La lotta armata, le sinistre e il Novecento

la fabbrica flessibile e fluida. La cibernetica e il terziario avanzato. Una rivoluzione. Che per passare aveva bisogno di una sconfitta operaia, di un ridimensionamento numerico e politico dei lavoratori, e delle loro avanguardie, di portata storica

Introduzione del curatore

Chi sia Sergio Segio è presto detto: cresciuto a Sesto San Giovanni, periferia nord di Milano, durante gli studi di filosofia alla Statale inizia ad occuparsi di politica fino ad aderire a Lotta Continua. Nel 1976 fonda l’organizzazione armata Prima Linea. Il 29 gennaio 1979 è l’esecutore materiale dell’omicidio del giudice Emilio Alessandrini; il 19 marzo 1980 uccide un altro magistrato, Guido Galli. Il 3 gennaio del 1982 guida con successo un’operazione per far evadere dal carcere di Rovigo quattro detenute, tra cui la sua compagna Susanna Ronconi (nella foto a dx insieme a Segio). Viene arrestato a Milano il 13 gennaio 1983, a ventisette anni. La Corte di Cassazione lo condanna all’ergastolo, poi convertito in trent’anni di reclusione in forza della c.d. legge Gozzini. Esce dal carcere nel 2004, a 49 anni, ultimo esponente di Prima Linea a riacquistare la libertà . Nel 2005 ha scritto Miccia corta. Una storia di Prima Linea (ed. DeriveApprodi) e l’anno successivo per Rizzoli Una vita in Prima Linea. L’anno scorso la sua biografia è stata oggetto di un film di Renato De Maria, La Prima Linea.

Oggi Segio si occupa delle tematiche legate al sistema penitenziario e della giustizia, alle droghe e alle tossicodipendenze, al volontariato e ai nuovi movimenti, collaborando, tra gli altri, con il Gruppo Abele e don Luigi Ciotti, con la CGIL, con il Centro culturale San Fedele di Milano e con l’ex finanziere Sergio Cusani (fonte: wikipedia).

Non l’ho conosciuto personalmente, gli ho solo mandato le domande via mail e lui gentilmente – con un po’ di attesa, vista l’ampiezza degli argomenti affrontati – mi ha risposto. Fino a poco tempo fa era solo uno dei tanti nomi che gli storici citavano a proposito dei vari movimenti di lotta armata, senonchè un giorno, tornando a casa da mia madre, le trovo un libro sul comodino: Una vita in Prima Linea. Una lettura decisamente insolita. Incuriosito, mi informo. Mi risponde che il saggio è scritto da Sergio Segio, un suo compagno di scuola ai tempi delle superiori a Sesto, mentre mio nonno faticava alla Falck e mia nonna si occupava del bar di famiglia in viale Casiraghi. E che quel Segio, da grande, è diventato un pericoloso terrorista. Il curioso e lieve intreccio tra la quieta storia della mia famiglia e la Storia che ho letto sui libri di Indro Montanelli, di Giorgio Galli e di Mario Calabresi mi infiamma. Divoro in pochi giorni il libro. Poi, casualmente, poche settimane dopo esce anche il film interpretato da Riccardo Scamarcio. Gli eventi raccontati, sia nel libro che nella pellicola, sono le portanti e contraddittorie colonne della più recente storia italiana, condite dal più efficace dei tòpos letterari: la testimonianza diretta. Ho pensato che sarebbe valsa la pena di approfondire maggiormente la questione.

Spero che questa breve intervista riesca, nei suoi limiti, a consegnare al lettore un quadro sufficientemente caratterizzante di chi fu Sergio Segio, di cosa fu il terrorismo di sinistra, delle responsabilità  e dei meriti o demeriti della politica e di quale dei suoi mille volti l’Italia degli anni Settanta si fregiava agli occhi dei cittadini. Senza mai dimenticare, nemmeno per un attimo, le vittime del terrorismo. E le persone che hanno voluto loro bene.

Milano, 23 gennaio 2010

M.A.B.

1. Poco tempo fa c’è stato il quarantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana, considerata unanimamente l’inizio degli anni di Piombo. Secondo gli storici sono individuabili due ondate di terrorismo di sinistra: la prima figlia diretta del clima post Piazza Fontana, che trova la propria incarnazione nelle azioni delle Brigate Rosse di Curcio, di Franceschini e della Cagol; la seconda ondata invece è collocabile tra il 1976 e il 1977, con l’arresto di Curcio e l’avvento di Moretti a capo delle BR, la nascita di Prima Linea e le agitazioni universitarie iniziate nel febbraio del ’77. Quali motivazioni hanno spinto la sua generazione, appena adolescente ai tempi di Piazza Fontana, dieci anni dopo la prima ondata ad intraprendere la lotta armata?

Io non credo vi siano state due fasi distinte e separabili di lotta armata: c’è stata una fase di incubazione, teorizzazione, sperimentazione, propaganda e poi, con una naturale progressione, una fase di dispiegamento. Fasi che hanno seguito, pur in modo temporalmente sfalsato, le dinamiche e le curve di crescita e di crisi del movimento e delle lotte operaie di quegli anni.
Se gli albori della lotta armata sono situabili nella fase alta delle lotte, la fase espansiva ha invece corrisposto alla fase di ripiegamento del movimento, in particolare di quello del 77, la cui decadenza ed esaurimento hanno prodotto un’ondata di arruolamento dentro le organizzazioni combattenti.
Allo stesso modo, la fase precedente aveva visto nascere le prime organizzazioni combattenti in un rapporto di causa-effetto con l’esaurirsi dei gruppi extraparlamentari che avevano avuto ruolo e dimensioni significative a cavallo della fine degli anni Sessanta e i primi Settanta. I due grandi serbatoi di Prima Linea – che è vero nascere ufficialmente nel 1976, ma il cui progetto era operante già  dal 1974, così come i suoi militanti erano attivi già  da tempo, spesso facendo parte delle strutture di servizio d’ordine, anche armate, dei gruppi extraparlamentari – sono stati l’area di Potere operaio, organizzazione discioltasi già  nel 1973 e, soprattutto, le progressive rotture e fuoriuscite da Lotta continua, che tuttavia si scioglierà  solo nel 1976.
Ciò anche per dire che lo sviluppo della lotta armata in Italia va letto come una sequenza di continuità  e di rotture dentro un’ipotesi rivoluzionaria e un contesto fortemente politicizzato e conflittuale, non come un'”ora x” o una decisione a tavolino. Alcuni autori, in riferimento a quei primi anni hanno parlato di «guerra civile strisciante», di onda lunga del dopoguerra italiano.
Karl von Clausewitz scriveva che la guerra è continuazione della politica con altri mezzi. In realtà , più propriamente, è una degenerazione della politica, e quegli “altri mezzi” sono la barbarie delle stragi e del sangue, dell’uccisione di esseri umani considerati come nemici, dunque disumanizzati.
Questo vale per la guerra, ma vale anche per il terrorismo. Ed è valso, in piccolo, anche per noi 30 anni fa. Quando, come si usava dire allora, decidemmo di passare dalla forza della ragione alle ragioni della forza. E, in effetti, il dibattito politico dentro Lotta Continua nella quale molti di noi militavano – iniziato nel 1972 e finito nel 1974 con la fuoriuscita di molti, me compreso – si chiamò proprio così: “questione della forza”.

Così, almeno per me e per altre centinaia di compagni, cominciò il percorso della lotta armata. Una traiettoria nata da un impasto di scelte e forzature individuali e di un contesto decisamente particolare, quale fu quello italiano dei primi anni Settanta. Un contesto – parola oggi espunta dal vocabolario per quando riguarda la riflessione storica su quegli anni, ma irrinunciabile se si vuole provare a leggere i fenomeni e non solo a esorcizzarli e demonizzarli – caratterizzato, sommariamente:
– da un amplissimo movimento operaio e studentesco, che costituiva l’onda lunga del 68-69, un’anomalia italiana, rispetto agli altri Paesi che pure avevano conosciuto i sommovimenti del ’68;
– dalla radicalità  che questo esprimeva, ovvero dalla sua forte ideologizzazione e da una costante pratica di violenza antifascista e di piazza, divenuta ancor più radicale e massificata nel 77;
– dalla presenza di una destra stragista, di forti gruppi neofascisti e neonazisti organizzati militarmente, coperti e utilizzati da settori statali italiani, oltre che sostenuti da paesi stranieri a regime dittatoriale, Grecia in primis: nei cortei a Roma o a Milano, la cosiddetta “maggioranza silenziosa” e i neofascisti gridavano: «Ankara, Atene, adesso Roma viene», mentre nella capitale manifestavano coloro che si definivano “Amici delle forze armate”, con in testa il generale dei carabinieri, poi a capo dei servizi segrete, Giovanni De Lorenzo, al grido «Basta con i bordelli, vogliamo i colonnelli»;
– da una costante e violenta repressione da parte delle forze dell’ordine, che produsse spesso morti durante le manifestazioni; morti regolarmente rimaste impunite;
– da pezzi delle istituzioni deviate e colluse con i gruppi neofascisti;
– da settori delle forze politiche, in particolare della DC, altrettanto orientate a coprire e utilizzare sia le deviazioni degli apparati di polizia sia le organizzazioni fasciste e paramilitari;
– dall’onda lunga dell’eredità  di Yalta e della divisione del mondo in blocchi e delle strutture paramilitari e culture di contrapposizione ideologica che, anche in Italia, ne erano derivate;
– dalla strozzatura delle lotte e di ogni spazio di agibilità  politica critica e radicale costituita dalla teorizzazione e poi dalla pratica del compromesso storico da parte del PCI, all’indomani del golpe in Cile del 1973.

Oggi è stato rimosso dalla memoria collettiva, dai giornali e dai libri, ma quello era il clima, quelle erano le istituzioni. C’è stato insomma un detonatore costituito da una miscela inestricabile di fattori, oltre a quelli personali ed emotivi: e qui un ruolo forte se non decisivo ha avuto in effetti la madre di tutte le stragi, quella di piazza Fontana.
Nella foga revisionista attuale, tesa ad attribuire alla sinistra ogni colpa e ad assolvere le destre, anche radicali e dichiaratamente fasciste, e in generale il sistema politico della Prima Repubblica e le sue due colonne portanti, DC e PCI, alcuni vanno dicendo che non è vero che quella strage fece “perdere l’innocenza” a una generazione, che non è vero che quello è il punto di innesco delle derive armate e violente, perché comunque già  da prima esistevano teorizzazioni e pratiche violente a sinistra. E qui basterebbe guardare alle statistiche, che mostrano come dal 1969 al 1973 il 95% degli attentati e degli atti di violenza politica avvenuti sono stati opera della destra fascista, così pure l’85% nel 1974 e il 78% nel 1975.

Io credo invece che una quota significativa di quella generazione vide, percepì ed elaborò la strage di piazza Fontana come un vero e proprio punto di non ritorno e come la dimostrazione che, oltre un certo limite, le lotte pacifiche non potevano andare, che alla repressione, a quel tipo di terrorismo bisognasse rispondere in modo diverso e non solo con le manifestazioni di massa.
In quel frangente, in molti prendemmo coscienza di un’iniquità  profonda che costituì la primaria, spesso decisiva, pulsione e motivazione alla milizia politica estremista e poi armata. Quello stato di iniquità  ci pareva una conseguenza diretta dell’impunità  di cui da sempre avevano goduto gli apparati dello Stato e alcuni settori del neofascismo ai primi collegati; e, più in generale, della mancata o insufficiente trascrizione sul piano politico-istituzionale delle domande collettive, delle rivendicazioni radicali, delle istanze di trasformazione che i movimenti di massa operai e studenteschi avevano espresso nel 68-69.
Stato di impunità  e mancata trascrizione produssero in noi una forte tendenza alla supplenza, e questa si espresse nel tentativo di realizzare e amministrare una “giustizia alternativa”, rivoluzionaria, attraverso l’affermazione di un diritto materiale contrapposto a un diritto formale inadempiente.

2. Come considerava la politica del Partito Comunista Italiano in quel periodo storico?

Compromessa e rinunciataria e, quanto meno dopo il 1973, pericolosa, in quanto attraverso la scelta strategica del compromesso storico rendeva inermi e consegnava alla sconfitta  i movimenti, le lotte operaie e sociali. Il golpe militare in Cile dell’11 settembre 1973, voluto e sostenuto dagli USA, che aveva rovesciato il governo di Unidad Popular guidato dal socialista Salvador Allende, eletto democraticamente, la conseguente sconfitta della sinistra cilena e la morte di Allende rendevano ai nostri occhi evidenti i limiti e i rischi della “via pacifica” ed elettorale al socialismo anche per l’Italia.

Come la strage di piazza Fontana, anche questi avvenimenti assunsero i contorni di un punto nodale, dopo il quale nulla poteva e doveva rimanere come prima. Viceversa, il PCI di Enrico Berlinguer reagì alla grave situazione interna e internazionale rinunciando all’opposizione. Argomentando la sua proposta di compromesso storico con la DC, Berlinguer arrivò a sostenere che anche nel caso di una sua vittoria elettorale, anche raggiungendo il 51% dei voti, non si sarebbe potuto garantire un governo delle sinistre in Italia. Di nuovo, per noi questo sembrò dire – ed effettivamente diceva – che la democrazia era pura finzione, che non bastava vincere le elezioni per poter governare, che l’Italia era un paese a sovranità  limitata. Era quella la teorizzazione compiuta che di fronte ai rischi autoritari e golpisti, riconosciuti non solo reali e concreti ma del tutto attuali e «sempre incombenti» dallo stesso PCI, alle ingerenze e ai condizionamenti statunitensi e dell’alleanza atlantica, anziché informare, denunciare, reagire e mobilitare, bisognasse accordarsi con le forze che minacciavano la democrazia, con la DC che le trame aveva coperto e utilizzato.
Ai nostri occhi e nelle considerazioni delle sinistre critiche, le sollecitazioni di Berlinguer costituivano il naturale punto d’approdo della lunga marcia di un riformismo incapace di riforme e di reale cambiamento. Ciò contribuì a radicalizzare le nostre vedute e le nostre pratiche e, d’altra parte, l’alleanza PCI-DC, la rinunzia all’opposizione, determinava la progressiva chiusura degli spazi e dell’agibilità  politica per le lotte e i movimenti e una maggiore mano libera nella repressione da parte statale.

Dimostrazione e sbocco tragico di questo saranno evidenti nel 77, quando a Bologna i carabinieri uccisero un giovane militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso, sparandogli alla schiena durante una manifestazione. Il PCI, anziché condannare l’omicidio dello studente, attaccò «il ruolo di intimidazione e di provocazione di gruppi neosquadristici».
Fu così che la rossa Bologna divenne la palestra di una nuova fase e di un irriducibile antagonismo tra vecchia sinistra comunista e nuovi movimenti. Da un lato, vi era un movimento sempre più violento e radicale, dall’altro, l’alleanza operativa in funzione repressiva tra la DC di Francesco Cossiga e il PCI di Ugo Pecchioli, con i carri armati schierati lungo le strade.
Onestamente, in tempi recenti, Cossiga ha ammesso: «Siamo stati i responsabili della manipolazione del linguaggio: quando ci accorgemmo che i sovversivi facevano presa sugli operai, cominciammo a chiamarli criminali. (…). Inviando a Bologna, dopo la morte di Lorusso, i blindati dei carabinieri con le mitragliatrici, accolti dagli applausi dei comunisti bolognesi (…) molti si spostarono verso le Brigate rosse e Prima Linea». E ancora: «Del resto fummo io e un compagno di partito di Napolitano, ora mai ricordato, Ugo Pecchioli a mettere su una operazione di guerra psicologica per trasformare i terroristi rossi in criminali comuni. Pecchioli, persona serissima, organizzatore della Gladio Rossa, si era occupato molto di queste cose. Ci aveva fornito i nomi di chi non aveva rinnovato la tessera del Pci (potenziali reclutati). E grazie a lui infiltrammo giovani del Pci nell’autonomia che ci fecero poi da spie».

A tutt’oggi, dall’ex partito comunista non è invece venuta alcuna resipiscenza rispetto a quel periodo. Certo, à  la guerre comme à  la guerre. Di fronte all’approfondirsi e all’estendersi della violenza, dal suo punto di vista, legittimamente il PCI ha potuto ritenere che il nemico prioritario da battere, con qualsiasi mezzo, fosse quell’anomalo movimento del 77, il proliferare di gruppi armati e clandestini. Ma alla base di quella degenerazione e di quel proliferare vi sono stati anche gli errori e le miopie politiche del PCI, e in generale un’idea della democrazia autoritaria ed escludente, anch’essa teorizzata dallo stesso partito con gli interventi di Asor Rosa sulle «due società », che a Bologna si erano confrontate: la «classe operaia organizzata», i garantiti, da una parte, e i giovani proletari, i precari, i disoccupati, i nuovi movimenti, dall’altra.

3. Scrive Indro Montanelli – nella sua Storia d’Italia – tentando di trovare una ratio all’omicidio che più impressionò l’opinione pubblica, quello del giudice Emilio Alessandrini: “Anche rilette con la maggiore buona volontà  di capire, se non di giustificare, le spiegazioni che i killer del commando guidato da Marco Donat Cattin diedero per l’assassinio di Alessandrini rimangono tortuose, al limite del delirio (…). Naturalmente ci fu chi provò a interpretare (…) i concetti ispiratori dei terroristi. E disse che essi obbedivano a una regola che l’estremismo di sinistra ha sempre osservato: quella di considerare i riformisti più pericolosi dei conservatori, i nemici ‘chiusi’ più insidiosi degli ‘aperti’, Moro peggio di Scalfaro, Alessandrini peggio di Sossi. Questo stesso ragionamento fu applicato poi alla ‘esecuzione’ di Walter Tobagi”. Quanto c’è di vero nell’interpretazione del giornalista di Fucecchio?

Sicuramente Montanelli ha scritto parole acute, al di là  delle aggettivazioni. In particolare, accennando al fatto di come il conflitto tra massimalisti e riformisti sia una costante storica. Non l’ha certo inventato Prima Linea. Data dal 1921 del congresso comunista di Livorno, dalla rivoluzione russa e ancora prima dai moti ottocenteschi e dalla stessa rivoluzione francese. Un conflitto spesso sanguinoso, con vittime non da una parte sola, ricordando ad esempio l’uccisione di Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht e la dura repressione degli spartachisti a opera del governo socialdemocratico nella Germania dei primi decenni del Novecento.
Ciò, beninteso, non giustifica alcunché. Ma è l’omicidio politico in quanto tale a essere forma aberrante di lotta. A volte invece, nella lettura postuma di quegli anni, parrebbero esservi omicidi in qualche modo comprensibili e altri folli e dementi, in particolare quelli rivolti contro i riformisti, Alessandrini e Tobagi in particolare.
Come per tutto il resto, anche da questo punto di vista noi abbiamo portato alle più estreme, tragiche e irreparabili conseguenze un pensiero che avevamo ereditato dai nostri padri, vale a dire dai movimenti comunisti del Novecento. Secondo il quale il nemico più insidioso e mortale di ogni rivoluzione è, appunto, il riformismo. D’altra parte, simmetricamente, e ben prima della nostra stessa esistenza, per il PCI il nemico privilegiato è sempre stato quello alla sua sinistra: gli anarchici e il POUM nella guerra civile spagnola, il bordighismo e i trotzkisti di Bandiera rossa durante la Resistenza, il gruppo de “il manifesto” nel ’68, la sinistra extraparlamentare, quella autonoma e infine quella armata negli anni Settanta.

Alessandrini in quel momento per noi rappresentava lo Stato, la magistratura che gestiva le leggi di emergenza, che aveva accettato la “delega” da parte della politica per contrastare i movimenti e sconfiggere le organizzazioni armate. Una funzione in cui veniva recuperata anche da sinistra l’ideologia dello Stato come valore in sé da difendere e non come espressione dei rapporti di forza, del dominio di una parte politica e di una classe sulle altre.
Per la sinistra al governo, dopo la scelta del compromesso storico, lo Stato delle stragi era diventato un feticcio da far proprio, e non più da smascherare e ribaltare. I magistrati democratici, alcuni dei quali sino a poco tempo prima si consideravano “quinta colonna” della rivoluzione dentro le istituzioni, ora di quelle stesse istituzioni si candidavano a essere architrave, un reparto avanzato che garantiva nuova credibilità  ed efficacia a un apparato di potere autoritario, da sempre votato alla difesa dei privilegi di classe, a garantire impunità  alla polizia e agli apparati che avevano promosso e gestito la “strategia della tensione”. E ad assicurare conoscenza dei movimenti, possedendone i “codici” culturali.
Oggi penso che la nostra analisi di allora sia stata sbagliata, ma non so se fosse «al limite del delirio», come ha scritto Montanelli. Certo era analoga a quella di tanti altri pezzi della sinistra dell’epoca, persino di settori di Magistratura Democratica, vale a dire la stessa corrente cui apparteneva Alessandrini.

Infatti, un giudizio di allarme sul ruolo nuovo e crescente della magistratura, sul suo allineamento nel colpire le lotte e il movimento dietro l’ombrello dell’emergenza e della difesa dell’ordine, sullo slittamento culturale nella sinistra che la portava a «farsi Stato», non era solo nostro. Nostra, e inescusabile, è stata la traduzione di una valutazione politica in una pratica disumana, qual è – sempre – quella dell’omicidio politico. Ma la nostra era una lettura e una denuncia politica del tutto simile, ad esempio, a quella che venti magistrati di Magistratura Democratica avevano lanciato con un documento in occasione del convegno contro la repressione di Bologna del 1977: «Ancora una volta è di attualità  il tema della repressione e dell’assetto dello Stato. Una risposta agli interrogativi che su questo tema si sono proposti non può che prendere le mosse dalla profonda svolta politica che l’accordo a sei ha ufficialmente sancito [nel luglio 1977 DC, PCI, PSI, PSDI, PLI, e PRI avevano approvato una mozione di indirizzo sul programma di governo; dopo il governo della “non sfiducia” e la presidenza della Camera affidata al comunista Pietro Ingrao, cresceva dunque il coinvolgimento del PCI nell’area di governo, nota mia]. Per questa via si sta producendo un profondo processo di impoverimento di quegli strumenti ideologici che in passato avevano consentito alla classe operaia di bloccare gli attacchi più massicci portatele contro in questi anni. Ad esempio, ieri si individuava con chiarezza il preciso segno di classe nella gestione della strategia della tensione. Oggi, gli episodi di cui quella stessa strategia continua ad alimentarsi, sono attribuiti genericamente all’azione di un oscuro nemico di tutte le classi o di una tessitura di trame importate dall’estero, trascurando di individuare la matrice politica. Alla denunzia del ruolo giocato dai vari apparati dello stato nell’attacco si è sovrapposto il concetto acritico di istituzione il cui segno è comunque democratico anche quando la struttura interna, i metodi di gestione, la incapacità  di aprirsi ad un controllo popolare sono rimasti sostanzialmente immutati». Parole inequivocabili, non dissimili dalle nostre.

4. Cosa pensò quando il 16 marzo del 1978 le Brigate Rosse rapirono Aldo Moro?

A differenza di altri, non rimasi affascinato dalla «geometrica potenza». Anche perché, per conto di PL, avevo rapporti con i vertici delle BR e una relativa cognizione dei loro limiti. Ma le riserve erano e furono soprattutto politiche. Quell’azione, con tutto il suo peso specifico, era squassante per il movimento, lo poneva di fronte a una scelta obbligata: accettare il nuovo livello dello scontro, terribilmente alto, o rifluire. Dal punto di vista brigatista, quella era un’operazione coerente, lineare con la loro concezione di se stessi e dello sviluppo del processo rivoluzionario: quella di un partito comunista, centralizzato ed esterno ai movimenti, che guida le masse e decide tempi e strategie; in quel caso, un salto dalla propaganda armata sin lì praticata alla nuova fase dell’attacco al “cuore dello Stato”, alla guerra di classe. Dal nostro, era un errore strategico, un salto nel buio e nel vuoto. A noi certo di sequestrare Moro non ci sarebbe passato neppure per la testa. Non tanto per la difficoltà  militare e non solo per l’innalzamento verticale del livello dello scontro e le conseguenti difficoltà  che ciò comportava per i movimenti. Ce ne ha dato atto significativamente uno dei maggiori artefici del sequestro Moro, e uno dei pochi brigatisti che si opposero alla sua uccisione, Morucci, che in un suo libro ha scritto: «Se le BR usavano il terrorismo per fini politici, Prima Linea lo usava credendo con quello di aprire spazi, rimuovere ostacoli al dispiegamento dello scontro sociale […]. Quello di Prima Linea era un terrorismo in sintonia con le esasperate vicende di quegli anni, a differenza di quello delle BR, che traeva la sua spinta originaria dalle mummie del Cremlino. E solo a quelle guardava per averne muta approvazione. Quelli di Prima Linea, che pure uccidevano per ogni dove, a sequestrare Moro, ed entrare così nella storia, non ci avrebbero mai neanche lontanamente pensato».
Per la verità , a differenza di quel che dice Morucci, PL allora non aveva cominciato a «uccidere per ogni dove». Comincerà  a farlo dopo, di lì a poco, e sia pure sempre assai meno delle BR, in conseguenza dell’avvitamento dello scontro da loro provocato con il sequestro e l’uccisione di Moro. Ma rimane vero che un’azione di quel tipo esulava totalmente dai nostri progetti e dalla nostra visione, diciamo così, “orizzontale” e non verticistica del conflitto, che intendeva misurarsi con la ramificazione del blocco sociale avversario e non con un inesistente “cuore dello Stato”, con i poteri diffusi, non un monolitico e altrettanto ormai irreale e datato Palazzo d’inverno. Che voleva affermare spazi liberati, di contropotere, non prendere il potere.

5. Quali sono le ragioni, se ne esistono, che portarono il terrorismo di sinistra alla sconfitta?

Sono tante e intrecciate. Sono più o meno le stesse che hanno portato alla crisi della sinistra nel suo complesso, nelle sue infinite varianti, e allo svuotamento di ruolo della classe operaia e di quello che definivamo l’operaio sociale. Sono stati diversi i modi e i luoghi, essendo peraltro diverse le responsabilità . Ma sono stati relativamente comuni i tempi, l’inizio degli anni Ottanta, con la simbolica, potente ed epocale sconfitta degli operai della FIAT nell’ottobre 1980.
Quella fu la rappresentazione della fine, per quanto sempre la storia sia processuale, mal comprimibile in date precise. Ma la storia, appunto, era andata avanti senza di noi. Ci aveva spiazzato e confuso e infine consegnati a una dura sconfitta. Ciò è stato vero per noi, come per tutta la sinistra e per la composizione di classe che aveva avuto lungo corso negli anni Sessanta e Settanta.
La classe operaia e il sindacato non venivano battuti grazie ai terroristi, come sosteneva il PCI, ma dalla ristrutturazione in corso da tempo. Con l’automazione della produzione e con il superamento delle linee e della catena di montaggio, strumento forte di disciplinamento e del comando ma assieme punto vulnerabile della produzione, come le lotte avevano evidenziato. Ora vi sarebbero state le isole produttive, la fabbrica flessibile e fluida. La cibernetica e il terziario avanzato. Una rivoluzione. Che per passare aveva bisogno di una sconfitta operaia, di un ridimensionamento numerico e politico dei lavoratori, e delle loro avanguardie, di portata storica.
Nel complesso del gruppo FIAT i 212.000 operai del 1980 vennero quasi dimezzati, arrivando a 129.000 nel 1986. Egualmente drastica l’emorragia di addetti nel settore auto: dei 102.508 operai e impiegati che nel 1979 costituivano l’organico della FIAT Auto in Piemonte nel 1984 ne restavano solo 55.398. Il fatturato raddoppiò, la produttività  crebbe, il conflitto morì, il sindacato tornò quasi ai tempi di Valletta: nel 1985 solo poco più di un operaio su dieci risultava iscritto. Ed è storia di oggi.

6. Non trovava strano che all’epoca, accanto ai ragazzi delle classi sociali meno abbienti, entrassero nelle organizzazioni terroristiche figli della “borghesia” più altolocata come Marco Donat Cattin o Paolo Morandini?

Si parva licet, Che Guevara non era un sottoproletario. Direi che in ogni epoca e paese quasi sempre le guerriglie e tentativi rivoluzionari hanno visto come figure preminenti persone di classi sociali abbienti; il che è comprensibile, giacché le persone più istruite e meno condizionate da ricatti economici hanno evidentemente maggiori possibilità  di sviluppare rotture radicali e intelligenze critiche, disponendo di maggior formazione culturale. A rivoluzioni e guerriglie fallite, sono ovviamente e mediamente anche quelli che hanno maggiori possibilità  di avere un’altra chance di vita. Ma questo è un altro discorso, che depone semmai anch’esso per la necessità  di un cambiamento radicale nel senso di una maggiore eguaglianza sociale.
Detto questo, mi pare una volgarizzazione l’immagine giornalistica dei “terroristi figli di papà “. I dati statistici su quelle organizzazioni danno un’immagine sostanzialmente diversa. Per PL sono stati processati 923 militanti (di cui 201 donne; il 65% di età  compresa tra i 20 e i 30 anni, 83 con meno di 20 anni). Il 21,3% aveva un’istruzione media, il 25,6% superiore, il 21,7% aveva fatto studi universitari. Le categorie più rappresentate erano gli operai (18,1%), gli studenti (18,3%), gli impiegati (6,7%), i disoccupati (6,1%), gli insegnanti (4,3%), i lavoratori nei servizi (4,4%). I professionisti erano solo il 2,6%. Ancor più marcato il carattere operaio delle BR. Dei 911 militanti inquisiti per appartenenza a quell’organizzazione il 23,5% erano operai, l’8,9% impiegati, il 12,2% studenti, il 5,8% lavoratori nei servizi, il 3,9% insegnanti, il 2,9% disoccupati e solo il 3,8% professionisti.

7. Che impressione le fa, soprattutto alla luce della sua vicenda personale, vedere persone come Marco Barbone (l’assassino di Walter Tobagi, ndr) – e come lui molte altre – che grazie alla legge sui pentiti si sono visti socialmente riabilitati senza scontare alcuna pena effettiva?

Io ho sempre giudicato negativamente la scelta della collaborazione giudiziaria, nobilitata con il nome di “pentimento” dai magistrati e dai media. Non solo per un problema morale, in quanto rottura di vincoli umani ed affettivi, prima che organizzativi, ed espressione della logica “cannibalesca” della mors tua vita mea. Ma anche perché quella scelta, esplosa nei primi anni Ottanta, rispondeva a una logica ancora e paradossalmente “militare” e unicamente repressiva, con l’effetto di procrastinare quella opposta, quella che sceglieva di continuare a impugnare le armi pur nell’evidente sconfitta. Mentre sarebbe stata una sorta di “soluzione politica” la strada in grado di fermare del tutto e per sempre le armi. Lo capirono perfettamente, inascoltati, gli esponenti più lucidi della sinistra critica di allora, come Rossana Rossanda, che scrisse: «Gli adepti più fragili restarono nell’ottica della “guerra”, trasferendosi dall’altra parte, come pentiti attivi, collaboratori della polizia, come tali aiutarono a scoprire covi e dirigenze, portarono anche a operazioni inaccettabili come quelle di via Fracchia. Ma quel loro passare alla delazione avrebbe al contrario ricompattato le organizzazioni combattenti (…) se queste non fossero state ormai incrinate dalla crisi politica del loro progetto».
O figure di alto profilo morale intellettuale come padre David Turoldo: «Cosa dire di uno stato che fonda la sua sicurezza sulla delazione e non tiene in adeguato conto la dissociazione, che invece significa precisamente nuova coscienza e collaborazione a “capire”? Infatti, il pentito non dice perché lo ha fatto, dice solo chi c’era; invece il dissociato non dice chi c’era ma dice perché lo ha fatto. E questo è ancor più importante per uno stato che si rispetti. Naturalmente se vuol “capire” e trarne profitto, e magari cambiare».

Questo è il punto: lo stato allora, e anche dopo, intese semplicemente vincere, seppellendo qualche migliaio di persone in galera. Non gli interessò convincere, dunque “capire” i perché ed effettivamente elaborare e superare quella lacerazione. Anche per ciò, sia pure in sedicesimo, nei decenni successivi si sono verificati nuovi tentativi di organizzare la lotta armata. Tutte le ferite non curate sono destinate a infettarsi.

Naturalmente, anche qui, come in tutte le “categorie” tra i cosiddetti “pentiti” possono esservi state persone in buonafede, che hanno collaborato nel genuino intento di porre freno ai morti, e altri che invece hanno privilegiato solo le proprie convenienze e impunità , come quel Roberto Sandalo che ha poi continuato a operare sino a oggi in modo illegale, con un ruolo di provocazione al probabile servizio di qualche sottobosco di questura o di servizio segreto.
Altri, come Barbone o lo stesso Donat Cattin, nonostante l’impunità  assicurata, hanno invece poi ricevuto dalla vita un destino beffardo e doloroso.

Tuttavia, non penso che l’unica pena e risarcimento possibili siano quelli del carcere. Pur avendo io scontato la pena decisamente più lunga tra i miei compagni di PL, nonostante fossero responsabili e condannati per i medesimi reati, non ho alcun risentimento verso alcuno, “pentiti” compresi. Ho avuto modo di capire e sperimentare che il carcere non è una medicina, semmai spesso la malattia e che le persone il più delle volte cambiano e migliorano non grazie alla detenzione, ma nonostante essa. Che dunque non auguro veramente a nessuno.

8. In Italia c’è una certa area di contestatori degli anni Settanta, più o meno agguerriti, che oggi siede comodamente nelle poltrone del potere. Giusto per fare qualche nome: Marco Boato, Luigi Manconi, Paolo Cento e Marco Rizzo sono o sono stati parlamentari di lungo corso, Gianfranco Miccichè è attualmente sottosegretario, Paolo Liguori, Giampiero Mughini e Toni Capuozzo firme di punta di Mediaset, per non parlare di Adriano Sofri, da raffinato politologo ad efferato mandate di omicidio. E questi nomi fanno parte solo dall’alcova di Lotta Continua. E’ possibile che esista una lobby, magari fondata sul ricatto, che unisce queste persone ancor oggi?

Queste persone, per quanto note e rappresentative, sono un’infinitesima parte dei movimenti dell’epoca. Non credo costituiscano una lobby, anche se molte di loro hanno scelto di rimuovere quel tipo di memoria ed esperienza e di rinnegare vicinanze e contiguità . Altre, come ad esempio Luigi Manconi, l’hanno invece indagata, anche in chiave autocritica, attraverso libri e testimonianze. Certo, noi lottarmatisti ormai siamo e veniamo presentati come figli di nessuno, quando invece PL nasce sostanzialmente nelle sezioni di LC e le BR in quelle del PCI, salvo poi immediatamente separarsene. O addirittura viene rivendicata dagli estremisti di ieri una funzione di contenimento della deriva militarista da noi effettivamente rappresentata. Qui mi pare più onesto il ragionamento di Erri De Luca, anch’egli di Lotta Continua: «La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività  l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica». E il suo ricordo, a proposito delle armi in possesso di Lotta Continua: «Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare».

9. Qualche anno fa nel dibattito circa l’opportunità  o meno dell’elezione nelle file della Rosa nel Pugno di Sergio D’Elia, suo ex-compagno in Prima Linea, lei è intervenuto a suo favore. Non trova che chi ha combattuto lo Stato e il suo ordine costituito con le armi non dovrebbe poi, da vinto, farne parte? Sia chiaro, nessuno vuole privare agli ex terroristi i diritti civili (infatti D’Elia si è potuto sedere a Montecitorio senza che nessuna legge glielo impedisse), parlo solo di opportunità . Sarebbe come se Riina, dopo aver saldato il suo debito con la giustizia, diventasse sindaco di Corleone. Suona male, non trova?

Di nuovo, si parva licet, sarebbe come dire che Paolo di Tarso non avrebbe dovuto e potuto diventare cristiano. L’uomo e il reato che ha commesso, l’errore e l’errante, non sono la stessa cosa. Se il reato resta purtroppo pietrificato al momento in cui si è verificato, specie se si tratta di un reato irrimediabile come l’omicidio, l’autore del reato, l’uomo, si modifica e cambia. Questo è il presupposto del diritto moderno e dell’intero ordinamento penitenziario, senza il quale vi sarebbe spazio solo per la vendetta.
Non so se suoni male che chi ha combattuto lo stato poi vi aderisca, mi pare invece rappresenti, anche simbolicamente (e i simboli hanno grande valore ed efficacia), la vittoria dello stato di diritto sulle pulsioni di vendetta, la supremazia della democrazia sulla logica dello scontro e delle armi. Anche perché forse quello di oggi è uno stato diverso da quello dei primi anni Settanta, che era in bilico tra soluzioni autoritarie e nuova democrazia. Il nostro – tragico – errore fu di non capire che la strategia del golpe era stata definitivamente superata alla fine della prima metà  di quel decennio e che i segmenti di istituzioni e di potere politico che pure sin lì avevano coltivato e tenuto in campo quella ipotesi, da allora scelsero una nuova e più conveniente strada: quella di destabilizzare per stabilizzare, anche inizialmente lasciando mano libera all’eversione di sinistra. Non si dimentichi tuttavia che strutture occulte dello stato, come la cosiddetta Gladio civile, sono state sciolte solo nel 1984 o che il complotto della loggia massonica P2, cui aderivano, tra i tanti, tutti i vertici dei servizi segreti e dell’antiterrorismo dell’epoca, è stato scoperto e interrotto solo nel 1981.

Non è quindi solo un problema formale: le pene, tranne quelle dell’ergastolo e di morte – peraltro concettualmente simili – prevedono un termine e questo termine va accettato e rispettato, anche se capisco che può non essere facile per chi è stato colpito. Come del resto è stato accettato, senza in quel caso neppure le diffuse proteste che hanno segnato la vicenda D’Elia, che i “pentiti” di cui si parlava prima, o i Brusca di oggi, rimanessero sostanzialmente impuniti. Anche l’esclusione dai pubblici uffici, l’elettorato attivo e passivo, costituisce una pena accessoria che può essere a termine o perpetua. Se a termine, appunto termina.
Oltre alle polemiche e alle perplessità , ciò che di fondo ha rivelato il caso di D’Elia è che per una quota significativa degli intervenuti, e in particolare per diversi commentatori e opinion leader, il carcere è una pena non sufficiente. Si vorrebbe qualcosa di più. Non arriva a essere proposta la pena capitale, ma si auspica almeno la morte civile, l’ergastolo bianco: la condanna al silenzio e all’invisibilità , a un “di meno” di diritti. Un marchio perenne. Proprio come quello di cui narra Franz Kafka nella Colonia penale. Non più inciso sul corpo del condannato, ma ancora più indelebilmente nei suoi documenti, nella sua possibilità  di tornare nella società  e nel mondo del lavoro. O alla politica, se crede. Di essere cittadino come gli altri, avendo scontato per intero il corrispettivo stabilito dalla legge e dai tribunali per i reati compiuti. L’irrisarcibilità  della vita umana attiene altre sfere, quelle morali e delle coscienze individuali. E non può che essere così, pena il rischio di uno Stato etico e autoritario. Sul piano pubblico, non possono che valere le leggi, i loro confini. Ed è in ogni caso fattuale che, in virtù delle leggi d’emergenza, il trattamento penale nei confronti dei militanti armati è stato maggiorato da un terzo alla metà  in più rispetto a colpevoli dei medesimi reati senza l’aggravante di terrorismo.

Non dovrebbe poi sfuggire che la vera e propria campagna scatenatasi negli ultimi anni tesa a chiedere (ma sarebbe più proprio dire a imporre), a furor di popolo e di media il silenzio degli ex terroristi, può avere alle spalle una genuina, per quanto a senso unico, indignazione ma così pure un intento nascosto: quello di consacrare come indiscutibili, ultimative ed esaustive le ricostruzioni invece monche e falsate di quegli anni ormai sedimentate a livello sociale. Tanto che, ad esempio, si continua a sostenere da praticamente tutti i commentatori ed editorialisti che la strage di piazza Fontana è rimasta senza verità  e senza colpevoli, quando invece l’ultima sentenza, passata in giudicato, afferma la responsabilità  delle cellule neofasciste venete e in specifico di Freda e Ventura, a lungo coperti da servizi segreti e apparati statali. Il quale Freda, impunito perché non processabile due volte, può continuare a fare apertamente propaganda e attività  nazista, persino invitato nelle scuole, senza che nessuno dei tanti linciatori – di sinistra, centro e destra – di Sergio D’Elia o le associazioni delle vittime abbiano eccepito alcunché.
Con la perentoria imposizione del silenzio, assieme agli eventuali «protagonismi» di qualcuno, si inibisce qualsiasi lettura del passato difforme da quella ufficiale e interessata, la quale afferma l’esclusiva responsabilità  delle organizzazioni armate di sinistra e che ha lasciato impunito lo stragismo, così come ha autoassolto la classe politica e i pezzi di istituzioni che hanno avuto ruolo in quegli anni nel promuovere e utilizzare la strategia della tensione, oltre che nelle tante forme di degenerazione, illegalità , corruzione, rapporti con la mafia da parte delle forze di governo della Prima Repubblica.
Si tratta di una sapiente strategia che porta a compimento l’opera di falsificazione storica e semantica: i sommovimenti sociali degli anni Settanta, dei quali la lotta armata è stata una – parziale – espressione e dai quali le organizzazioni armate hanno preso le mosse, sono stati, tout court, definiti eversione. La violenza politica e il conflitto sociale radicale e antistituzionale sono stati sovrapposti ed equiparati alla lotta armata. La lotta armata di sinistra è stata definita terrorismo.
Il terrorismo, invece, è stato propriamente quello della destra, nella sua specifica versione stragista, che particolarmente in Italia, in quegli anni, è stata la strategia lucidamente e sanguinosamente utilizzata dai gruppi della destra radicale – come ho detto e come è documentato in montagne di dimenticati atti parlamentari – finanziati, appoggiati e utilizzati da ambiti della destra atlantista e dai governi (e dagli apparati militari e di intelligence) dittatoriali che circondavano allora l’Italia: Grecia, Spagna, Portogallo, Turchia. Nonché protetti e utilizzati dai servizi segreti, da apparati del ministero dell’Interno e da settori delle forze politiche e di governo italiani.
Si arriva così alla tappa conclusiva di una lettura di quegli anni che, gettando ogni responsabilità  sul terrorismo (locuzione con la quale ormai si intendono solo le organizzazioni armate di sinistra), contemporaneamente e così facendo assolve (autoassolve) ogni responsabilità  istituzionale nella strategia della tensione, che ebbe lo stragismo come suo strumento.
Vi è qui, così, una riedizione postuma del compromesso storico, laddove l’ex PCI e l’ex DC collaborano a sedimentare questa verità , affinché le loro attività  – anche illegali – connesse al quadro di Guerra fredda e ai relativi rapporto internazionali possano rimanere nascoste e impunite in nome della Ragion di Stato.

Insomma, quegli strateghi e quegli esecutori (pezzi di servizi segreti, Ufficio Affari riservati del Viminale, pezzi di potere politico e di istituzioni): hanno compiuto il delitto perfetto. Non solo si sono garantiti l’impunità , ma hanno fatto in modo che dei loro delitti venisse incolpato qualcun altro, a furor di popolo e di disprezzo pubblico. Così che oggi numerosi sondaggi nelle scuole testimoniano che per la maggioranza dei giovani studenti è convinta che la strage di piazza Fontana, e quella di Brescia o di Bologna, siano state opera delle BR.
Beninteso: i terroristi non sono stati innocenti. Tutt’altro. Noi abbiamo avuto gravi e pesanti responsabilità , abbiamo commesso disastrosi e irreparabili errori. Ma tutto ciò andrebbe infine ricondotto all’analisi storica della Guerra fredda e della lotta di classe. E bisognerebbe sforzarsi di conservare un senso delle proporzioni. Cosa che da tempo i nostri commentatori non sembrano fare. Come quell’editorialista del Giornale che ha scritto, in riferimento a Erich Priebke, il responsabile della strage delle Fosse Ardeatine: «Posso dire, senza suscitare scandalo, che quest’uccisore di ostaggi m’ispira meno disgusto dei terroristi italiani».
Commenti interessati e sintomo di un galoppante e generale revisionismo storico, tanto più pericoloso in quanto non più contrastato, grazie alla cortina fumogena del rogo per gli ex terroristi.

10. Lei ha scontato 22 anni di carcere. Secondo la Costituzione, la pena serve per rieducare il condannato. E’ stato così per lei? C’è un problema carcerario in Italia? Secondo lei, perché la politica, tra una reato di immigrazione e una legge ad personam o ad personas, non se ne occupa?

Credo valga quanto scritto da Indro Montanelli che, peraltro, occorre ricordare, fu ferito dalle BR: «Le loro colpe i terroristi le hanno pagate non tanto coi lunghi anni di permanenza dietro le sbarre, quanto con la presa di coscienza non solo della inutilità , ma anche della fallacia di tutto questo». Come ho detto, avendole sperimentare a lungo, non credo alle virtù terapeutiche del carcere.
L’istituto penitenziario di oggi permane, da molti punti di vista, come un pezzo di medioevo, come una risposta sbagliata, controproducente, umanamente ed economicamente costosa, alle esigenze di difesa sociale.
E qui vorrei ricordare quanto scrisse in una lettera nel 1949 Ernesto Rossi a Piero Calamandrei: «Mentre scontavo la mia pena molte volte ho ripetuto ai compagni di cella che gli uomini politici i quali in passato avevano assaggiata la galera, portavano la grave responsabilità  dell’ordinamento carcerario esistente, indegno di un popolo civile, perché, tornati in libertà , non avevano illuminata l’opinione pubblica sul problema e non avevano mai preso seriamente a cuore la sorte dei detenuti».
Fatto sta che, anche per la sinistra, anche per i Pertini, l’umanizzazione delle pene non è mai stata una priorità . Mentre spesso ha rincorso, e sempre più rincorre, le destre in una visione distorta della sicurezza, che attribuisce alle manette e alle sbarre valore taumaturgico, mentre invece sono solo un tappeto sotto il quale si pensa di poter all’infinito nascondere la spazzatura.
Il carcere, ieri e oggi, è semplicemente e principalmente (gli imputati o condannati per gravi reati sono solo il 15%) un deposito di poveri, di vite a perdere: immigrati e tossicodipendenti in primo luogo, e poi malati psichici, senza dimora, disagiati di vario genere. Di questi poveri, il carcere è, letteralmente, gonfio. Come un ascesso pronto a esplodere. Una ferita piena di pus sociale, di scorie umane che la società  ha rifiutato e allontanato nell’illusione di preservare se stessa o nell’inconfessata tendenza a trasformare anche il delitto e l’insicurezza in un fiorente e inesauribile business.

La politica, specie quella attualmente al governo, ha cinicamente scelto di non occuparsi del problema per più motivi: per ragioni di business, appunto, per poter andare verso una crescente privatizzazione del settore, o almeno di suoi segmenti, su modello statunitense. In un libro dal titolo significativo, Il business penitenziario − La via occidentale al gulag, il criminologo Nils Christie afferma: «Il tema è semplice. Le società  di tipo occidentale si trovano ad affrontare due problemi principali: la ricchezza è distribuita ovunque inegualmente; così pure l’accesso al lavoro retribuito. Entrambi i problemi sono in potenza fonte di conflitti. L'”industria” del controllo del crimine è adatta ad affrontarli entrambi. Questa industria da una parte fornisce profitto e lavoro e dall’altra produce il controllo di coloro che altrimenti potrebbero disturbare il processo sociale».
Altro motivo risiede nel progressivo venire meno delle protezioni del welfare, così che le celle diventano un sostituto autoritario delle politiche sociali e appunto si riempiono di soggetti, problematiche e patologie che avrebbero invece necessità  di cura e sostegno sul territorio. Vi è poi, anche qui, un gioco di specchi (analogo a quello messo in atto per tutelare le verità  inconfessabili della Prima Repubblica indirizzando colpe e indignazioni oltre misura sugli ex terroristi) teso a focalizzare paure, rancori, insicurezze, sui settori della marginalità  sociale per sgravarne simmetricamente il sistema politico ed economico, quello dei privilegi e delle caste, i responsabili delle crescenti diseguaglianze, secondo il classico e sempre funzionante modello delle “guerre tra poveri”.

11. Ciclicamente, una parte dell’Italia denuncia le efferatezze o le inadempienze della magistratura, soprattutto inquirente. Siamo un Paese con un potere giudiziario anomalo oppure siamo semplicemente più insofferenti alle regole che nel resto d’Europa?

Penso sia affermabile che anche questo, e il perdurante conflitto tra politica e magistratura, siano un frutto avvelenato degli anni Settanta e della risposta emergenziale posta in essere per contrastare lotta armata e terrorismo. Allora il potere politico scelse, obtorto collo, di attribuire una delega in bianco alla magistratura attraverso appunto il complesso delle leggi di emergenza. Quella delega non è mai stata restituita. La madre di tutte le emergenze, quella sul terrorismo, ha figliato quelle successive: corruzione, mafia, droghe, immigrazione, violenza negli stadi, fondamentalismo islamico e via di questo passo, con la logica e le norme di eccezione che sono divenute prassi corrente. L’emergenza si è via via riprodotta sino a stabilizzarsi nei codici e nelle procedure, indirettamente alterando il precedente equilibrio di poteri. Da questo punto di vista vi è un’anomalia. Che legittimamente può però essere vista come risposta necessaria all’altra anomalia, quella di un potere politico che si intende irresponsabile e di un sistema economico-istituzionale gravemente e perdurantemente inquinato dal sistema delle tangenti.

12. L’Italia di oggi è diversa dall’Italia degli anni Settanta?

Molto e allo stesso tempo molto poco. È cambiato il mondo, non solo il secolo. È mutato in profondità  il sistema economico e produttivo, con il tramonto del fordismo e l’avvento della cibernetica, dell’informatica, dei beni materiali, della comunicazione istantanea e globale, delle nuove tecnologie. È mutato il sistema sociale, si è rivoluzionata persino la geografia. È avvenuta una trasformazione oserei dire antropologica della politica, e non per il meglio, con una personalizzazione, verticalizzazione, perdita di contenuti; il marketing ha soppiantato le ideologie, la navigazione a vista il progetto, il narcisismo personale ha buttato nella spazzatura la passione e dedizione alle cause. L’ossessione del presente ha smarrito ogni idea e cognizione della posterità , del futuro e delle relative responsabilità . Oggi è divenuta filosofia acquisita e cinismo corrente la battuta di Woody Allen: «Perché dovrei interessarmi dei posteri? Cosa hanno fatto loro per me?».
Il Novecento è stato secolo forse breve ma assai insanguinato: nel suo corso le persone uccise in atti di violenza di massa sono state tra i cento e i centocinquanta milioni; alcune fonti propongono addirittura la cifra di 200 milioni (anche qui, a proposito di senso della storia e delle proporzioni). Quello nuovo è cominciato, mutadis mutandis, all’insegna di un nuovo terrorismo e di un rinnovato interventismo bellico delle potenze occidentali. L’Italia è più opulenta e più disperata di quarant’anni fa. Ma ancora conserva inalterate le stesse ferite e lacerazioni. Non ha saputo né voluto elaborare quegli anni e suturare quelle ferite, almeno quelle sociali, poiché quelle individuali sono insanabili. E quella guerra civile strisciante e a bassa intensità  che la mia generazione aveva ereditato dal lungo dopoguerra italiano sembra voler cercare nuove strade per riemergere pur in forme nuove e contesti incomparabili.
Nelson Mandela ha scritto: «L’esperienza altrui ci ha insegnato che le nazioni che non fanno i conti con il passato ne sono ossessionate per generazioni». E infatti da noi c’è una polemica quotidiana e un odio diffuso che affondano ancora le radici non negli anni Settanta ma addirittura nei Venti, Trenta e Quaranta. Mandela e il suo paese, dopo un vita di carcere, di apartheid, di lotte e di guerriglie, si sono inventati il tribunale per la verità , la giustizia e la riconciliazione.
Da noi di riconciliazione non vi è nemmeno l’ombra, a parte i casi individuali, che sono tanti e nobili ma invisibili, giacché i media preferiscono enfatizzare solo le voci del rancore vendicativo. La giustizia si è contentata di celle, ergastoli e capri espiatori. E per la verità  valgono le parole dello scrittore Leo Longanesi: «Quando potremo dire tutta la verità , non la ricorderemo più».

Intervista a cura di

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