La verità sul patto tra neofascisti e servizi deviati

Dai silenzi ai depistaggi,quattro decenni di assoluzioni. Così i magistrati di Milano sono riusciti per la prima volta a provare le responsabilità degli autori della strage

MILANO. Qualcuno dunque è stato. Oppure: qualcuno dunque è Stato, con la S maiuscola. Quarantuno anni dopo, le mani che piazzarono la bomba a piazza della Loggia a Brescia sono visibili, in mostra davanti a tutti. Mani «nere», mani da ergastolo.

Lo stabilisce, per la prima volta, una sentenza. Ed è una sentenza, quella di ieri a Milano, davanti alla seconda corte d’assise d’appello presieduta da Anna Conforti, che potrebbe, con il tempo, diventare storica.
Sin da subito, sin dagli anni Settanta, chi cerca la verità sulle stragi s’imbatte in vari nemici non dichiarati ufficialmente, dall’oscurità dei servizi segreti (allora Sid) alla complessità delle trame sovranazionali. Ma dopo tante assoluzioni, dopo lacrime e contestazioni, dopo l’arroganza che non pochi imputati hanno esibito, ieri la parola «colpevole» viene pronunciata in un’aula di giustizia ed è un inedito nell’Italia spesso senza sanzioni su quanto riguarda la strategia della tensione, aperta ufficialmente con la valigetta al plastico che scoppiò a Milano, nella Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a duecento metri dal Duomo, il 12 dicembre.
Si obietterà che a vedersi precipitare nell’ergastolo, nel «fine pena mai», non sono i protagonisti principali di quell’epoca lontana e insanguinata. Eppure i condannati non sono due comparse. Sono anzi «riassunti » concretamente umani di alcuni di quei mondi impazziti che si scontrarono seminando vittime spesso innocenti.
Uno è Maurizio Tramonte, 64 anni, «fonte Tritone» per l’ufficio Affari Riservati, al quale, nipote di un poliziotto, collaborava come informatore retribuito sin da giovanissimo. È accusato di aver partecipato alle riunioni organizzative della Strage. Sapeva, spiava, ha taciuto.
L’altro è il medico neonafascista Carlo Maria Maggi, ai tempi una sorte di proconsole al Nord di Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo, gruppo messo fuori legge nel 1973. A ottantun’anni, malato, ma non tanto da ottenere ancora sospensioni del processo, Maggi rappresenta l’ingranaggio principale della catena di comando che porterà la gelignite da una trattoria a due passi da piazza San Marco sino a Brescia. Dopo il sangue versato, esortava i camerati: «Brescia non può restare un fatto isolato».
Era il 28 maggio del 1974. Metà mattina, dodici minuti dopo le 10, Cgil Cisl e Uil avevano organizzato a Brescia una manifestazione contro «il rinascere della violenza fascista». Pioveva in piazza della Loggia e aveva preso la parola il sindacalista Franco Castrezzati quando un cestino dei rifiuti si trasformò in un cannone micidiale.
Le indagini andarono sin da subito nella direzione giusta, la destra eversiva. Ma sin da subito anche i depistaggi, una costante del periodo, funzionarono perfettamente: per far sparire indizi e testimoni. Per questo ci sono voluti decenni di calvario per vittime e familiari. Per questo è servita l’astuzia investigativa dell’allora giudice istruttore Guido Salvini, il quale indagando su piazza Fontana riuscì a disseppellire «fonti» d’informazioni preziose e inedite (come Carlo Digilio); e c’è stato bisogno della caparbietà di Maria Grazia Pradella e molti colleghi, come Spataro, e i bresciani Di Martino e Piantoni; tutti magistrati, a dispetto di visioni diverse, che non hanno mai mollato.
Ma, una volta enucleata «la storia», e la veridicità della storia, c’è voluto un sentiero processuale tortuoso per trasformarla in sentenza. La corte d’assise d’appello di Brescia sugli stessi fatti e con gli stessi elementi di prova dopo 167 udienze aveva assolto tutti, ma la Cassazione aveva stracciato quell’insufficienza di prove ritenendola «caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi».
Così la prima udienza del nuovo processo s’è tenuta qui a Milano, il 26 maggio. E al ritmo di quattro udienze a settimana, s’è arrivati al «ribaltone»: questo processo, che Maggi aveva tentato di snobbare come «bolla di sapone», è invece diventato la sua palla di piombo. Certo, altri protagonisti della stagione infernale sono usciti di scena, come Delfo Zorzi, il nazista della provincia veneta diventato Hagen Roi in Giappone. Ma un fatto da ieri esiste: l’amara cantilena delle stragi italiane, il «non ci sono prove », subisce un importante reset in un paese che non ha una memoria storica condivisa.
Difficile, da ieri, far finta di niente rispetto al tentativo che, sotto lo scudo del cardinal Carlo Maria Martini, i gesuiti milanesi e alcuni criminologi portano avanti per aprire un dialogo di verità tra il mondo dei terroristi e quello delle vittime. E non sembra un caso, a proposito, che mentre brigatisti e «rossi» abbiano cominciato a rileggere e rimasticare gli anni di piombo, da destra pochissime voci si sono levate verso una riconciliazione: troppi misteri, troppi segreti. E troppi «patti del diavolo», vigenti ancora oggi.

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