Pinelli e la revisione della Storia. Le tappe di un delitto perfetto

La decisione del Capo dello Stato di invitare (anche) Licia Pinelli alla Giornata della Memoria del 9 maggio rappresenta un ulteriore passo verso la revisione della Storia italiana degli anni Settanta e in generale della seconda metà del Novecento

La decisione del Capo dello Stato di invitare (anche) Licia Pinelli alla Giornata del 9 maggio rappresenta – anche al di là delle intenzioni – un ulteriore passo verso la revisione della Storia italiana degli anni Settanta, ma più in generale della seconda metà del Novecento. Forse l’ultima, decisiva, tappa di un percorso di allontanamento dalla verità, al contrario di quel che ha titolato un quotidiano.

Un percorso che muove da lontano.

1) La prima tappa

Punto d’avvio è stato quello di una falsificazione semantica (riconosciuta come tale, peraltro, da uno dei suoi principali artefici dell’epoca, Francesco Cossiga: cfr. intervista in “Sette” del “Corriere della Sera”, 7 febbraio 2002).

I sommovimenti sociali degli anni Settanta, dei quali la lotta armata è stata una – parziale – espressione e dai quali le organizzazioni armate hanno preso le mosse (in particolare Prima Linea, che è stata interna al movimento del 77, mentre le BR, con cinica logica da partito, ne hanno fagocitato la crisi, successivamente e grazie al sequestro e uccisione di Aldo Moro), sono stati, tout court, definiti «terrorismo». La violenza politica e il conflitto sociale radicale e anti istituzionale sono stati sovrapposti ed equiparati alla lotta armata. La lotta armata di sinistra è stata definita terrorismo.

Il terrorismo, invece, era quello della destra, nella sua specifica versione stragista, che particolarmente in Italia, in quegli anni, è stata la strategia lucidamente e sanguinosamente utilizzata dai gruppi della destra radicale, finanziati, appoggiati e utilizzati da ambiti della destra atlantista e dai governi (e dagli apparati militari e di intelligence) dittatoriali che circondavano allora l’Italia: Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia. Nonché protetti e utilizzati dai servizi segreti, da apparati del ministero dell’Interno e da settori delle forze politiche e di governo italiani. Come esplicitamente teorizzato in un convegno del 1965 (vedi nota 1), l’anno dopo del tentato golpe, cosiddetto “Piano Solo” (vedi nota 2).

Un fatto, questo, acclarato (anche se prontamente rimosso e silenziato). Ammesso persino da un ministro dell’Interno dell’epoca, Paolo Emilio Taviani. Più volte ministro e vicepresidente del Consiglio, tra i più potenti esponenti Dc, Taviani, già “partigiano bianco”, fu tra i padri della struttura occulta Gladio; quando Gladio verrà scoperta, nel 1991, Cossiga lo nominerà prontamente senatore a vita, per metterlo al riparo da possibili incriminazioni.

Ebbene, secondo Taviani (le cui memorie sono state pubblicate solo dopo la morte, avvenuta nel 2001), la strage sul treno Italicus (4 luglio 1974, 12 morti e 48 feriti) vide la responsabilità di agenti alle dipendenze del ministero, sia pure assunti in una fase precedente da un suo collega, il democristiano Restivo. Giulio Andreotti ha commentato così le memorie di Taviani: «Di particolare rilievo è la rievocazione del decreto di scioglimento del gruppo estremista di destra “Ordine Nuovo”, che Taviani adottò in dissenso da Moro. […] C’è però una pagina di Taviani da sottolineare relativa ai servizi deviati. Racconta che, come corollario della liquidazione coatta dei neofascisti, mandò a casa agenti di complemento e confidenti che erano stati assunti nel periodo ministeriale di Restivo. Alcuni di questi divennero schegge impazzite e a essi vengono ricondotti episodi gravissimi, come la strage dell’Italicus» (Giulio Andreotti, Le memorie di Taviani, Editoriale della rivista “30 giorni”, giugno 2002).

Per farla breve: nella storia di questo Paese, il terrorismo è stato prerogativa delle destre e delle forze statali che diedero vita alla strategia della tensione. La quale è un’articolazione della direttiva del generale USA Westmoreland (vedi nota 3) e il cui primo atto fu la strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, che provocò 17 vittime e quasi cento feriti.

Giuseppe Pinelli fu la diciottesima vittima di quella strage (nell’esplosione della Banca morirono 16 persone, ma un ferito deceduto in seguito, portò il totale a 17). In questo senso, sì, fu una vittima del terrorismo, ma del terrorismo di Stato.

La paziente e tenace falsificazione semantica, a decenni di distanza dai fatti, e dalla loro genuina memoria, ha fatto sì che è ormai sedimentata nell’opinione pubblica e nel senso comune l’equiparazione: lotta armata di sinistra = terrorismo; stragismo = terrorismo, dunque stragismo = lotta armata di sinistra. Tanto che numerosi sondaggi e inchieste hanno dimostrato che l’opinione prevalente dei giovani nelle scuole sia che le stragi di piazza Fontana, di piazza della Loggia o della stazione di Bologna siano state opera delle Brigate Rosse. Non ne sono state fatte a livello di popolazione generale, ma sicuramente darebbero analoghi, se non peggiori, risultati.

Viceversa, tra le molle che portarono alla nascita delle organizzazioni armate di sinistra vi fu – non solo ma anche – il contrasto dello stragismo e dei tentativi golpisti e autoritari di cui le stragi furono strumento.

 

2) Seconda tappa

Il secondo, determinante, passaggio è stato il varo della legge 4 maggio 2007, n. 56, promulgata da Napolitano.

La legge ha istituito il «Giorno della memoria, dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice».

E così recita: «La Repubblica riconosce il 9 maggio, anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, quale “Giorno della memoria”, al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice».

Si ribadisce così l’assunto: il terrorismo, la lotta armata e le stragi sono la stessa cosa; il terrorismo è (solo) quello di sinistra, quello che ha ucciso Aldo Moro.

 

3) Terza tappa

Nel suo discorso del 9 maggio 2008, il Capo dello Stato ricorda non solo le vittime del terrorismo e delle stragi, ma «anche le vittime causate da fatti di diversa natura, dal disastro di Ustica all’intrigo delittuoso della Uno Bianca, ai caduti nell’adempimento del loro dovere e ai semplici cittadini, uomini e donne, che hanno perso la vita in torbide circostanze, su cui non sempre si è riusciti a fare pienamente chiarezza e giustizia. Più in generale, mi inchino a tutti i caduti per la Patria, per la libertà e per la legalità democratica, e dunque – come dimenticarle ! – alle tante vittime della mafia e della criminalità organizzata».

Così che, in un’opinione pubblica già resa convinta dalla annosa falsificazione semantica che il terrorismo e le stragi siano state opera delle (sole) organizzazioni armate di sinistra, si radica il messaggio che a quel terrorismo (dunque alle organizzazioni armate di sinistra) sono addebitabili anche le vittime di Ustica (27 giugno 1980, 81 morti a causa della precipitazione di un aereo, che successivamente ha visto alacremente all’opera servizi segreti e militari, italiani e non solo, per depistare e garantire impunità) e quelle dell’Uno bianca (eseguite da una banda di poliziotti, che ha prodotto 24 morti, 102 feriti), nonché le tante vittime delle mafie.

Nella stessa occasione il Capo dello Stato chiede esplicitamente che gli ex terroristi (vale a dire i militanti delle organizzazioni armate di sinistra) stiano zitti e che nessuno offra più «tribune» a «simili figuri».

Un invito perentorio cui tutti i media si allineano.

Da allora non sono più uscite interviste a ex terroristi, se non paradossalmente per fare loro dire che gli ex terroristi debbono stare zitti (sic!).

Così l’intervista di Massimo Numa su “La Stampa” del 25 agosto 2008 al brigatista in semilibertà Francesco Pagani Cesa, a suo tempo “irriducibile”, che ora gestisce un giornale del carcere. Gli chiede il giornalista: «Sul suo giornale non ha mai pensato di recensire libri o film sulle Br? L’ultimo film, il “Sol dell’Avvenire”, tratto dal libro di Alberto Franceschini, ha sollevato polemiche…». Risponde: «Non li recensirei, né, confesso, li andrei a vedere. «Il silenzio, per me, è stato un dovere. […] Sono contrario al “reducismo professionale”, sul modello di Sergio Segio, Adriana Faranda e Susanna Ronconi. […] Nel percorso di alcuni ex brigatisti c’è questa insana voglia di una massima esposizione. Io ho avuto moltissimi inviti a partecipare a trasmissioni tv, a rilasciare interviste e quant’altro. Insomma, riapparire e quindi esistere».

Così anche Rita Algranati, condannata per il sequestro Moro, a lungo latitante e ora in carcere perché arrestata nel 2004 in Egitto. Intervistata da Giovanni Bianconi sul “Corriere della Sera” del 14 ottobre 2008 dichiara: «Il fastidio per il protagonismo di molti ex brigatisti, sinceramente, io lo condivido».

Insomma, l’editto funziona. Assieme agli eventuali «protagonismi» di qualcuno, si inibisce qualsiasi lettura del passato difforme da quella ufficiale e istituzionale. Chiarisce il Capo dello Stato: «Non dovrebbero dimenticare le loro responsabilità morali tutti quanti abbiano contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio e di violenza da cui sono scaturite le peggiori azioni terroristiche, o abbiano offerto al terrorismo motivazioni, attenuanti, coperture e indulgenze fatali».

E, del resto, questo suo discorso, significativamente, è stato allegato agli atti della Commissione del ministero dei Beni culturali che ha convocato le associazioni delle vittime del terrorismo, delle stragi e della mafia (sic!) in un’istruttoria tesa a «porre robusti paletti», vale a dire censurare, il film su Prima linea tratto dal libro “Miccia corta”. Illuminanti, e sconvolgenti in un paese normale, i verbali dell’istruttoria voluta dal ministro Sandro Bondi (cfr. http://www.cinema.beniculturali.it/news/2009/Dossier_la_prima_linea/3all_3.pdf).

Dunque: silenzio, nessuna indulgenza, nessuna motivazione o attenuante. E soprattutto nessun dubbio sulle verità ufficiali, le uniche che possono esprimersi e trovare spazio.

 

4) Quarta tappa

In questi anni, qualcuno aveva flebilmente annotato che parevano esserci «vittime di serie A e vittime di serie B».

Così Lydia Franceschi: «Mi sono chiesta e mi chiedo, soprattutto oggi dopo il 9 maggio, ma il dolore appartiene solo a certe categorie di parenti? Nell’Etica di questo Stato di Diritto noi parenti delle vittime delle forze dell’ordine abbiamo il diritto al riconoscimento del nostro dolore oppure siamo i reietti di questo paese? […] Mai ho sentito ricordare, da coloro che coprono alte cariche istituzionali, i morti di Mussumeli, di Reggio Emilia, delle Fonderie Riunite di Modena, di Avola, di Battipaglia, di Genova o il nome di Ardizzone, Pinelli, Saltarelli, Serantini, Franceschi, Giuseppe Tavecchio, Giannino Zibecchi, Giorgiana Masi, Piero Bruno, Walter Rossi, Pierfrancesco Lorusso…Carlo Giuliani e tantissimi altri giovani che hanno pagato con la vita l’ostinata caparbietà di non volere una democrazia solamente formale […] Questi sono i cittadini italiani di cui non si parla mai o se ne parla per criminalizzarli, facendo di ogni erba un fascio per bollarli e liquidarli come pericolosi sovversivi. ESSI RAPPRESENTANO LA NON-MEMORIA DI QUESTA NAZIONE».

Così Adriano Sofri: «Franco Serantini, senza famiglia, orfano da orfanotrofio. Fu massacrato da poliziotti in strada e in questura, abbandonato a crepare in una cella di isolamento. In che giorno della memoria toccherà a lui?» (Il Foglio, 26 maggio 2007)

E così pochissimi altri.

Ora, con la decisione di invitare Licia Pinelli alla cerimonia del 9 maggio, pare simbolicamente iniziare a colmarsi quella evidente lacuna. E può darsi che questa sia la genuina, e nobile, intenzione di Giorgio Napolitano.

Eppure, per quanto sin qui detto, questo gesto di attenzione diventa obiettivamente una tappa conclusiva di una lettura di quegli anni che, gettando ogni responsabilità sul terrorismo (vale a dire sulle organizzazioni armate di sinistra), contemporaneamente e così facendo assolve (autoassolve) ogni responsabilità istituzionale nella strategia della tensione, che ebbe lo stragismo come suo principale strumento.

Insomma, quegli strateghi e quegli esecutori (pezzi di servizi segreti, Ufficio Affari riservati del Viminale, pezzi di potere politico e di istituzioni): hanno compiuto il delitto perfetto. Non solo si sono garantiti l’impunità, ma hanno fatto in modo che dei loro delitti venisse incolpato qualcun altro, a furor di popolo e di disprezzo pubblico.

Beninteso: i terroristi (vale a dire i militanti delle organizzazioni armate di sinistra), non sono stati innocenti. Tutt’altro.

Le diciassette vittime di piazza Fontana (e delle tante altre stragi, l’unico capitolo impunito dei cosiddetti anni di piombo) sono vittime sì del terrorismo, ma di un terrorismo di Stato (dallo Stato coperto e utilizzato).

E così la diciottesima: Pino Pinelli. Ora, fingendo di onorarlo, ne uccidono anche l’identità e la memoria.

 

Note

Nota 1. 3-5 maggio 1965, convegno sulla guerra rivoluzionaria: L’istituto di studi strategici Alberto Pollio organizza un convegno a Roma, presso l’Hotel Parco dei Principi, finanziato dallo Stato Maggiore dell’esercito. Il tema è quella della “guerra rivoluzionaria”. Presenti magistrati e alte cariche militari, uomini dei servizi segreti ed esponenti dell’ex Repubblica Sociale Italiana, molti neofascisti. Tra i relatori, Guido Giannettini, Pino Rauti, Giorgio Pisanò, Giano Accame, Pio Filippani Banconi. Presenti anche i neofascisti Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino.

Alcuni degli interventi teorizzano anche per l’Italia l’utilizzo delle tattiche della “guerra non ortodossa”, tanto che da più parti questo convegno viene individuato come l’atto di nascita della strategia della tensione.

Nota 2. luglio 1964, Piano Solo: Progetto di svolta autoritaria nel governo politico del Paese perseguito dal comandante dei carabinieri, il generale Giovanni De Lorenzo – a lungo alla direzione del SIFAR, il servizio segreto dell’esercito –, sostenuto dal presidente della Repubblica Antonio Segni, in opposizione all’ipotesi di un governo di centro-sinistra con contenuti sociali avanzati. Il piano era stato messo a punto da De Lorenzo e illustrato a un gruppo di ufficiali già nei primi mesi del 1964. Avrebbe dovuto contare su tre divisioni dei carabinieri per complessivi 30.000 uomini (“Piano Solo”, perché da eseguirsi a opera dei soli carabinieri) che avrebbero assunto il governo dell’ordine pubblico, occupato le prefetture, la RAI, le sedi istituzionali e dei partiti, arrestato e deportato in appositi campi in Sardegna gli oppositori e gli esponenti della sinistra. Le liste di persone di sinistra da “enucleare” derivavano da una massiccia schedatura di 157.000 persone e 40.000 movimenti, organizzazioni, associazioni e gruppi vari, realizzata negli anni precedenti. A capo del nuovo esecutivo sarebbe dovuto andare Cesare Merzagora, presidente del Senato, sostenuto dal mondo industriale e finanziario del Nord d’Italia. Il progetto di colpo di Stato – o di soluzione “gollista” alla crisi in atto, da attuarsi con misure straordinarie di ordine pubblico – rientra a seguito della rinuncia del PSI di Pietro Nenni – che nell’occasione parla di «tintinnare di sciabole» – nel perseguire un programma particolarmente riformatore. Così, dopo le dimissioni del precedente governo rese il 26 giugno, il 26 luglio si costituisce il nuovo esecutivo guidato sempre da Aldo Moro con l’appoggio di DC, PSI, PSDI, PRI. Successivamente, De Lorenzo viene promosso Capo di Stato maggiore dell’esercito. Il Piano Solo diventerà di pubblico dominio solo nel maggio 1967, quando il settimanale “L’espresso” uscì con un articolo così titolato: «Finalmente la verità sul SIFAR. 14 luglio 1964. Complotto al Quirinale. Segni e De Lorenzo preparavano il colpo di Stato». Un mese prima il governo, non senza contrasti interni, aveva destituito De Lorenzo da Capo di Stato maggiore. Non per i progetti golpisti ma per lo scandalo del SIFAR, le schedature illegali da parte del controspionaggio militare a danno non solo delle opposizioni ma dell’intero Parlamento. Schedature che risalivano anche al periodo del governo Tambroni, nel 1959-60, e che venivano utilizzate per scopi di lotta politica e di ricatto.

Il 7 agosto, mentre è a colloquio con Aldo Moro e Giuseppe Saragat, Antonio Segni è vittima di una trombosi.

Nota 3. 1963, Direttiva Westmoreland: Viene emanata dal generale USA William Westmoreland una direttiva che, nel solco della “dottrina Truman” del marzo 1947, dispone la necessità di fermare a ogni costo l’avanzata dei comunisti, anche in Italia, attraverso azioni di terrorismo e infiltrazione ai fini della stabilizzazione politica. Da questa logica nasce poi la strategia della tensione.

Sempre a firma del generale Westmoreland, all’epoca Capo di Stato maggiore dell’esercito statunitense, nel periodo dell’amministrazione Nixon è il Field Manual, del marzo 1970. Si trattava di un documento top secret intitolato “Operazioni di stabilità e Servizi segreti”, contenente la direttiva precisa di “destabilizzare ai fini di stabilizzare” e l’indicazione di come ricorrere a “operazioni speciali” per impedire l’accesso al governo del Partito comunista. Copia del Field Manual verrà poi ritrovata nel luglio del 1981 nel doppiofondo di una valigia in possesso di Maria Grazia Gelli, figlia di Licio Gelli.

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