Sergio Segio: “Ecco perché iniziò (e finì) la lotta armata”

“La storia della lotta armata rimanda ai conflitti più che alle trame. Per quanto riguarda Prima Linea non ci sono mai stati sospetti, così come le Br non furono di sicuro un fenomeno diretto dall’alto”

Fu arrestato nel 1983: stava preparando un assalto al carcere speciale di Fossombrone.  Terminata di scontare una condanna di 22 anni, Sergio Segio, ultimo a uscire dal carcere fra gli ex militanti di Prima Linea, tra le principali organizzazioni terroristiche italiane (di cui fu uno dei fondatori), ora è impegnato nel sociale, sui temi del sistema penitenziario e della giustizia, delle droghe e delle tossicodipendenze, del volontariato e dei nuovi movimenti.  Svolge attività giornalistica ed è ideatore e curatore del Rapporto sui diritti globali, pubblicato annualmente dalle edizioni Ediesse. E’ stato responsabile della comunicazione del Gruppo Abele e tra i più stretti collaboratori di don Luigi Ciotti. Ha ideato e realizzato l’Annuario sociale, pubblicato per alcuni anni da Feltrinelli e diretto le riviste Narcomafie e Fuoriluogo. Collabora con la Cgil e altre esperienze di associazionismo. E ha appena pubblicato un libro: “Una vita in prima linea” (casa editrice Rizzoli, 400 pagine, 18,50 euro).

Perché questo libro?
“Per capire i percorsi e le ragioni che portarono alla scelta di impugnare le armi. Poi ho anche tentato di tenere insieme il passato con il presente per elaborare la vicenda”.

Il suo stato d’animo pensando agli anni della militanza?
“Sono sereno a riguardo, il che non significa che non sono dispiaciuto per quello che ho fatto”.

Venti anni in carcere. Quasi un quarto di secolo…
“Danno il senso del cambiamento. Questa è la mia terza vita. C’è stata la militanza, il carcere (una lunga attesa) e ora il dopo carcere”.

Il libro/ Comandante Sirio. Il suo mito: Simon Wiesenthal. Sergio Segio inizia la sua militanza politica in Lotta Continua nei primi anni Settanta, fuori dalle fabbriche di Sesto S. Giovanni, la “Stalingrado d’Italia” (segue…)

Quando iniziò l’avventura di Prima Linea?
“Ufficialmente nel 1976, ma il corpo militante era attivo già dagli anni precedenti. L’esplosione avvenne ai tempi del movimento del ’77. Le Br non si adeguarono ai cambiamenti di quegli anni. Così si allargò l’adesione a Pl, che stava programmaticamente dentro il movimento nascente, di cui intendeva essere ‘prima linea’ “.

Chi furono i primi militanti?
“I primi provenivano da Lotta Continua e, in minore misura, da Potere Operaio”.

Le Br e Pl non sono mai state imparentate, anzi. Che differenze intercorrevano tra i due gruppi?
“Le Br tendevano ad accreditarsi come direzione politica dei movimenti, all’opposto Pl rivendicava la propria vocazione a un legame di internità con il movimento”.

Quale l’episodio che segna la fine di Pl?
“La morte dei compagni Carla e Charlie, che scatenò quella che io definisco la furia del toro nell’arena. Da allora ci fu un gioco al rialzo. Correva il 1979. Tutti volevano combattere e più nessuno curava l’intervento politico sul territorio, l’allargamento del consenso nelle situazioni concrete, il lavoro d’inchiesta”.

Come è il mondo che si ritrova a vivere?
“Un mondo tutto diverso. Siamo passati da un mondo diviso in due blocchi a un mondo globalizzato. Non ci sono più la guerra fredda, i blocchi contrapposti, il movimento conflittuale degli studenti e degli operai contro polizia e istituzioni”.

Il muro di Berlino cadde mentre lei era in carcere. Che significato storico attribuisce all’evento?
“La caduta del muro è il simbolo della caduta dei valori del ‘900”.

Ha lasciato Milano negli anni ’80 per rivederla dopo 22 anni di carcere nel ventunesimo secolo. Come l’ha ritrovata?
“Totalmente differente: dal punto di vista architettonico, urbanistico e sociale. Sono aumentate le solitudini. Negli anni ’70 e ’80 Milano aveva la dimensione di una comunità nonostante i suoi conflitti e le sue lacerazioni. La Milano che ho ritrovato venti anni dopo è diventata un condominio, una coabitazione non più legata a una trama di interessi comuni. Mi ritrovo in quello che ha detto l’arcivescovo Tettamanzi, ovvero che c’è il rischio di una condizione esistenziale sradicata per chi abita in questa città”.

La polizia degli anni ’70 che racconta nel suo libro è un’istituzione poco democratica. E quella di oggi?
“Allora la maggior parte dei questori proveniva dai ranghi del fascismo. Il presente è un’altra cosa. Io sono cambiato. Il mondo è cambiato. Ed è cambiata fortemente la polizia. Ma mi permetto di dire che non è cambiata del tutto. Il carabiniere che ha sparato a Genova uccidendo Carlo Giuliani al G8 ha ricordato, per esempio, che al ritorno in caserma c’era chi festeggiava il ragazzo morto. C’è evidentemente ancora da migliorare…

Dopo 22 anni di carcere, una volta ottenuto il passaporto, quali sono stati i primi viaggi?
“I primi viaggi li ho fatti a Dachau, Mauthausen, Gusen e Harteim. Ho avuto bisogno di ritrovare quelle verità, oggi rimosse e indicibili, e quei pezzi fondamentali dell’identità collettiva finiti nel tritacarne dei giudizi sommari. Subito dopo i viaggi nei lager, sono stato a visitare il gulag di Tito, a Goli Otok. Vi sono i ruderi delle baracche e delle officine, mentre la natura ha ripreso ovunque il sopravvento. Non si sa quanti furono i deportati qui, le cifre ufficiali sono decisamente sottodimensionate. Ma si contano sulle mani le testimonianze dei reduci. Mi chiedo ancora perché, non può essere per il timore di vendette o per l’adesione alle indicazioni del Pci di Togliatti, che imponevano l’omertà e il silenzio assoluti”.

Senza contestualizzare la lotta armata all’interno della logica ferrea della guerra non si può capire quel pezzo di storia, scrive. Ma di sensi di colpa quando uccideva non ne provava mai?
“In quel momento no. Man mano che ci siamo separati dalla logica della violenza e abbiamo abbandonato le armi è iniziata a emergere la coscienza. Negli anni ‘70 non eravamo lucidi, e con questo non cerco giustificazioni. Ma credo che in qualsiasi guerra si finisca a essere vittima di una dinamica inevitabile che fa perdere il senso dell’umanità. Per uccidere devi negare l’umanità dell’altro, di modo da non riconoscerlo come persona. Così non hai rimorsi”.

C’è chi disse che la lotta armata fosse strumentalizzata dal potere. Cosa ne pensa?
“La storia della lotta armata rimanda ai conflitti più che alle trame.
Per quanto riguarda Prima Linea non ci sono mai stati sospetti, così come le Br non furono di sicuro un fenomeno diretto dall’alto. Ma nella storia delle Br ci sono punti inevasi che andrebbero approfonditi. Sono dettagli, però”.

Che ruolo hanno avuto i pentiti nella sconfitta del terrorismo?
“Relativo. I pentiti sono diventati uno strumento investigativo, hanno dato un contributo a evitare nuovi attentati, forse. Ma paradossalmente hanno anche aumentato la durata e l’intensità finale della lotta. Chi dice che hanno avuto un ruolo rilevante dà una lettura militare alla fine del terrorismo. Ma la vera sconfitta è stata quella politica e culturale. Quella militare è infatti passeggera”.

A cosa si deve la sconfitta della lotta armata quindi?
“Alla dissociazione, che ha innescato una revisione dei miti da cui la lotta armata era nata, con il risultato di minarne le basi”.

Negli anni ’60 si lottava il divorzio. Oggi per i Pacs..
“Già. Siamo una nuova società che ha bisogno di nuovi diritti. Milioni di persone convivono e si fa finta di non vederlo. A questi milioni di persone va dato invece un riconoscimento giuridico”.

Che opinione ha della sinistra di Prodi?
“Non sono l’uomo più idoneo a parlare di politica, ma posso dire che di fronte ai problemi degli emarginati questa sinistra ha ancora molto da fare”.

Nicole Cavazzuti

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