e lo scambio di cronologie fra la Bella ciao partigiana e la versione sindacale scritta da Scanzani per le mondine. Va osservato peraltro che i «responsabili» di questo equivoco (ancora molto diffuso), a partire da Leydi e dallo stesso Bermani, sono stati quelli che già da molto tempo hanno messo in chiaro come stavano effettivamente le cose.

Dal libro di Cesare Bermani, Bella ciao emerge come un testo che mette in discussione definizioni rigide e confini invalicabili: Nord e Sud, canto partigiano, musica leggera, tradizione orale… Bermani parte dal rapporto fra il canto partigiano e il canto epico-lirico narrativo di tradizione orale, ripercorrendo i legami strettissimi con canti tradizionali come Fior di Tomba (testo) e La bevanda sonnifera (melodia). In Italia centrale, per esempio, è abbastanza diffusa, una versione narrativa di Fior di tomba inframmezzata dal ritornello Bella ciao, quasi come una contaminazione al contrario in cui il canto partigiano retroagisce sulla ballata tradizionale. Però il legame è anche più profondo: l’incipit – «Questa mattina mi son svegliato» – che accomuna Bella ciao con Fior di tomba lo ritroviamo in moltissimi blues: l’altra mattina mi sono svegliato e Satana mi bussava alla porta (Robert Johnson), l’altra mattina mi sono svegliata e il blues mi girava intorno al letto (Bessie Smith), e così via. È la scoperta traumatica dell’irruzione del male – l’invasione, il tradimento, il demonio, la sofferenza – nel tempo e nello spazio di tutti i giorni, la precarietà dell’esistenza e dei rapporti in un mondo popolare sempre sotto minaccia.

Forse la parte più divertente del libro di Bermani è la ricostruzione della storia di vita di Rinaldo Salvadori, paroliere e canzonettista toscano, che già negli anni ’30 aveva composto una canzone intitolata Risaia sulla vita delle mondine che conteneva la frase «bella ciao», appresa in frammenti di canti alpini e altre espressioni popolari e popolaresche. Risaia fu censurata dal regime perché conteneva espliciti accenni allo sfruttamento a cui erano sottoposte; per farsi perdonare, Salvatori compose poi canzoni fasciste, ma già nel 1944 pubblicava testo e musica di una versione di Bella ciao assai simile a quella che oggi conosciamo tutti. Il punto, insomma, è che in questo ambito la ricerca dell’ «origine» e della «autorialità» si dissolve in rivoli infiniti; quello che conta non è tanto come un canto è nato, ma come è diventato quello che abbiamo adesso.

«Salvadori», scrive Bermani, «ci appare come un fenomeno ’di frontiera’, metà interno al mondo popolare e metà dentro al mondo della musica leggera di quegli anni». In realtà è tutta la storia di Bella ciao che appare come un fenomeno di frontiera, ibrido e sfuggente e proprio per questo capace di unire, di mettere in comunicazione realtà diverse. Pensarla in questo modo ci aiuta anche a capire meglio il processo per cui Bella ciao viene adottata quasi istituzionalmente come canto iconico del movimento di liberazione negli anni del centrosinistra, quando l’antifascismo diventa (un po’ strumentalmente ma un po’ anche no) il principio unificante di un «arco costituzionale» che nelle sue declinazioni migliori riconosce la pluralità di una Resistenza che non appartiene esclusivamente a nessuno. In un certo senso, è proprio l’ecumenismo politico un po’ generico intrecciato alla fermezza morale (e, come Bermani ricorda, agli echi est-europei della melodia, al piacere ludico del battito di mani) che permette sia gli abusi, sia soprattutto la straordinaria circolazione internazionale soprattutto di questi ultimi anni, dal Cile al Kurdistan, da «Casa di carta» a Tom Waits, di cui Bermani dà accuratamente conto. E che manda fuori di testa gli amministratori locali di destra che, dal Friuli alla Sardegna, hanno cercato invano a più riprese di vietarne il canto negli eventi ufficiali. Hanno ragione a dire che Bella ciao è divisiva: sarà generica, sarà ecumenica, ma si capisce benissimo da che parte sta.

* Fonte: Alessandro Portelli, il manifesto

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