Quanti Samir dovremo piangere?

Samir si è suicidato non tanto perché le carceri sono sovraffollate o perché i tribunali sono ingolfati ma perché il carcere rappresenta il punto di arrivo dei disperati e punto disperante per eccellenza

Risposta a Adriano Sofri

di SERGIO CUSANI e SERGIO SEGIO


Caro Adriano,
abbiamo letto con la consueta attenzione e affetto il tuo scritto di ieri dal titolo “Il suicidio di Samir che aspettava l’amnistia”. Un racconto bello e triste. Un reportage dolente del popolo del sottosuolo; dolente e competente, ma come vedi, la voce e le proposte di chi il carcere conosce bene da vicino, o come nel nostro caso, dall’interno, vengono in qualche caso ruvidamente respinte e censurate. Al popolo del sottosuolo, fatto di pregiudicati e terroristi, corruttori e corrotti, malfattori e prostitute, tossicomani e immigrati, sieropositivi e pezzenti, tu da sempre dai voce e forza attraverso la tua penna. E te ne siamo veramente grati.
Alla fine del tuo articolo di ieri parli anche di noi e della nostra fatica tesa a far sì che la politica accolga l’invito della Chiesa e di tanti laici, singoli e associazioni, a un atto di clemenza. Nel nostro appello, per un provvedimento non solo di indulto-amnistia, ci siamo rivolti soprattutto a coloro che hanno desiderio, forza e onestà nell’affrontare la complessità dei problemi della vita con ragione e sentimento. Ci inviti ad avere il coraggio di chiedere semplicemente un atto di umanità in occasione dell’avvenimento giubilare. Samir è morto. Si è impiccato. Quanti altri Samir dovremo commemorare se non si affrontano i nodi strutturali relativi alle denegate funzioni dello Stato, quali l’accoglienza dei cittadini stranieri e la cura dei malati sul territorio, e quelli relativi al nostro arcaico, disumano, criminogeno, enormemente costoso circuito penal- penitenziario?
È pur vero che Samir si è suicidato non perché le carceri sono sovraffollate o perché i tribunali sono ingolfati di pratiche che non riescono a smaltire in tempi civili, ma perché il carcere rappresenta il punto di arrivo dei disperati e punto disperante per eccellenza. Molto spesso un punto di non ritorno perché la disperazione dell’emarginazione sociale passa sempre sui cadaveri dei proveri. Ma un atto di pura clemenza, un dono come lo chiami tu, pur assolutamente atteso e giusto, senza il nostro “collegato”, quello che abbiamo chiamato “piccolo piano Marshall” per le carceri, non è sufficiente. È ovvio: libera reclusi e quindi “alleggerisce” i penitenziari. Ma è per poco.
Un giorno hai scritto che la nostra fatica è improba, perché occuparsi dei problemi del carcere è come svuotare il mare con un secchiello. Quindi un’illusione. Ma l’ immagine che più sentiamo addosso è quella di un terreno da dissodare: tanto lavoro preparatorio per metterlo in condizione di essere seminato e di produrre frutti. Samir è morto. Non ci si può accontentare di contare i morti o aspettare che muoiano per contarli, per farne statistica. L’energia per trasformare la realtà è l’energia dell’ emancipazione, della crescita. Questa energia ce la sentiamo dentro. Guardandoci, e sorridendo quando possibile. Intendiamo: con leggerezza, la leggerezza di Calvino che è il contrario della superficialità. La leggerezza di una rondine con il suo peregrinare sì, ma mirato.
Per Samir, per te, per noi e per tutti i poveri di libertà, di occasioni, di fortuna, i privi di tutto. Questo è ciò che ci impegna. Caro Adriano, questo non lo diciamo certo a te, ma c’è chi fa il proprio lavoro cercando di incontrare il punto di vista degli altri, e chi invece fa il proprio lavoro e basta.

 

La Repubblica, 22 giugno 2000

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