Una volta, dopo averlo chiamato al telefono per chiedergli qualcosa, che non ricordo più, sulle sue vicende giudiziarie, mi sentii rispondere da Adriano Sofri : “ Pronto? Parla il caso Sofri ”
Una volta, dopo averlo chiamato al telefono per chiedergli qualcosa, che non ricordo più, sulle sue vicende giudiziarie, mi sentii rispondere da Adriano Sofri : “ Pronto? Parla il caso Sofri ”. Amarissima ironia su un destino che prosegue. Qui si propongono alcune note a margine sull’ultima puntata, di cui si poteva ben fare l’economia, del “caso”. In particolare sul significato che alcuni, non tutti si spera ma nemmeno pochi, attribuiscono a parole e concetti di largo uso. Per esempio, se un processo, oltre il primo grado, si celebra tre volte in appello e altre tre in cassazione e i sette giudizi sono i più vari e contraddittori, quando la pallina, dopo i suoi sette giri si ferma nella casella dove c’è scritto “condanna”, quel risultato deve pomposamente chiamarsi “verità giudiziaria”. Se un condannato sconta la sua pena detentiva interamente, ma in parte agli arresti domiciliari, si potrà impunemente dire che non ha scontato tutta la sua pena. Ci vogliono le sbarre e il cesso alla turca, se no non vale. Se un condannato, espiata la pena, viene chiamato a parlare di carcere, i parenti delle vittime vengono offese. Se dei sindacalisti applaudono loro colleghi poliziotti, condannati per aver fatto morire un ragazzo, i suoi parenti non devono offendersi, perché “ non si può impedire di solidarizzare con colleghi condannati ingiustamente”. Manca purtroppo un sindacato a rappresentare i ferrovieri anarchici.
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