La lunga marcia revisionista dei vinti

25 aprile. In Italia, il «crollo del Muro» è stato l’episodio usato per demonizzare l’antifascismo. E per equiparare i «rossi» ai «neri»

Che il 1989 abbia cam­biato la carta geo­po­li­tica del mondo è accla­rato, al di là dei giu­dizi di merito. Non è altret­tanto evi­dente che quell’evento – il cosid­detto «crollo del Muro», e i sus­se­guenti avve­ni­menti sino allo scio­gli­mento dell’Urss alla fine di dicem­bre 1991 – com­portò con­se­guenze cul­tu­rali rile­vanti, a loro volta foriere di esiti poli­tici. Prima fra tutte, l’ondata revi­sio­ni­stica, che ha attac­cato tutto il plu­ri­se­co­lare ciclo rivo­lu­zio­na­rio, dalla Basti­glia, alla Rivo­lu­zione d’Ottobre, al bien­nio rosso post Grande guerra, sino alla rivo­lu­zione anti­fa­sci­sta, cer­cando siste­ma­ti­ca­mente di svi­lirne il signi­fi­cato prima e poi di ribal­tare il giu­di­zio sto­rico su cia­scuno di que­sti eventi.
Riba­diamo intanto la distin­zione tra revi­sione e revi­sio­ni­smo. La prima è una pra­tica ine­lu­di­bile della ricerca sto­rica, ossia la cor­re­zione, l’aggiunta, l’integrazione sulla base di nuovi docu­menti, o del per­fe­zio­na­mento delle tec­ni­che della ricerca, o, infine, della capa­cità sog­get­tiva dei sin­goli stu­diosi di porre domande nuove; men­tre il revi­sio­ni­smo è un orien­ta­mento cul­tu­rale, che nasce sul ter­reno della sto­rio­gra­fia, si allarga, e, pro­gres­si­va­mente, si tra­sforma in una ideo­lo­gia poli­tica. Se in Fran­cia il revi­sio­ni­smo ha preso di mira soprat­tutto la Grande Révo­lu­tion del 1789, in Ita­lia e Ger­ma­nia, le potenze scon­fitte nella Secondo con­flitto euro­peo, esso ha affron­tato essen­zial­mente il nodo «fasci­smo, anti­fa­sci­smo, Resi­stenza». In Ger­ma­nia Ernst Nolte non attese l’89, aprendo la con­tro­ver­sia sul cosid­detto «pas­sato che non passa», volta a durare a lungo, che, nelle sue inten­zioni, doveva can­cel­lare il senso di colpa dei tede­schi, rove­sciando la frit­tata: la colpa ori­gi­na­ria era dei bol­sce­vi­chi, a cui sem­pli­ce­mente il nazi­smo aveva dato una rispo­sta, per la quale l’Europa tutta doveva espri­mere gra­ti­tu­dine, anzi­ché ripro­va­zione, a Hitler, a dispetto dei suoi «eccessi», con­dan­na­bili, per aver fer­mato il comunismo.

Anche il padre del revi­sio­ni­smo di casa nostra, Renzo De Felice, aveva avviato per tempo il pro­prio cam­mino, fin dal primo volume della sua monu­men­tale bio­gra­fia di Mus­so­lini, a metà degli anni Ses­santa. Da allora fu una corsa in discesa, prima verso il giu­sti­fi­ca­zio­ni­smo, poi verso una vera e pro­pria riva­lu­ta­zione del fasci­smo. Se con­fron­tiamo le due prin­ci­pali ester­na­zioni pub­bli­che dello sto­rico l’Intervista sul fasci­smo, del 1975, e Rosso e nero, del 1995, capiamo bene la fuo­ru­scita del revi­sio­ni­smo, dalla sto­rio­gra­fia alla poli­tica. In quei vent’anni v’è, appunto, lo spar­tiac­que del 1989: il «crollo»; in Ita­lia, la Bolo­gnina. La bat­ta­glia con­tro l’asserita «ege­mo­nia» della sini­stra aveva segnato intanto un primo punto a suo favore con la pub­bli­ca­zione di un’opera impor­tante di uno stu­dioso di fede demo­cra­tica, con un pas­sato par­ti­giano, Clau­dio Pavone, Una guerra civile, che appare nel 1991.

Ben­ché quel grosso volume par­lasse di tre distinte guerre, quella di libe­ra­zione nazio­nale, quella sociale, ossia di classe, e, infine, la guerra civile, fu quest’ultima a can­cel­lare le altre due, con la destra che gon­go­lava: «Noi lo dice­vamo! Fu una guerra civile… Avete dovuto atten­dere che fosse un nome “di sini­stra” a scri­verlo, per cre­derci?». Ovvia­mente l’utilizzo del libro di Pavone si limi­tava pres­so­ché esclu­si­va­mente al titolo, seb­bene l’autore spie­gasse che quello era sol­tanto il sot­to­ti­tolo, men­tre il titolo da lui pro­po­sto all’editore (Bol­lati Borin­ghieri), era Sag­gio sto­rico sulla mora­lità della Resi­stenza. Si trattò comun­que di un’apertura di cre­dito, sia pure invo­lon­ta­ria, verso quell’ambigua espres­sione («guerra civile»), che ha senso fino a un certo punto: era evi­dente, ad esem­pio, che la guerra sociale era anche una guerra civile, e che comun­que enfa­tiz­zare il con­cetto impli­cava l’idea che vi fosse un’equa divi­sione di forze e altresì una equi­pa­ra­bile legit­ti­mità dei com­bat­tenti. Men­tre così non era né sul primo piano, né sul secondo.

L’uso ideo­lo­gico del libro di Pavone pro­dusse effetti diret­ta­mente poli­tici. Luciano Vio­lante, nel discorso di inse­dia­mento alla pre­si­denza della Camera (aprile 1996), accre­ditò i «ragazzi di Salò». Mar­cello Pera, ancor prima di diven­tare pre­si­dente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repub­blica nata dalla Resistenza».

Insomma, a dispetto degli studi rigo­rosi por­tati avanti da sto­rici seri, fu il revi­sio­ni­smo a pre­va­lere, con lavori di seconda o terza mano, e soprat­tutto sui media. Diventò una moda la pole­mica con­tro la «vul­gata anti­fa­sci­sta», insi­stendo sul carat­tere mino­ri­ta­rio dei resi­stenti, sulla distin­zione tra fasci­smo e nazi­smo, e soprat­tutto menando furiosi colpi ai comu­ni­sti ita­liani, col­pe­voli «a prescindere».

Infine comin­cia­rono a cir­co­lare due parole d’ordine: la «morte della patria» (l’8 set­tem­bre ’43) e la «zona gri­gia», dive­nendo pre­sto uno stuc­che­vole man­tra. Se con la prima si dava il colpo deci­sivo allo stesso avvio della Resi­stenza, insi­nuando che la patria vera fosse quella monarco-fascista, con l’altra, la «zona gri­gia», si loda­vano gli ita­liani che non si schie­ra­rono, che ave­vano come unico scopo soprav­vi­vere, indif­fe­renti alla con­tesa tra «rossi» e «neri». I revi­sio­ni­sti distri­bui­rono «equa­mente» torti e ragioni: nasceva la reto­rica della «memo­ria con­di­visa», in nome di una «paci­fi­ca­zione» ade­guata al clima post­co­mu­ni­sta e neoliberale.

Era ormai avviata la con­tro­nar­ra­zione della Resi­stenza. L’antifascismo, tanto più se di matrice comu­ni­sta, era sul banco degli impu­tati. La lotta armata veniva addi­tata come un insieme di azioni inu­tili, quando non addi­rit­tura controproducenti.

Poi, la pole­mica revi­sio­ni­stica inve­stì le «ven­dette» del post-25 aprile. Il sof­fer­marsi sui «cri­mini» dei par­ti­giani (idest, comu­ni­sti), impli­cava una totale disat­ten­zione ai con­te­sti: in Ita­lia, come altrove, all’indomani della fine del con­flitto, vi furono rego­la­menti di conti spie­ga­bili alla luce degli eventi e dei con­te­sti. Invece, ora della lotta par­ti­giana rima­neva sol­tanto il san­gue: quello dei vinti, per ripren­dere il titolo del primo volume di Giam­paolo Pansa, che da allora diede avvio a una saga anti­re­si­sten­ziale; il suo suc­cesso fu una prova della rag­giunta ege­mo­nia del revi­sio­ni­smo, nella sua forma più estrema, il «rove­sci­smo». L’anti-Resistenza divenne un pro­dotto a fini com­mer­ciali, oltre, e forse prima ancora, che poli­tici. Il punto di non ritorno in que­sta vicenda fu l’istituzione, nel marzo 2004 con voto con­di­viso, del «Giorno del ricordo»: la nar­ra­zione delle foibe, divenne il cuore della costru­zione di un senso comune anti­re­si­sten­ziale, anti-antifascista e soprat­tutto anticomunista.

Sba­glie­rebbe a con­si­de­rare tutto ciò un feno­meno ita­liano. E ancor più se pen­sasse che si tratta di mate­riale per la futura sto­ria della cul­tura. Basti uno sguardo all’Europa, dove accanto alla rina­scita di movi­menti poli­tici di destra estrema, o dichia­ra­ta­mente neo­fa­sci­sti e neo­na­zi­sti, abbiamo potuto vedere in que­sti ultimi anni prese di posi­zione isti­tu­zio­nali agghiac­cianti, a par­tire dalle ultime polac­che, che hanno negato addi­rit­tura il ruolo dell’Armata Rossa nella libe­ra­zione del Campo di Ausch­witz; o alla legi­sla­zione unghe­rese che sta non solo «riscri­vendo» la sto­ria del paese, a uso di un’affiliazione ideo­lo­gica al più estremo neo­li­be­ri­smo, ma sta appli­cando misure puni­tive verso coloro che abbiano avuto qual­siasi tipo di con­nes­sione col comu­ni­smo; o, ancora all’Ucraina, dove addi­rit­tura i neo­na­zi­sti sono al potere, accanto a forze «libe­rali», con la con­ni­venza di Usa e Ue, e si vie­tano addi­rit­tura i sim­boli del comu­ni­smo, e imma­gino, pre­sto si riac­cen­de­ranno i roghi dei libri.

Un elenco di mise­rie intel­let­tuali che sono tut­ta­via vit­to­rie poli­ti­che. E tutto ciò, ricor­dia­molo, è anche esito del revi­sio­ni­smo, sca­te­nato, nella sua ultima ver­sione «rove­sci­sta», pre­ci­sa­mente dal crollo del 1989.

Oggi cele­brare il 70° della Libe­ra­zione dovrebbe impli­care forse innanzi tutto l’avvio di una con­trof­fen­siva cul­tu­rale. Vogliamo provarci?

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