ALEXANDER LANGER nacque nel 1946 a Vipiteno, Alto Adige, che sono i nomi italiani di Sterzing, Sud Tirolo. Sua madre era erede di una dinastia di farmacisti del paese. Suo padre un medico viennese di origine ebraica. Negli anni della persecuzione si erano rifugiati in Toscana: scamparono a un’irruzione di fascisti, e riuscirono fortunosamente a riparare in Svizzera. Alexander fu il primo di tre fratelli. Negli anni di scuola, studente brillante, si fece cattolico “autodidatta”. La sua era una famiglia prestigiosa, e Alex scelse di rendersene indipendente, rinunciando alla sua eredità, ma il legame fu sempre fortissimo. Quando Alex introdusse me e Randi, la mia compagna, a sua madre, nella casa avita di Sterzing, era emozionato come per una cerimonia. Prima, nelle cartoline spedite da Vipiteno (Alex era un leggendario scrittore di cartoline illustrate) i saluti materni erano firmati “Elisabeth”; dopo, “Lilli”. Negli anni rivoluzionisti avevo avuto con lui una confidenza forte ma frettolosa. Non sapevo molto: la traversata a nuoto del Garda per festeggiare la maturità, eternata dal quotidiano locale. E la conoscenza con don Milani. A Barbiana, il curato gli aveva intimato, se davvero gli interessavano gli ultimi, di lasciare l’università. Alex si persuase che don Lorenzo fosse un santo, a suo modo, e però pensò che si è santi solo a proprio modo. Prese la sua seconda laurea, però fu lui poi a tradurre in tedesco la
Lettera a una professoressa .
Insomma, i nostri rapporti si fecero più stretti dopo. Per me, lo scioglimento di LC (1976) aveva significato una dimissione brusca da un’esistenza e una responsabilità collettiva. Per lui era diverso: l’avrebbe sentita come una diserzione, era deciso a proteggere un impegno collettivo ora rianimato della rivelazione ecologista. Rifiutavamo ambedue la “riconversione” ecologica, che era come un fare finta di niente, un aggiungere al classismo un po’ di femminismo e un po’ di attenzione verde: il cambiamento doveva essere una metanoia, una vera “conversione”. Io ci arrivavo rivendicando la nobiltà del pentimento, riscattata all’abuso che si faceva del nome di “pentiti”: la sconfessione del maschilismo, la scoperta di una storia naturale dirottata dalla storia umana, il disincanto dalle sorti progressive per un disarmo ragionato — «quel che non siamo più, quel che non vogliamo più ». Alex, della “conversione ecologica” — quella invocata dall’enciclica di Francesco — fu il portabandiera, anche grazie al legame con i Gruenen, una delle sue prove di traduttore e traghettatore. Da allora, la differenza — lui impegnato a tessere le fila di un movimento, io distante dall’impegno collettivo — avrebbe segnato altre esperienze comuni. Veniva a tirarmi fuori dalla mia campagna — a pochi minuti dalla casa fiorentina di Valeria e sua — sostenendo di aver bisogno di aiuto. Fu così nel 1987, quando una sua approvazione dell’allora cardinale Ratzinger contro le manipolazioni genetiche intitolata «Cara Rossanda, e se Ratzinger avesse qualche ragione? » sollevò uno scandalo. Ci fu un acceso dibattito a Roma, Alex volle smorzare la polemica, io gli feci da avvocato. Ricordo con nostalgia la serata e gli interlocutori: Giovanni Berlinguer, Rossana Rossanda, Ida Dominijanni, e noi due. Qualcosa di simile, su una scala avventurosa, successe nel 1982. Gheddafi aveva visitato Vienna e incontrato un gruppo di esponenti verdi. Aveva monologato di essere il vero profeta ecologista, tant’è vero che il suo manuale si intitolava “Libro verde” — il colore dell’islam, ma Gheddafi sapeva essere duttile. Li invitò a Tripoli, qualcuno mostrò un vero entusiasmo, Alex ne fu preoccupato. Mi chiese di unirmi alla comitiva e di aiutarlo a limitare i danni. Che potevano traboccare: alcuni dei nostri arrivarono a proporsi come scudi umani contro una portaerei americana. I giorni passavano, gli agenti libici venivano a dirci: «No program today», io e Alex li avevamo ribattezzati “No pogrom today”. I membri realisti della delegazione, come Otto Schily, poi ministro dell’interno con Schroeder, disperavano di esser mai più dissequestrati. Ci furono due nottate surreali di udienze con Gheddafi — l’ho raccontato a suo tempo. Alex mi invidiava la libertà con la quale trattavo i compagni di viaggio; lui, come sempre, si sentiva più responsabile e dunque addolorato di rompere con loro. Questa differenza continuò drammaticamente lungo la guerra ex-jugoslava. Ne fummo assidui, io non dovendo render conto a nessuno se non a me stesso, e invocando strenuamente un intervento che mettesse fine alla strage e all’infamia della comunità internazionale, a partire dall’Europa. Alex aveva percorso la Jugoslavia che andava in pezzi, prodigandosi per la conciliazione, e poi, una volta che il peggio si compì, per figurare una convivenza all’indomani del massacro. Che intanto continuava, e Alex si persuase che il rifiuto di distinguere fra aggressori e aggrediti e di rivendicare un’azione di polizia internazionale rendesse i pacifisti complici della strage. Aveva già detto che l’inerzia internazionale era colpevole, ma con parole smussate per non dare scandalo alla comunità cui voleva appartenere. La misura fu colma nel maggio 1995, quando una bomba fece strage di 71 liceali che festeggiavano il diploma in un bar di Tuzla. Tuzla era la città prediletta di Alex, la più attaccata alla convivenza, e il suo sindaco, Selim Beslagic, era diventato suo amico. Beslagic gli scrisse: «Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici». Alex incontrò a Cannes Chirac, che presiedeva un vertice europeo, e gli chiese il soccorso di una forza internazionale. Chirac, dal momento che alla vita piace scherzare, gli spiegò che la pace era il bene supremo. Pochi giorni dopo, Alex si impiccò in un frutteto sopra Firenze. Non ha senso dire che Alex si sia suicidato “per la Bosnia”, o per alcuna altra ragione. Però si può dire per che cosa è vissuto. Ancora pochi giorni, e avvenne lo sterminio di Srebrenica. Alex non ha saputo. Ma pochi giorni fa mi hanno presentato ai ragazzi di Srebrenica impegnati per la convivenza come “prijatel”, l’amico, di Alex. Mi hanno guardato con invidia.
Alex era molto serio, molto rigoroso. Troppo, se volete. Ma era anche spiritoso, allegro, ironico e generoso. D’estate io e Randi andavamo in Norvegia, eravamo poveri, avevamo un maggiolino Volkswagen, per risparmiare facevamo tappa a Bolzano, da Alex, e poi cercavamo di fare una sola tirata — io non ho mai guidato. Un anno Alex decise sui due piedi di accompagnarci per alleviare la fatica.
Attraversammo l’intera Germania: guidava, e mi dava lezione di tedesco. Quando arrivammo, esausti, al nostro fiordo, Alex, che aveva come sempre un impegno urgente, proseguì per Oslo, prese un traghetto e ritornò in Germania. Prima di imbarcarsi, spedì un certo numero di cartoline illustrate dalla Norvegia.
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