Gli arresti di Parigi. Rieducare, retribuire risarcire, le tre facce della giustizia

L’arresto di alcuni italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto)

L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto).

E’ stato così aggiunto un miserabile tassello alla versione che da decenni connota gli eventi di cinque decenni fa come “Anni di piombo”, dominati dal “terrorismo rosso”: cancellando sotto questa dizione sia la “Strategia della tensione” e le sue stragi sia le lotte e le conquiste di studenti, operai e popolo contro cui quella strategia era diretta. Una guerra – ancorché “non ortodossa”, come era stata definita dai suoi promotori – che lo Stato italiano ha condotto contro movimenti di massa, colpendo nel mucchio con sequele di stragi, mentre le formazioni armate, nate ai margini di quei movimenti, decidevano di “contrattaccare” con agguati contro uomini simbolo. Crimini da entrambe le parti: superfluo, ormai, fare comparazioni.

Ma nella strategia della tensione sono stati coinvolti molti corpi dello Stato, politici e istituzionali; e tutti ne hanno a loro modo approfittato, trovando poi conveniente non chiudere più quella fase, come sarebbe stato possibile e opportuno. Oggi Draghi e Cartabia non fanno che intascare la loro quota della rendita politica che quella non-decisione ha generato. E la “pena retributiva” sostituisce, per molti parenti delle vittime di un tempo, quel “risarcimento” che lo Stato avrebbe dovuto offrir loro con un processo di “riconciliazione”.

Condivido il dolore dei parenti delle vittime (tutte) del terrorismo, a partire dalla moglie e dalle figlie di Pinelli, vittime del terrorismo di Stato; e senza escludere la vedova e i figli del commissario Calabresi: so che cosa significa crescere senza un padre, anche se il mio è morto in circostanze meno drammatiche. Ma avendo seguito giorno per giorno gli 8 (anzi 10) “gradi di giudizio” del processo per l’omicidio del commissario, ritengo impensabile che se ne potesse ricavare il minimo indizio di colpevolezza degli imputati, Marino compreso; come aveva giustamente concluso la sentenza assolutoria del secondo processo di appello. Mentre capisco benissimo come possano essersi convinti del contrario tutti coloro che ne sono stati informati solo dai media (solo il manifesto, allora come oggi, ha trattato con spirito critico quella vicenda).

La maggior parte dei giudici togati si è dimostrata determinata a priori a quella condanna, accettando che il processo, più che alla ricerca dei veri colpevoli, fosse indirizzato alla punizione della campagna con cui Lotta Continua aveva costretto a portarla in tribunale il commissario, che poi se ne sarebbe ritirato con una ricusazione. D’altronde nessuno tra magistrati, giornalisti o familiari aveva sollevato obiezioni anche quando, per dimostrarne la natura criminosa, era stato sostenuto che a uccidere Rostagno, per farlo tacere, era stata una rediviva Lotta Continua.

Sofri e Bompressi sono stati condannati in base a ricostruzioni false di Marino, contraddette dai fatti e da tutti i testimoni. Per Pietrostefani, invece, nessuna ricostruzione di eventi specifici per accusarlo di aver ordinato l’omicidio: una condanna a 22 anni solo perché membro di un “comitato esecutivo” che avrebbe deciso l’omicidio: un anno prima. Ma Marino aveva indicato anche altri membri di quel comitato: Rostagno, Boato, Morini, Brogi e altri; l’accusa li ha subito dimenticati, consapevole, dopo l’iniziale entusiasmo, della debolezza, basata solo su un “pentito” dalle molteplici versioni.

Così è successo ad altre sue accuse assurde contro Paolo Liguori, Luigi Bobbio o Luigi Noia. Avevo aggiunto allora, con una raccomandata alla Procura di Milano, che di quel comitato avevo fatto parte anche io, che ero stato, con Sofri e Pietrostefani, al vertice di quella organizzazione per 7 anni. Nessuna reazione. Per questo ritengo quel processo una delle più grandi patacche della storia giudiziaria italiana. Processi basati solo su pentiti, sia veri che falsi, ben giustificano i dubbi di Mitterrand sul modo in cui era gestita la giustizia in Italia.

Oggi comunque si sa che nella Questura della defenestrazione di Pinelli erano presenti ben 13 funzionari dell’Ufficio Affari Riservati mandati da Roma per costruire, con tutta evidenza, la montatura contro Valpreda. Una presenza che la Procura di Milano aveva evitato di scoprire e di cui il commissario Calabresi non ha mai fatto parola. Ma è sensato pensare che nel corso del processo che lo vedeva imputato e non più querelante, Calabresi avrebbe potuto parlarne. Non ne ha avuto il tempo: la sua uccisione lo ha trasformato in un irreprensibile servitore dello Stato, esonerandolo post mortem da ogni responsabilità con la grottesca sentenza sul “malore attivo dell’anarchico Pinelli”.

* Fonte: Guido Viale, il manifesto

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