Il Narodni Dom tornerà alla comunità slovena di Trieste, ma la memoria resta divisa

La restituzione alla comunità slovena del Narodni Dom – la Casa degli Slavi data alle fiamme il 13 luglio 1920 dai fascio di combattimento triestini – resta sottotraccia in una giornata di cerimonie frettolose e propagandistiche

TRIESTE. Cerimonia blindata. Due corone da deporre, nessun discorso, la firma di un protocollo, ammesse solo Rai Quirinale e una TV slovena. Lunedì il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il suo omologo sloveno Borut Pahor saranno a Trieste per una giornata che poteva essere di festa e invece si svolge con il coprifuoco. Dopo cento anni esatti, e in forza di una legge di dieci anni fa, il Narodni Dom tornerà alla comunità slovena di Trieste. La Casa degli Slavi (sloveni, croati, cechi) era stata data alle fiamme il 13 luglio 1920, assaltata da un centinaio di facinorosi guidati da Francesco Giunta, segretario del fascio di combattimento triestino. Quella stessa sera altre decine di appartamenti, studi, banche, scuole, negozi, osterie, fuono assaliti dalle squadracce: pestaggi, fiamme, distruzione.

Per gli sloveni di Trieste è rimasta nella memoria come la loro “notte dei cristalli” anche se incendi e pestaggi erano cominciati già nell’estate del 1919. L’immenso rogo del Narodni Dom è rimasto il simbolo drammatico della ferocia nazionalista che si scagliò con inusitata violenza contro le presenze “straniere” in città. Trieste “redenta” non poteva e non voleva ammettere di essere abitata da diverse etnie e di avere accettato per due secoli il mescolarsi di tante lingue, religioni, culture; il nascente fascismo di frontiera fomentava le piazze.

Mattarella e Pahor verranno a siglare una dichiarazione di intenti per la restituzione dell’edificio alla comunità slovena locale, nulla di più, ma comunque un passo concreto che gli sloveni di Trieste aspettavano da anni ed erano pronti ad accogliere con gioia. Ma la festa non ci sarà. Accordi ricattatori e veti incrociati tra forze politiche delle due Repubbliche, hanno saputo trasformare la giornata nell’ennesima occasione perduta di vera riconciliazione.

Per prima cosa si andrà a Basovizza per rendere omaggio ai martiri delle foibe. Ogni visita alla foiba ripropone alla comunità slovena della Venezia Giulia – e non solo – la narrazione di fantomatiche stragi volute e perpetrate dagli jugoslavi contro gli italiani; spiace che Mattarella continui su quella traccia dopo che, non più tardi del 10 febbraio scorso (“giorno del ricordo”) aveva parlato di “eccidi efferati di massa” giungendo a criticare certi “negazionismi militanti”.

Le autorità italiane non hanno mai voluto indagare dentro il pozzo di miniera di Basovizza, impropriamente chiamato foiba, per verificare e identificare eventuali resti umani. Nell’estate del 1945 lo fecero gli alleati anglo-americani ed estrassero cadaveri di soldati tedeschi, carogne di cavalli ed il corpo di un aguzzino della Banda Collotti. In seguito il Comune di Trieste e gli stessi eserciti alleati ne fecero una discarica, parzialmente svuotata da una ditta di recupero di metalli. Non si è mai voluto documentare quello che c’è davvero nella foiba ma si sono imbastiti comizi a tutto vantaggio della destra revanscista: una stesa di cemento a tappare, tanta retorica nazionalista e una giornata ogni anno per continuare a tacere degli orrori commessi dagli italiani nei paesi occupati e rinfocolare l’immagine dello slavo comunista infoibatore.

Il Presidente Borut Pahor, primo Presidente di un paese ex jugoslavo a rendere omaggio alla foiba di Basovizza, è certamente tirato per la giacca dall’attuale governo sloveno di estrema destra che promuove l’identificazione tra antifascismo e terrorismo.

Luglio 1929, resti del Narodni Dom

In Slovenia il clima è teso: da mesi, l’opposizione al governo di destra è costantemente in piazza. Ogni venerdì a Lubiana e in altre città, gruppi numerosi di giovani si riuniscono, o sfilano in bicicletta, con parole d’ordine antifasciste. Anche venerdì scorso la piazza antistante il Parlamento sloveno era gremita ma i cartelli e gli slogan stavolta contestavano il Presidente e la sua visita alla foiba: “Pahor, la visita alla foiba di Basovizza significa inchinarsi al fascismo”. Da Trieste, in queste settimane, in molti, intellettuali e associazioni slovene, sono andati da Borut Pahor per dirgli che il suo omaggio alla foiba è uno schiaffo alla minoranza slovena in Italia ma anche a tutta la lotta di liberazione, oltreché un piegarsi alle falsificazioni storiche. Molte le lettere inviate ai giornali, un misto di rabbia e di amarezza. Qualcuno più timidamente; d’altra parte, dietro i buoni rapporti italo-sloveni e la tutela delle minoranze, da entrambe le parti, ci sono anche finanziamenti e posti di lavoro.

Polemiche e proteste. Non poteva restare, dunque, la sola visita alla foiba e così ci sarà un’altra corona di fiori ma “dall’altra parte”: a Basovizza, un chilometro in linea d’aria dalla foiba, c’è un monumento dedicato a quattro ragazzi, tre sloveni triestini e un croato, fucilati nel 1930 su  sentenza del Tribunale speciale fascista nella sua prima trasferta a Trieste. Fucilati di nascosto, i loro corpi rintracciati solo nel 1945. Di questi antifascisti si parlò in tutta Europa perché erano le prime vittime della violenza fascista ma in Italia non si conoscono nonostante il loro legame, per esempio, con il gruppo di Giustizia e Libertà dei fratelli Rosselli. La loro condanna per “terrorismo” non è mai stata annullata: sarebbe un bel gesto se Mattarella cogliesse l’occasione per conoscere la loro storia e cancellare quel marchio infamante ma pare proprio una speranza vana.

Il Presidente della Regione, il leghista Fedriga, ha dichiarato che la sua presenza al monumento dei quattro fucilati sarà un puro atto di “educazione istituzionale”, il Sindaco ha parlato di una scelta “per far contenti gli sloveni e così poi mettiamo una pietra tombale su tutte le beghe del ‘900”. Casa Pound, intanto, ha ricominciato ad affiggere manifesti antislavi e anticomunisti, l’estrema destra ha manifestato in piazza contestando la restituzione del Narodni Dom, vandalizzati molti monumenti che, in ogni più piccola frazione del Carso, ricordano i partigiani del luogo uccisi dai fascisti.

Ancora un’ultima tappa: consegna di onorificenze allo scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor, 107 anni, testimone dell’incendio del Narodni Dom che poi aderì alla resistenza slovena, fu arrestato dalla Gestapo ed inviato in un lager nazista, i suoi libri tradotti e conosciuti nel mondo. Dalla sua casa in un paese del Carso a picco sul mare, saputo del riconoscimento dei due Presidenti ha dichiarato: “Dedico le decorazioni a tutti i morti, a tutti quelli di cui ho scritto, a partire dai quattro eroi di Basovizza e da Lojze Bratuž (ucciso dai fascisti nel 1937, non olio di ricino ma olio di macchina e benzolo, colpevole di avere diretto il coro in sloveno durante la messa di Natale, ndr)”. La restituzione ai legittimi proprietari del Narodni Dom, dunque, resta molto sottotraccia in una giornata di cerimonie frettolose e sostanzialmente propagandistiche che suonano molto ”fascisti e antifascisti pari sono”.

Amaro il commento di Stojan Spetič, già senatore del PCI: “non va mai dimenticato che non siamo all’anno zero della nostra storia. I nostri popoli sono stati uniti dal sangue dei partigiani italiani, sloveni e croati versato nella comune lotta per la libertà. Lottarono insieme i partigiani del IX Korpus con i garibaldini friulani, l’Intendenza Montes, la “Fratellanza” sopra Fiume, il battaglione “Tito” di sloveni fuggiti dal carcere di Spoleto unitisi alla Resistenza italiana in Umbria… E tanti singoli. Per citarne uno solo: Anton Ukmar (Miro), sloveno di Prosecco, dirigente nazionale del PCI, animatore della resistenza antifascista in Abissinia, poi combattente in Spagna, maquì in Francia, comandante garibaldino nell’Oltrepò pavese ed infine liberatore di Genova. Sono queste le fondamenta dell’amicizia e della conciliazione, cemento di pace tra i popoli vicini”

* Fonte: Marinella Salvi, il manifesto

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