Il caso Battisti e il Belpaese della forca

Tutti assieme, appassionatamente. Vecchi democristiani ed ex comunisti. Post fascisti e fascisti in servizio permanente effettivo. Guardie padane, dipietristi e persino socialisti

Tutti assieme, appassionatamente. Vecchi democristiani ed ex comunisti. Post fascisti e fascisti in servizio permanente effettivo. Guardie padane, dipietristi e persino socialisti (che nella prima Repubblica se non altro provavano a ergersi a paladini di una laicità  tollerante, a fronte di machiavellici stalinismi e liberticide politiche dell’emergenza e della fermezza) si sono trovati per una volta – per la prima volta –uniti e concordi. Motivo dell’inedita e santa alleanza? Bastonare il cane già  affogato. Nel caso di specie, l’obiettivo di cotanta mobilitazione (che, data la ressa, ha persino dovuto articolarsi in turni orari differenti nei vocianti presidi davanti ai consolati di diverse città  italiane) è stato quello di spostare dalla transitoria cella brasiliana a una perenne cella italiana Cesare Battisti, già  militante di terza fila e a denominazione di origine non controllata delle organizzazioni armate di sinistra attive negli anni Settanta.

Tutti a ripetere, insaponando la neppure tanto metaforica corda dell’ergastolo, quella pena che neppure tanto tempo fa la sinistra avrebbe voluto abolita: non vogliamo vendetta soltanto giustizia. Ipocrisia già ben collaudata da alcuni dei promotori delle odierne gazzarre contro Lula, usi a dichiarare «non siamo razzisti» mentre aizzano le folle di nerboruti giovinastri ad assaltare campi rom o rifugi di immigrati. Loro sì, professionisti dell’odio e altrettanto impuniti. A differenza del Battisti, comunque fuggiasco e recluso, stanno impuniti e irriducibili negli scranni del governo di un paese altamente democratico, come ben si vede dalle condizioni delle sue galere (e a breve delle sue fabbriche: la Cina, questa volta sì, è vicina).

Opinionisti di destra, di centro e di sinistra (si fa per dire) hanno rapidamente costruito il clima del linciaggio e chiamato alla mobilitazione. Non uno si è posto la domanda sul perché almeno due paesi (prima la Francia e poi il Brasile) hanno seri problemi a consegnare all’Italia persone latitanti per i fatti degli anni Settanta. Anche il Giappone, per la verità, dato che Delfo Zorzi ha potuto (lui però indisturbato) lì vivere e arricchirsi in attesa dell’assoluzione per le stragi che hanno insanguinato l’Italia 30-40 anni fa (i cui responsabili materiali, gli ispiratori e gli “utilizzatori finali” sono gli unici veri impuniti di tutte queste vicende, ma ciò pare non scandalizzare né interrogare né mobilitare nessuno). Del resto, per chi avrà sufficiente pazienza di aspettare, tra poco si arriverà alle assoluzioni postume dei Priebke (già ora editorialisti del Giornale, che si fregiano pure del titolo di storici, arrivano a scrivere al riguardo del boia delle Fosse Ardeatine: «Quest’uccisore di ostaggi m’ispira meno disgusto dei terroristi italiani») o dei torturatori della banda Kock (gli italici torturatori degli anni Settanta sono invece, naturalmente, finiti in Parlamento).

Anche i pochissimi che hanno timidamente – assai timidamente – provato a non unirsi al coro hanno dissertato attorno al dito, Battisti, rinunciando a interrogarsi attorno al problema vero evidenziatosi: ovvero su quanto sia facile costruire il mostro, organizzare la caccia all’uomo e il linciaggio senza alcuna remora e resistenza. Oggi tocca a lui, Battisti che ben (e anche per sua responsabilità) si attaglia alla parte. Domani sicuramente toccherà ad altri, sino a che potrà toccare a chiunque. Giacché le tossine dell’odio e i cattivi sentimenti del revanchismo sono assai poco governabili, quando le si ridesti dagli antri bui.

Come attorno alla Fiat ci si schiera sul referendum e sul marchionnismo, senza porre alcuna domanda su quanto sia ancora plausibile e sostenibile un modello di sviluppo e strategie di uscita dalla crisi tuttora centrate sull’automobile, così sulla vicenda degli anni Settanta ci si limita all’impari tifo attorno a Battisti, senza porsi minimamente dubbi o interrogativi su cos’è davvero successo nel lungo dopoguerra italiano, iniziato nella metà del secolo scorso e terminato negli anni Ottanta e su come si superano le ferite di quel tempo, senza accorgersi che quando l’ergastolo e la gogna diventano valori bipartisan gridati in Parlamento, promossi nelle redazioni e organizzati nelle piazze ci si incammina su di una strada che non consente ritorno.

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