La scomparsa di Ernst Nolte, l’esponente più noto del «revisionismo storico». La fortuna editoriale e di pubblico fu data dalla lettura dell’ascesa hitleriana come reazione alla «barbarie asiatica» rappresentata dal comunismo
La scomparsa a 93 anni di Ernst Nolte segna l’uscita di scena di uno dei protagonisti più controversi del cosiddetto revisionismo storico: in qualche misura del suo interprete più originale e autentico, noto anche al grande pubblico.
Un destino che non sembrava profilarsi nel primo studio che gli diede notorietà, il libro del 1963 su I tre volti del fascismo (che erano fascismo, nazismo e Action Francaise), dal taglio assai più filosofico che storico, nel linguaggio come nella problematica (e con una totale indifferenza per la dimensione economica e sociale). Ci sono in quel testo elementi destinati a permanere, come notava nel 1964 Enzo Collotti: se il fascismo veniva inteso come una filiazione del marxismo, anche i suoi esiti estremi si sarebbero potuti imputare al comunismo. Ma per la verità venivano operate allora nette distinzioni tra nazismo e comunismo, come tra i rispettivi sistemi concentrazionari. C’era molta cautela nell’uso del termine «totalitarismo», che anzi veniva criticato perché sommergeva e banalizzava il fenomeno fascista, impedendo la ricerca di una sua «teoria generale».
LA DISPUTA DEGLI STORICI
Col passare del tempo Nolte mutava gran parte dei suoi postulati, e l’urgenza più evidente della sua ricerca appariva quella di sganciare la coscienza della nazione tedesca dal «passato che non voleva passare», ossia da quella sia pur tardiva accettazione delle responsabilità collettive di fronte al passato nazista che con grande difficoltà si era affermata alla fine degli anni Sessanta. La fortuna di Nolte si legherà per molti anni all’emergere di una insofferenza diffusa verso quel legame, nei termini di una ricerca assolutoria assai più che di una storicizzazione.
Nel giugno 1986 il suo articolo sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung« segnava l’avvio della cosiddetta «Historikerstreit« (disputa tra gli storici) che vedeva schierarsi su posizioni conflittuali Hillgruber da un lato e soprattutto Habermas dall’altro.
Lontano dal negazionismo, sarà incline a un pesante giustificazionismo che non scivolerà mai esplicitamente in una tendenza apologetica ma che attraverso una serie di parallelismi e di concatenazioni assertive tenterà di configurare il nazismo come risposta difensiva alla minaccia comunista, che costituirebbe il «prius logico e fattuale» di tutta la vicenda hitleriana.
Siamo nella dimensione della «guerra civile internazionale» (concetto che avrebbe conosciuto ben altra fortuna e dignità nell’opera di molti altri storici, tra i quali ricordiamo almeno Enzo Traverso) ma che viene meccanicamente trasposta in un gioco di rimandi spesso forzati e cervellotici. Così la guerra di razze è una risposta alla guerra di classe, il lager è risposta al gulag, la volontà di annientamento dei nemici è risposta alla «barbarie asiatica» dei bolscevichi, lo sterminio degli ebrei discende necessariamente dalla presenza predominante della componente ebraica nel comunismo.
La formulazione più compiuta di queste tesi si avrà nel libro La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo del 1987, edito in Italia due anni dopo da Sansoni con ampia introduzione critica di Gian Enrico Rusconi. L’analisi più convincente delle tesi di Nolte si può leggere in Pier Paolo Poggio, Nazismo e revisionismo storico (manifestolibri, 1977).
In seguito Nolte modificherà numerosi elementi delle sue teorie, a volte producendo bizzarrie concettuali: si veda l’autocritica sulla presenza ebraica nel comunismo, che dirà di avere riveduto e attenuato perché «i più recenti studi» avevano mostrato una presenza trascurabile dell’elemento ebraico nel comunismo cinese (e forse non c’era bisogno di attendere gli studi più aggiornati).
Ma proprio la questione ebraica finirà per alienare i favori che erano giunti in forma cospicua alla figura di Nolte da parte di un vasto fronte che aveva individuato nelle sue tesi la punta di lancia di un’offensiva «revisionista» apparsa a lungo egemone. L’antisemitismo sostanziale di Nolte finiva per emergere in forma esplicita e non più latente.
ANTICONFORMISMO POSTICCIO
Nel 2003 «Repubblica» curava un faccia a faccia tra Nolte e Marcello Pera, allora presidente del Senato, che assisteva attonito e contrariato a pronunciamenti antiamericani del suo idolo (in termini di odio per hamburger, Coca-Cola e lobby ebraica), alla equiparazione di Israele al nazismo, alla minimizzazione e relativizzazione della Shoah e a parallelismi avventurosi tra Gaza e Auschwitz. «Lei è considerato un uomo di destra. Ma in lei sento l’eco della sinistra europea». «Nel ’63 ero considerato un uomo di sinistra. Forse sono tornato alle mie origini». «Oppure c’è una radice identica nel pensiero di destra e di sinistra». «Sì, non credo che la divisione tra destra e sinistra sia definitiva. E io ho sempre teso alla sintesi».
L’ultimo Nolte, in versione «rossobruna», diventava inservibile e il suo nome scompariva lentamente dalle evocazioni dei tanti house organ del revisionismo occidentalista.
È facile prevedere che Nolte resterà nella storia essenzialmente per il ruolo esercitato in un momento delicatissimo e cruciale della coscienza inquieta della nazione tedesca, vera e propria cartina di tornasole rispetto al disagio crescente di molti tedeschi rispetto a una contrizione forse non autentica e interiorizzata ma vissuta come imposizione esterna. È difficile che resti molto della sua opera di storico, in termini vitali e capaci di fare da stimolo a riflessioni realmente «anticonformiste».
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