Ho sempre avuto un deciso fastidio per le polemiche tra «ex» e per l´autolesionistica propensione alla rissosità, così radicata nel DNA della sinistra. D´altro canto, dalle calunnie bisogna pur difendersi. Specie se sono gratuite e non episodiche. Persichetti, in un´intervista sulla Stampa del 25 settembre, dimostra e conferma di essere un calunniatore professionale. Anche ora, dalle carceri italiane, mantiene una pigra continuità con la pratica di quella esigua parte di fuoriusciti soggiornanti a Parigi che, nel corso degli anni, ha fatto della maldicenza e dell´insulto lo strumento preferito della battaglia politica. Nulla di nuovo: è l´onda lunga e triste dello stalinismo. Per anni, nel pozzo nero delle carceri e dei «braccetti» speciali sottoposti al famigerato articolo 90, abbiamo dovuto sopportare il venticello della calunnia e del rancore che arrivava da alcuni bistrot parigini. Certo, a opera solo di una minoranza dei fuoriusciti a Parigi, secondo il noto motto: calunnia, calunnia, qualcosa resterà.
L’accusa che viene rivolta a me e ad altri, ma con ancora maggiore livore a Toni Negri, era ed è che «l’invenzione del concetto della dissociazione e della “delegittimazione dall´interno” della sovversione politica ha fornito – a partire dai primi anni 80 – un contributo molto più decisivo ed efficace di Sofri, e altri dirigenti di LC, come Marco Boato ed Enrico Deaglio, nella lotta contro la sovversione politica e la lotta armata in Italia» (cfr. il libro Il nemico inconfessabile, di Persichetti e Scalzone).
Chi in quegli anni nelle carceri italiane portava avanti il movimento della dissociazione era un traditore, al servizio di uno stato per giunta assai poco riconoscente: «Il trattamento restrittivo e vendicativo che gli [a Toni Negri ] è stato riservato dopo il rientro in Italia e la sua costituzione alla giustizia nel luglio 1997, mostra una mancanza di gratitudine da parte dello Stato italiano assai notevole» continuano ironici gli autori del testo citato.
È forte il fastidio di vedere questo livore e disprezzo rivolto a chi, come Adriano Sofri ma come lo stesso Negri, sono in carcere da tempo con una dignità, senso della responsabilità e onestà intellettuale ammirevoli ed evidentemente – letteralmente – incomprensibili a Persichetti e Scalzone. Beninteso: io non sono un sostenitore delle virtù della pena e del carcere. Tutt´altro. Penso che il carcere sia una violenza non necessaria, sempre avvilente e spesso feroce; da tempo sono impegnato anche nel volontariato penitenziario e da anni porto avanti una battaglia per provvedimenti di amnistia e indulto rivolti a tutti i reclusi. Sono però assertore del senso di responsabilità politica, che è cosa assai diversa (ben più alta e più impegnativa) di quella giuridica, e del coraggio dell´autocritica e della revisione.
Facoltà queste ultime (autocritica e revisione delle analisi) che Scalzone ammette per sé, ma evidentemente nega agli altri. Detto ciò, mi pare francamente paradossale che tali accuse e contumelie arrivino da coloro che, nella logica dei movimenti rivoluzionari (e specie se si assume che negli anni 70 in Italia ci fu una sorta di «guerra civile», come alcuni sostengono), sono da considerarsi dei disertori. Uso questo termine in senso puramente tecnico e fattuale, non certo come insulto, avendo (non in questo caso, ma certo in generale) un´alta considerazione di chi si sottrae alla logica della guerra, di classe, di religione o d´Impero che sia. Per dirla con la Cassandra di Christa Wolf: «Tra morire e uccidere, c´è una terza possibilità: vivere». Dunque, ben vengano i «disertori», purché non si arroghino in seguito il ruolo dei giudici e dei censori dei comportamenti, delle scelte e della moralità dei prigionieri.
La mia e nostra scelta nelle carceri fu, appunto, un faticoso e doloroso percorso collettivo di ricerca di una «terza via», di una diversa soluzione rispetto alle diserzioni individuali, al cannibalismo dei «pentiti», al continuismo acefalo degli «irriducibili» e all´opportunismo dei «silenti», poi lesti, come i crumiri in fabbrica, nel fruire delle conquiste collettive, legge sulla dissociazione o «Gozzini» che sia. Fu un percorso di desistenza collettiva e condivisa, nel senso proprio di decisa assieme, in assemblea: e questa mi pare differenza non da poco rispetto alla logica di sopravvivenza, di trattativa o diserzione individuale. E non perché abbia una moralità superiore, ma in quanto ha valore politico. E questo, ad esempio, è anche il motivo per cui oggi nessuno può sognarsi di riesumare la sigla di Prima Linea per compiere omicidi, a differenza di quanto avviene per le BR. Viceversa, il fatto che le BR non abbiano compiuto percorsi analoghi, collettivi e pubblici, contribuisce a far sì che qualcuno, oggi, si senta legittimato a usare quel «logo» per uccidere Biagi e D´Antona.
Questo è il punto: la rottura di continuità, pubblica e politica, la proposta di una diversa «Linea di condotta»; che è cosa diversa dal proprio certificato penale. Questo è quanto Scalzone finge di non sapere o effettivamente non capisce.
Del resto, il nostro percorso carcerario e politico fu fortemente e lungamente osteggiato dai magistrati dell´emergenza antiterrorismo – chi si ricorda della «lobby dei 36» –
i 36 magistrati che espressero perplessità sulla dissociazione di Segio e altri, ndr – , nonché dall’apparato penitenziario. Non a caso: perché toglieva spazio e credibilità sia ai «pentiti» sia al continuismo «irriducibile» o «silenzioso» che, a sua volta, veniva usato per legittimare e perpetuare all’infinito la logica dell´emergenza e del sostanzialismo giuridico. Ma sicuramente gli avversatori più tenacemente rancorosi, aggressivi e sleali furono alcuni dei «parigini» e, in carcere, i «pentiti di essersi pentiti», ovvero quei militanti che avendo collaborato coi giudici e magari fatto arrestare i loro compagni, poi si «pentirono» di tale scelta e divennero i più implacabili fustigatori di ogni vero o supposto cedimento da parte di altri militanti incarcerati. Un percorso, quello della dissociazione, che portò infine a una legge: brutta per alcuni aspetti, ma che in ogni modo si tradusse in una sorta di indulto, che consentì l´uscita progressiva e anticipata dal carcere di migliaia di persone, a cominciare dai tantissimi giovani con scarse responsabilità penali ma gravati da condanne esorbitanti, appunto per le logiche e le leggi dell´emergenza (la «legge Cossiga» in primo luogo).
Questo io chiamo responsabilità: chi si è arrogato, o comunque obiettivamente ha avuto, un ruolo trainante nella radicalizzazione violenta del conflitto e nella scelta delle armi, a sconfitta avvenuta, après le déluge come ama dire Scalzone, non può decretare l´«ognuno per sé» o rivendicare e giustificare il «diritto al silenzio». Nemmeno può fingere che tutto ciò sia stato una specie di laboratorio politico, una semplice rappresentazione in vitro del conflitto: perché è stata carne e sangue, morte e carcere. E di questo bisogna dare conto ed evitare che si ripeta. Non il conflitto, beninteso: la morte e il carcere.
Proprio pochi giorni fa, Toni Negri ha rivelato a “Le Monde” il tentativo dei brigatisti di ucciderlo durante la sua prima detenzione. Lo stesso successe a me e ad altri nelle carceri speciali, quando istruimmo il percorso politico della dissociazione. Un movimento e un percorso, lo ripeto, collettivo; tanto che, sono costretti a riconoscere gli stessi Persichetti e Scalzone, coinvolse la «quasi totalità di Prima linea», nonché molti altri gruppi minori, pezzi dell´Autonomia e del movimento e tanti singoli, anche delle BR. Percorso politico, dunque. Che è cosa ben diversa dal «firmare lettere di dissociazione», come dice Scalzone.
Percorso politico significa conflitto e mediazione. E questo è stato. Perché l´indulto e l´amnistia, le soluzioni di libertà non basta invocarle. E tanto più dai bistrot o solo per sé. Bisogna contribuire politicamente a renderle possibili. Anche assumendo le responsabilità politiche che competono a ciascuno, in misura maggiore o minore a seconda delle scelte compiute ma anche dei ruoli avuti. A questo argomento, Scalzone usa eccepire che non gli vengono contestati omicidi o reati di sangue. In sostanza rivendica quell´innocenza «che attiene al casellario giudiziario» e che lui stesso definì «meschina» qualche lustro fa (in Synopsis, numero speciale del 24 marzo 1984). In ciò mostrando una cocciuta indisponibilità a considerare (a comprendere?) il concetto di responsabilità politica, e non solo penale, rispetto a quegli anni e quegli avvenimenti.
Su “La Stampa” Persichetti cita Kundera, peraltro con la medesima frase che apre un capitolo del libro scritto con Scalzone. A entrambi, propongo allora questo brano dello stesso autore: «Il muro dietro il quale erano imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti a quel muro si danzava. Ah no, non una danza macabra. Lì danzava l´innocenza! L´innocenza col suo sorriso insanguinato» (Milan Kundera, La vita è altrove).
È l´innocenza, meschina appunto, non la poesia che ha danzato in questi anni fuori da quelle mura dietro e dentro di cui noi, uomini e donne imprigionati per la sanguinosa utopia cui abbiamo partecipato, vivevamo, morivamo e intanto costruivamo percorsi autocritici, collettivi e dignitosi di libertà e di futuro, prospettive di nuovo impegno sociale in cui, in effetti e per davvero, ora molti di noi sono collocati e attivi. Infine, e tornando ai veleni di Persichetti («Segio ha dimostrato solo di avere ancora molte cambiali da pagare per la sua libertà. Mi ricorda una frase di Kundera rivolta a coloro che per un po´ di futuro hanno venduto il loro passato», «Segio, reo confesso di numerosi omicidi, è in libertà»): vorrei tranquillizzarlo. Non ho sottoscritto alcuna cambiale, sono abituato a pagare sempre i miei debiti (e talvolta anche quelli non miei), ma in contanti, di persona e senza elemosinare sconti. Sono ancora sottoposto a misure di restrizione della libertà, pur se dopo 20 anni di carcere la mia condanna sta quasi finendo. So che i tribunali e le carceri del popolo brigatiste hanno pene più severe, ma grazie al cielo non sono sottoposto alla loro giurisdizione. |
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