Anni Settanta. «Questa è già la mia vita», il libro della ex militante di Prima linea, per Quodlibet
Quando l’arrestano Marina Premoli, militante di Prima linea, avverte i poliziotti che la stanno portando via: non si sono accorti che uno dei due compagni presi con lei è ancora armato. Lo fa per proteggerlo, per evitare che impugni l’arma e ci rimetta la pelle, ma forse lo fa anche perché è una terrorista particolare, che all’uso delle armi non si è mai davvero acconciata. Lei stessa ha nella borsetta una pistola: però non ha mai avuto intenzione di adoperarla e lo ha detto sin dall’inizio ai suoi compagni. Le hanno risposto di portarsela dietro lo stesso «a scopo di deterrenza». Proprio quell’arma ha fatto scoprire i tre di Pl, fermati durante un controllo. I documenti falsi, preparati proprio da Premoli, avevano resistito all’esame. Se i poliziotti non avessero perquisito la borsetta se la sarebbero cavata.
Marina Premoli passerà otto anni in carcere, soprattutto per l’evasione di quattro militanti dal carcere femminile di Rovigo, organizzata da Sergio Segio per far evadere la sua compagna Susanna Ronconi. Doveva essere un’azione senza vittime, invece ci rimise la vita un pensionato. Altri otto anni la Premoli li ha passati in semilibertà prima di tornare una donna davvero libera nel 1996.
COME L’AUTRICE, anche il suo libro Questa è già la mia vita (Quodlibet, pp. 232, euro 18), autobiografia della ex terrorista fino al giorno dell’arresto, occupa una posizione particolare ed eccentrica nella folta memorialistica dei ragazzi degli anni ’70 che scelsero la lotta armata. Di politica si parla poco, quasi solo di striscio. È una storia intima ed esistenziale che racconta un percorso fatto di sentimenti, emozioni e dolori più che di ideologie. Se si dovesse scegliere un sottotitolo per questo libro che non è un romanzo ma lo sembra, scritto molto bene da una quotata traduttrice che in tutta evidenza ha più dimestichezza con la penna che con le rivoltelle, sarebbe forse Rich Girl Blues.
L’autrice viene da una famiglia che il risvolto di copertina definisce pudicamente benestante ma che è invece qualcosa di più: un modello di quella che era la «buona società» italiana nel secolo scorso. Una famiglia aristocratica, che l’autrice descrive arretrando di un paio di generazioni, in una specie di saga familiare da cui traspare in controluce la parabola di quella borghesia italiana un po’ cosmopolita e un po’ provinciale, abituata a «cadere sempre in piedi».
È UNA FAMIGLIA che ogni tanto lamenta ristrettezze ma con alle spalle terre e castelletti. I ragazzi crescono giocando a tennis nel campo costruito nel giardino di casa, passano l’autunno a vendemmiare quando gli altri bambini già vanno a scuola. Il padre di Marina, prima di diventare senatore liberale per parecchie legislature, è dirigente dell’Ufficio del turismo. Passa da una capitale europea all’altra e le figlie imparano così a padroneggiare le lingue. Ma «casa», per Marina, resta sempre l’abitazione in via del Babuino a Roma, a un passo da piazza di Spagna.
PIÙ CHE LA STORIA, simile a troppe altre, di una militante clandestina, il libro di Marina Premoli è dunque il romanzo di un’infanzia, di un’adolescenza e di una giovinezza dorate e infelici. Marina soffre per i rapporti tra i genitori segnati dall’infedeltà della madre, forse anche per il bisogno e l’impossibilità di mettere radici. Cerca sollievo nell’alcol, presenza che resterà incombente persino nella clandestinità, riparo in amori sbagliati, rifugio nella lotta armata.
La narrazione procede a salti, senza piegarsi alla dittatura della cronologia, inframmezzata da istantanee del presente e da descrizioni dei sogni attuali dell’autrice che rinviano a quel passato, lo interpretano e lo sostanziano.
Ci sono libri scritti essenzialmente per se stessi, per una sorta di autoanalisi o per la necessità interiore di chiudere i conti con una scelta sbagliata ricostruendone la genealogia.
L’AUTOBIOGRAFIA di Premoli fa parte di questa categoria ma forse proprio per questo raggiunge una forza narrativa negata alla memorialistica degli «anni di piombo» e allo stesso tempo offre un tassello essenziale alla storia di quella rivolta generazionale nella quale confluivano rabbia sociale, ideologia politica e disagio esistenziale.
FONTE: Andrea Colombo, IL MANIFESTO
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